
Jacques Lacan, grande filosofo, psichiatra e psicanalista francese, che tanta influenza ha avuto sulla cultura del XX secolo, può insegnarci un modo per relazionarci con gli studenti: un modo semplice, ma che – proprio per questo – risulta geniale e in un certo senso ancora, purtroppo, rivoluzionario.
Figura di primo piano della cultura e del movimento psicoanalitico francese, Jacques Lacan nasce il 13 aprile 1901 a Parigi, in una famiglia della media borghesia cattolica. Viene inizialmente istruito al collegio Stanislas, dove si avvicina alla lettura del filosofo Spinoza. Al termine degli studi collegiali entra in contatto con il movimento surrealista, ed in particolare con il teorico André Breton, con il quale condivide la passione per la scrittura automatica, frutto di libere associazioni mentali e della creatività linguistica. Decide di iscriversi alla facoltà di medicina, specializzandosi in seguito in psichiatria: in questo periodo è allievo di G. Clérambault, studioso dell’automatismo mentale e da lui definito come “il nostro unico maestro in psichiatria” , e di Kojève, che lo introduce alla lettura della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Prima di specializzarsi nel 1932 con una tesi sulla nozione psicoanalitica di follia e di intraprendere un percorso di analisi con Lowenstein, Lacan inizia il praticantato presso l’ospedale di Sainte-Anne, sede dei futuri seminari da lui tenuti ogni mercoledì.
Nel 1934 diventa membro iscritto della “Societé Psychanalitique de Paris”, e due anni dopo partecipa al XIV Congresso internazionale di Psicoanalisi, con un lavoro intitolato Lo stadio dello specchio, primo passo verso una riscoperta degli insegnamenti di Sigmund Freud. Infatti, Lacan è uno strenuo sostenitore di “un ritorno a Freud”, il cui grande merito va attribuito alla “rivoluzione copernicana” del decentramento del soggetto: egli si schiera contro le evoluzioni del pensiero freudiano, vale a dire la psicoanalisi ortodossa ed il movimento psicoanalitico americano, il cui interesse marcato per l’aspetto terapeutico costituirebbe una degenerazione della lezione freudiana.
La critica alla psicoanalisi ortodossa porta alla sua “scomunica” dall’Associazione Psicanalitica Internazionale ed alla fondazione della “École freudienne de Paris”, affiancata dalla pubblicazione della rivista Scilicet; inoltre, i risaputi contrasti con la psicoanalisi americana lo inducono nel 1975 a recarsi negli U.S.A. con l’intento di risanare l’applicazione del pensiero psicoanalitico di quel Paese.
I seminari di Lacan, tenuti dal 1953 al 1980, sono stati raccolti in diversi volumi, e ad essi hanno presenziato diverse figure di spicco della filosofia francese.
Lacan muore nella sua città natale il 9 settembre del 1981, a causa di un tumore.
Nella sua formazione ed evoluzione filosofica e psicoanalitica hanno influito, oltre agli studi di Sigmund Freud, i contatti e le relazioni con importanti personalità del tempo, come il già citato André Breton, Claude Lévi-Strauss, Maurice Merleau-Ponty, Roman Jacobson.
Le tappe della costruzione del soggetto: l’incontro con immaginario, simbolico e reale
Jacques Lacan postula la nascita del soggetto come alienato, non definito e non compiuto: chi parla in realtà non è l’individuo, bensì l’inconscio, sede della verità, anonima, indipendente ed opposta al sapere, dominio di un oggetto.
Il soggetto, quindi, non è il dato originario della vita psichica dell’individuo, ma il risultato di una costruzione.
- La prima tappa, definita immaginario, abbraccia l’arco temporale che va dai 6 ai 18 mesi, periodo in cui il bambino acquisisce la percezione di sé attraverso la propria immagine riflessa nello specchio o l’immagine dell’altro: il bambino si identifica con l’altro, elabora un primo abbozzo della propria soggettività, ma in una relazione duale di confusione tra sé e l’altro.
Tale identificazione è primaria, matrice di tutte le altre, in quanto il desiderio del bambino viene a coincidere con il desiderio dell’altro: se i bisogni fisiologici primari sono inseparabili e subordinati al riconoscimento ed all’amore da parte dell’altro è perché il desiderio del bambino è strutturato in relazione alla fonte di sostentamento principale, che nella società occidentale solitamente coincide con la madre. - Nella seconda fase di sviluppo dell’individuo, chiamata simbolico, rispetto alla specularità dei desideri del bambino e della madre, viene ad interporsi il padre, figura della legge, la cui parola produce la rottura del desiderio della madre (con la conseguente sostituzione della prima incarnazione d’amore con oggetti che richiamano il desiderio infranto), la castrazione: la rimozione dell’immaginario è frutto dell’intervento dell’ordine simbolico, insieme delle convenzioni sociali esterne al soggetto e preesistenti, come il linguaggio.
Il bambino si trova dunque ad essere modificato e costruito dal linguaggio, la “legge del padre”: con l’accesso all’ordine simbolico si entra al tempo stesso nella società e nella cultura, elementi necessari allo sviluppo della soggettività.
L’individuo diventa così portavoce di un sistema sociale riconosciuto anche dalla madre, identificandosi in una cultura collettiva invisibile, impalpabile, ed onnipresente.
Come detto precedentemente, l’esperienza del mondo da parte del bambino è determinata dall’accesso all’ordine del linguaggio: il soggetto percepisce il mondo in termini di linguaggio naturale della propria comunità, e costruisce la propria identità per mezzo dei master signifiers, concetti con cui l’individuo si identifica e struttura l’ordine della realtà, riordinando il senso del sé e le relazioni con l’altro. - Il terzo stadio, il “reale” (da non confondere con la realtà, insieme di immaginario e simbolico), racchiude il margine del non detto e del non dicibile, che resta inattingibile perché in mezzo si trova l’ordine simbolico: la legge del padre, spostando la pienezza del legame con la madre, ha fatto sì che si desideri ciò che non si ha, cosicché il reale diventa lo scopo irraggiungibile, che perpetua eternamente il desiderio.
L’uomo, che ha perso la propria unità nell’auto-riconoscimento nell’alterità della propria immagine esteriore, stratificazione delle identificazioni ideali della società (master signifiers), crede che l’altro abbia il potere di accedere al reale.
Il soggetto, spinto dalla proibizione del padre alla ricerca del sostituto metonimico del desiderio primario, potrà giungere alla consapevolezza del sé solo se sarà capace di comprendere che l’altro non possiede la conoscenza della natura dei master signifiers e del reale.
La decostruzione del potere dell’altro porta l’individuo all’esperienza personale e soggettiva del mondo, alla libertà dalle sedimentazioni ideologiche della società in cui vive.
I paradigmi della contemporaneità
Nell’epoca in cui viviamo, l’era della globalizzazione, della medialità, della massificazione dell’esistenza, la creazione e la proliferazione di modelli sono pratiche reiterate e reificate quotidianamente.
L’ossessione per l’efficienza, la condizione per la quale data una determinata aspettativa deve esserci sempre e solo un risultato, ha contribuito alla diffusione di immagini preconfezionate per l’uomo contemporaneo, tanto più funzionali quanto più prossime a rispondere nella maniera maggiormente completa e proficua alle logiche di sapere-potere caratteristiche della società in cui siamo nati.
Il paradigma (o per meglio dire i paradigmi) a cui l’uomo del nostro tempo aspira è stato costruito secondo parametri che rispondono perfettamente alle politiche di mercato, alla capacità di produrre quanto richiesto secondo le modalità adeguate e nel tempo prestabilito, reificando tale comportamento all’infinito, in una prospettiva di graduale esaurimento, con il fine supremo di perpetuare lo status quo della contemporaneità, vale a dire la (mala) ripetizione di gesti automatizzati, assoggettati alla logica della globalizzazione e della tecnicizzazione di massa.
L’era contemporanea tende dunque a creare macchine perfette (o almeno perfettibili), programmate per rispondere immediatamente allo stimolo esterno, non per interrogarsi sul perché (o sui perché) di tale responso, limitandosi ad accondiscendere in maniera robotica alle richieste di un sistema superiore ed onnisciente, unica fonte (presupposta) di verità.
La promozione tecnologizzata della vita, nell’operazione di modellamento di sculture sempre più strutturate in base all’idea di perfezione, ha generato la normazione ed il disciplinamento di ogni aspetto della quotidianità, dando vita a modelli di riferimento da seguire, conditio sine qua non per essere considerati “adatti” alla situazione storico-sociale contingente.
Il canone imperante, riflesso della pratica e dell’idea di efficienza, veicola un concetto di uomo infallibile, sempre in grado di affrontare un determinato problema nella maniera attesa, ad ogni modo abile nell’immagazzinare la maggiore quantità di nozioni necessarie ad eventi futuribili.
In tale concezione di perfezione l’idea di errore è bandita, il pensiero della diversità, del discostamento dal paradigma comune, dell’estraneità alle norme codificate dalla globalizzazione scacciato come portatore di peste.
Di conseguenza, nel disagio della civiltà contemporanea, caratterizzata dallo scientismo e dalla tecnicizzazione esistenziale, l’offerta identificatoria è costruita attraverso metri di riferimento, esplicitati con nuovi termini e nuove attribuzioni dalla simbologia globalizzante.
La tendenza alla generalizzazione si spinge fino a eliminare le differenze tra l’individuo e l’altro, in cerca di un’identificazione fissa e immutabile che mascheri apparentemente l’angoscia del soggetto: il luogo primo in cui tale rivestimento ricopre un ruolo fondamentale è il linguaggio, l’ordine simbolico di lacaniana memoria.
La legge del padre, nella società della mercificazione di massa, reifica abiti stretti, con etichette incollate definitivamente, che impediscono il movimento e che oltretutto sono già stati indossati da altri: le costruzioni culturali del nuovo millennio, in primis il linguaggio della medialità, hanno dunque dato vita ad un pacchetto già chiuso e confezionato, in cui ognuno deve riconoscersi (pena l’esclusione) e da cui ciascuno deve attingere le norme della buona condotta.
L’identificazione in modelli preselezionati e idolatratati porta alla creazione di morti viventi in uniforme, perpetuando il concetto di “banalità del male”: essere come devo essere e non come sono realmente per essere accettato, non importa se ciò implichi il calpestamento del proprio pensiero e della ricchezza del sentire personale, del proprio desiderio.




L’abitudine e l’assuefazione ai dettami provenienti dalla società dei mass-media e della mercificazione collettiva hanno inculcato nel genere umano l’idea che solo l’élite della comunicazione possa avere libero accesso alla verità, al reale di cui parla Jacques Lacan.
Quindi, l’orientamento generalizzato al miglioramento delle prestazioni e la ricerca della perfezione senza limite da parte dell’individuo del XXI secolo nascono dall’illusione di poter giungere un giorno alla forma ultima, in grado di fornire la chiave per entrare nel giardino proibito della verità, nell’eden del reale.
Le identificazioni proposte dall’alto come normalizzanti e foriere di successo presuppongono l’omologazione della classe inferiore, ossia l’insieme degli individui del nostro tempo: ogni discostamento dalla norma verrà pre-giudicato come deviazione dall’immobilità perfetta dell’immagine di riferimento, riflessa dallo specchio della contemporaneità.
In questa epoca, il soggetto è chiamato a conformarsi, ad essere flessibile, in ultima istanza a farsi riprogrammare per rispondere alle esigenze del discorso globalizzante: il luogo in cui tale re-settaggio si applica con maggior forza ed insistenza è la scuola.
I paradigmi della contemporaneità nella scuola
Nelle istituzioni scolastiche per decenni si è incentivato un modello oggettivo: l’immagine dello studente capace di rispondere nelle modalità imposte a priori e nel lasso di tempo più breve possibile alle sfide dell’apprendimento.
Lo stesso concetto di insegnamento risponde a logiche di profitto, circostanza ben evidenziata dalla proliferazione di test a risposta chiusa, la cui valutazione anonima, quantificabile, scientifica, con una sbandierata presunzione di imparzialità, prevede una sola risposta possibile.
Lo studente è così imbrigliato nella condizione di aspirare al sublime numerico, quel 10 che indica non tanto la ricchezza del suo sentire interiore, o la preziosità della sua peculiarità identitaria, quanto l’assimilazione di nozioni provenienti dall’alto, da un sistema invisibile eppure onnipresente, con il fine di riprodurre valori spendibili nel campo della società della medialità e della tecnica.
L’immagine a cui conformarsi in ambiente scolastico, pena l’estromissione dal futuro mondo del lavoro (e quindi della realtà, della vita) e del successo misurabile, è una sorta di automa, una macchina perfetta in grado di rispondere immediatamente ad un input immesso dall’esterno nella sola procedura possibile e condivisa, senza la speranza di poter riflettere sulle reali motivazioni che hanno portato al prodotto finale.
Il 10 è dunque la meta auspicabile, il traguardo da tagliare per primi, in una corsa giornaliera tra fittizie auto da corsa, in una competizione senza premi reali né libertà futura, con la sola illusione di poter accedere un giorno al tempio del reale, della verità, di quel nucleo di supposte conoscenze esclusivamente in grado di rendere felice lo studente.
E perché non affiancare al successo scolastico, quantificabile in numero di nozioni immagazzinate e ripetute senza cognizione di causa, l’immagine dello studente prestante o della studentessa modella? Non vale, forse, più che mai, nel tempo attuale, la massima “mens sana in corpore sano”? Non viene avvalorata, attraverso le proiezioni mediatiche massificate, l’idea dell’importanza di possedere un aspetto attraente e tonico, simbolo della facoltà di rispondere brillantemente alle sfide della contemporaneità, della possibilità di superare efficientemente gli ostacoli incontrati lungo il cammino?
L’immagine dello studente-modello (inteso sia in senso scolastico che estetico) è onnipresente, reificata all’infinito, trasformata in realtà fallacemente tangibile da una sovrastruttura che tende all’ideale del profitto: si evince da quanto detto che ogni deviazione, benché minima, dal pre-concetto costituito provoca generalmente disorientamento, demotivazione, apatia, alienazione.
In ambito scolastico, la diffusione di un immaginario da rispecchiare, in cui riflettere il proprio volto e la propria persona, in cui riconoscersi ad ogni costo, è consuetudine comune per potersi avvicinare gradualmente alla verità, al reale, ritenuto custodito da un ente superiore, invisibile, fisicamente non esperibile, identificabile con il Ministero.
Ad ogni modo, il Ministero, nonostante considerato dai più come il deus ex-machina del processo di insegnamento/apprendimento, sottostà a logiche di sapere-potere generate e riprodotte dalla contemporanea società globalizzata.
L’ente superiore dell’istruzione adotterà un codice personale, un linguaggio ad hoc, un ordine simbolico, con il compito di ingabbiare in categorie pre-costituite l’identità dell’individuo da formare, vale a dire lo studente.
Questi, inizialmente, costruirà la propria identità in base all’immagine della macchina perfetta, l’altro-da-sé, del dispositivo dotato di risposte senza il dubbio della domanda, e provvisto di una forma invidiabile; successivamente, sarà strutturato soprattutto dai master signifiers, le parole d’ordine frutto delle infime intenzioni della società globalizzata, personificata nel contesto scolastico dalla normativizzazione e dall’omologazione portate avanti dall’ente invisibile.
Master signifiers come “competenza”, “credito formativo”, “eccellenza”, “efficienza”, “profitto” sono contenitori vuoti, privi di significato reale, ma che investono direttamente e completamente lo studente, plasmandolo secondo una logica che tende a privilegiare le capacità di produzione di un qualcosa di già conosciuto e della sua riproduzione anonima, senza il benché minimo interesse nei confronti del sentire interiore del produttore, la persona che si affaccia sul mondo, della creatività dello studente, miseramente ridotto a mera macchina banale, computer che può fornire un output oggettivo ed univoco ad un preciso input.




Prospettive didattiche alla luce della lezione di Jacques Lacan
Come liberare, allora, l’alunno, lo studente, dall’oppressione invisibile della perfetta macchina globalizzata, procreatrice di immagini strabilianti a cui conformarsi, di cornici adattabili ad ogni situazione, con l’utilizzo di un linguaggio codificato per scopi produttivi?
Con quali mezzi spezzare le catene forgiate dalla società attuale che imbrigliano il futuro cittadino del mondo, liberandolo dal tentativo di omologazione e normalizzazione dell’esistenza per paura del diverso, dell’Altro , dell’ignorante, dell’inefficiente?
Lacan ci trasmette in merito un’idea preziosa, apparentemente scontata ma geniale per il tempo dell’egoismo, dell’invidia, della fortificazione di barriere interiori ed esteriori, della falsa uguaglianza: ascoltare l’Altro.
L’Altro, inteso non come immagine avulsa di un modello da seguire senza tregua e senza volontà, feticcio del tempo del consumismo, detentore di una verità a cui l’individuo tende illusoriamente, bensì l’Altro in quanto diverso, differente, estraneo ai canoni imperanti nel secolo della mercificazione dell’esistenza.
Porgere l’orecchio all’Altro è il primo passo per la liberazione dalle costrizioni sociali: comprendere ciò che l’Altro desidera comunicare è il gesto innocente e forte per dar vita ad una reale accettazione ed una vera accoglienza delle molteplicità identitarie esistenti nel mondo.
Non possiamo, né dobbiamo, essere vittime della filosofia del consumo, che arriva ad investire persino (e direi soprattutto) il campo dell’istruzione; è necessario reimpostare il processo di insegnamento/apprendimento sul principio della mutua accettazione e dell’ascolto reciproco, spezzando il giogo di una politica scolastica che insiste nel marcare con il vivido colore del sangue la minima deviazione dalla norma, l’errore.
Il ragazzo dislessico, lo studente straniero, il discente con ADHD, l’alunno con handicap non possono assolutamente essere “esiliati” dal contesto di insegnamento/apprendimento, con il miserrimo intento di eliminare le singole tracce di differenziazione rispetto al campione di riferimento, perché “inadatti” ad accedere ad una realtà di produzione e di reificazione (incluso della stessa identità), al contrario devono essere compresi, accettati, inclusi, in quanto l’errore, caratteristica imprescindibile della loro persona è una ricchezza da custodire e preservare dalle mire nemiche (la società odierna).
Infatti, l’errore è la parola che vorrebbe fuoriuscire dalle rigide sbarre di una codificazione a priori, di una struttura chiusa in sé stessa, che bandisce ogni forma di creatività, per rivelare altri spazi, altri mondi, altre verità: d’altro canto, “l’errore è una parola che confessa”, dice Lacan .
L’errore è ascrivibile in prima istanza al livello linguistico: disordine del reale, è la fuoriuscita dalla corretta legge del padre, l’ordine simbolico della realtà.
L’errore, secondo Lacan, costituisce un tassello di “lalingua” , insieme di elementi slegati, dispersi, disarticolati, nell’impossibilità di costituire un sistema linguistico, la norma primaria.
Lalingua si compone di parole apparentemente insignificanti, e che per tale ragione richiedono orecchie che abbiano davvero la volontà di ascoltare e di intendere, orecchie che non si lascino ingannare dalla parvenza d’errore, orecchie in grado di porsi nella condizione di comprendere la diversità.
Lalingua è rappresentante di un reale, di una verità propria del soggetto, che non può trovare spazio nell’ordine simbolico contemporaneo, dove la tecnica rende utilizzabile ogni cosa, assegnando al singolo elemento la sua destinazione d’uso.
Lalingua è sintomo di creatività repressa dal sistema normalizzante dell’attualità.
Pertanto, solo ascoltando, accogliendo ed accettando l’Altro, con i suoi errori, le sue passioni, le sue idiosincrasie, le sue peculiarità, possiamo prendere le distanze dalla falsa illusione di un sapere globale e totalizzante, definito e preconfezionato una volta per tutte, in grado solo di recludere l’individuo nella prigione del “giusto” o nella gabbia dello “sbagliato”. E per far ciò dobbiamo porci nella condizione di ignoranti, desiderosi al tempo stesso di apprendere da ed insegnare all’Altro, per ricercare insieme le verità individuali.
Un dialogo sincero e condiviso, fatto di parole di rivelazione, come via verso la verità del singolo: apertura e compartecipazione, ascolto ed aiuto reciproco saranno i percorsi da intraprendere per sfuggire all’alienazione del contemporaneo mondo globalizzato e ritrovare la strada attraverso la creatività e la condivisione del proprio sentire autentico.
Ed in questo percorso di insegnamento/apprendimento non possono esistere un maggiore ed un minore: sia Io, l’insegnante, che l’Altro, lo studente, abbiamo il diritto ed il dovere di ricevere e dare il nostro sentire, la nostra individualità, il nostro mondo, per arricchirci mutuamente.
E’ doveroso abbandonare una didattica a senso unico, così come pubblicizzata dalla società della mercificazione e del feticcio, volta alla sola trasmissione unidirezionale di conoscenze (e al massimo di abilità pratiche) dal superiore, il docente, all’inferiore, il discente, per avvicinarsi ad una prospettiva laboratoriale, conversazionale, interazionale, grazie alla quale gli studenti possano considerarsi protagonisti in primo piano nella ricerca delle risposte ai dubbi personali, risposte in grado di condurli alle loro verità. Al loro fianco, il maestro sarà la guida silenziosa di tali scoperte, la persona che aiuta l’Altro nel suo percorso di crescita e contemporaneamente trova nutrimento spirituale dai passi inediti degli studenti.
Aprire le porte della propria persona all’Altro, ridefinire la propria identità in relazione con il minore, il diverso, l’escluso, lo scarto: è un passo difficile, lontano dalla comodità e dalla sicurezza della stabile posizione di maggiore, frutto dell’assuefazione alle perverse logiche del sistema globalizzante e tecnicizzato della contemporaneità, che schiude le porte all’incerto, all’ignoto, spazio oscuro e pauroso perché estraneo alle norme sociali, breccia nella perfetta realtà del presente, e per questo luogo del possibile, della libertà di auto-definirsi, della piena realizzazione personale.
Bibliografia
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- Gamelli I., Una pedagogia a piedi nudi, in “Animazione Sociale”, n.3-2007
- Lacan J., Scritti, Einaudi, Torino, 1974
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- Miller J.-A-, Commento del Seminario I di Jacques Lacan, in Di Ciaccia A. (a cura di), Il trionfo della religione, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2005
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- Sciara L., Il reale come impossibile da educare, in Psicoanalisi e domanda sociale. Educare all’impossibile?, marzo-aprile 2007
Bibliografia online
- Bertagna G., Principi e metodi per una didattica narrativa, in http://www00.unibg.it/dati/bacheca/709/27170.pdf
- http://www.filosofico.net/lacan.htm
- http://www.iep.utm.edu/lacweb/
Autore: Valentino Valitutti
Revisione e cura: Alessandro Ardigò, Arianna Sardella
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