
1.1 La storia come sede del sapere interdisciplinare
È ormai una competenza di base richiesta agli studenti quella di dimostrare di avere un approccio interdisciplinare all’apprendimento.
Fra tutte le materie di studio, la storia è quella che più si presta a questo approccio: è la sede di tutte le complesse dinamiche che connotano le epoche umane, ed è quindi il luogo privilegiato in cui si manifesta la complessità del reale.
L’articolo che viene qui proposto intende fungere da approfondimento collaterale allo studio del periodo delle Guerre di indipendenza italiane. Questi decenni, infatti, non sono solo lo scenario in cui si muovono i grandi generali e i teorici del Risorgimento, ma sono anche i decenni in cui le scienze iniziano a trovare sempre più numerose applicazioni pratiche, sulla scorta del pensiero positivista. Fra le scienze applicate, si è scelto di approfondire la medicina, che proprio nel corso dell’Ottocento si emancipa dai retaggi di una mentalità pre-moderna per affacciarsi alla contemporaneità. Secondo una argomentazione che va dal generale al particolare, l’articolo analizzerà poi la situazione di una singola città (Como) e la vita di un singolo medico (il dottor Pedraglio) di quei decenni.
1. 2 Positivismo e medicina
Il XIX secolo fu caratterizzato da importanti innovazioni in campo medico. La medicina beneficiò delle scoperte e degli apporti tecnici di nuove scienze, quali la chimica e la fisica. Il perfezionamento degli strumenti e l’evoluzione delle modalità d’intervento fecero progredire la chirurgia, comportando conseguentemente un netto miglioramento dell’assistenza ai pazienti.
Nello stesso periodo si iniziò a comprendere l’importanza di analizzare, di confrontare e di catalogare dati ed informazioni in ordine alla salute ed alle malattie, al fine di garantire una più efficace prevenzione e cura di svariate patologie. Nell’Ottocento, l’intervento del medico divenne indispensabile per la difesa delle malattie epidemiche che colpirono a più riprese la penisola italiana.
Si passò da una idea di malattia come “alterazione delle funzioni del corpo” oppure di “alterazione della struttura del corpo” a un’idea, di chiara matrice positivista, di “malattia esistente per se stessa” (G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, Roma-Bari, 1998, pag. 359).
La malattia non era più solo un processo o una sorta di cambiamento fisico, ma risultava un ens morbi, ossia un fattore autonomamente analizzabile e curabile, che andava espulso dall’organismo per riportare quest’ultimo ad uno stato di salute. Nell’organismo del malato, sottoposto a più approfonditi esami ed accertamenti, vennero più attentamente ricercati nuovi sintomi patologici grazie all’auscultazione e alla percussione, mentre una volta diagnosticato il male si procedeva con la definizione della terapia.




1. 3 Malattia, società e politica
La cura delle malattie popolari, quali colera, pellagra, gotta, tubercolosi e sifilide, assunse per la comunità scientifica un’importanza via via crescente, sulla scorta della concezione che la salute non fosse un bene solo del singolo, bensì una risorsa per l’intera società civile. Infatti, la presa di coscienza del fatto che la malattia fosse anche un danno sociale condusse alla denuncia del più importante tra i fattori che la determinavano: la miseria, con il suo seguito di malnutrizione e igiene precaria. (cfr. G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, cit., pag. 276).
All’esplosione della ricerca scientifica ed al rinnovamento scientifico e pratico si unì anche un rinnovamento istituzionale e didattico, che si concretò nella legge Casati del 1859. Questo decreto legislativo, promulgato inizialmente nel Regno di Sardegna e poi esteso alla nazione dopo l’Unità d’Italia, andava a organizzare sia l’istruzione elementare che quella superiore e si proponeva di rimuovere arretratezze che ponevano la scienza italiana non al passo con quella di altri stati europei. Negli anni Sessanta si assistette così ad una immissione nell’insegnamento superiore di numerosi professionisti (tecnici e scienziati) che furono chiamati a sostituire molti vecchi “cultori della scienza” (G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, cit., pag. 329).




1. 4. L’istituzione degli ospedali moderni
Con l’applicazione sistematica del metodo sperimentale si ottennero notevoli risultati che andarono a contrapporsi ai vecchi metodi e alle vecchie convinzioni medico-scientifiche.
Si assistette anche a una ridefinizione in senso specialistico dei luoghi dell’assistenza medica: a partire dal XIX secolo, infatti, l’ospedale diventò lo spazio del moderno metodo anatomo-clinico, lasciando lentamente ma definitivamente alle spalle la pratica medica “pre-moderna”. Sul punto, si tenga conto della circostanza che proprio agli inizi dell’Ottocento vennero introdotti, quali dirimenti novità, basilari apparati descrittivi quali tabelle storiche e tabelle cliniche. Crebbe l’interesse per ciò che avveniva nei laboratori e nelle cliniche di altri paesi e così si ampliò il dibattito tra medici e scienzati in tema di salute. (cfr. M. Soresina, I medici tra Stato e società, Milano, 1998 p. 230)
Questi sono gli anni dell’inizio di quella che si può definire la rivoluzione ospedaliera, che si realizzò attraverso il connubio tra l’intervento terapeutico differenziato e le trasformazioni amministrativo-gestionali (cfr. G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, cit., p. 297). La mutazione dell’ospedale in “fabbrica della salute” risultò assai lunga e complessa, ma fu concretamente possibile grazie all’acquisizione di pratiche professionali e all’istituzione di così detti “meccanismi di controllo”. (cfr. P. Frascani, Ospedali, malati e medici dal Risorgimento all’età giolittiana, Annali 7, Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Torino, 1984, p. 299)




Nonostante ciò, è noto che la storia dell’organizzazione dei nosocomi e del loro ordinamento era parallela a quella delle loro disfunzioni, dei disservizi e delle carenze tanto amministrative quanto mediche.
Ad esempio, nelle discussioni dell’epoca, venne dato molto rilievo al problema dell’igiene delle strutture e della salubrità degli ambienti. Tuttavia, sebbene si prestasse maggior attenzione alla dislocazione dei malati e alla differenziazione degli ambienti clinici, le condizioni sanitarie dei degenti risultarono ancora a lungo tutt’altro che decorose: i medici erano ancora costretti a visitare i malati in stanze malsane e maleodoranti a causa degli effluvi dei medicamenti. (cfr. G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, cit., p. 300) A metà Ottocento, iniziò così a rafforzarsi l’orientamento igienista che, già da molto tempo, insisteva sull’importanza e sulla necessità di impiegare più ferree misure igieniche e di vigilare su una più capillare applicazione delle norme di profilassi individuale e pubblica; la medicina sociale, infatti, metteva in “primo piano il momento della prevenzione rispetto a quello della terapia”. (G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, cit., p. 393)
1.5 Il ruolo del medico
In quegli anni i medici venivano solitamente divisi in due categorie: gli ospedalieri e i condotti; questi ultimi in particolare operavano in condizioni di frequente difficoltà e spesso di indigenza, mentre il numero di pazienti da assistere nelle condotte era assai più elevato rispetto a quello assegnato e “spettante” ai colleghi ospedalieri. Il medico condotto esercitava la propria professione prevalentemente nelle campagne e nei sobborghi cittadini, confrontandosi ogni giorno con situazioni di notevole difficoltà e, in aggiunta, con il timore di perdere il proprio incarico, che dipendeva da rinnovi periodici.




Nel Lombardo-Veneto i medici titolari percepivano un compenso annuo oscillante tra le 1.000 e le 2.000 lire, nei casi più fortunati (cfr. M. L. Betri, Il medico e il paziente, in Storia d’Italia, Annali 7, Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Torino, 1984, p. 217.). Quella del medico condotto era una professione difficile sia per la precarietà dell’incarico sia per la fatica alla quale era sottoposto. Il lavoro in ospedale non era sicuramente migliore, essendo i medici costretti a ivi stabilirsi e pernottare, godendo per i primi due anni di uno stipendio di sole 400 lire. Quella ospedaliera era sicuramente una carriera di sacrifici; le condizioni miglioravano solo quando si era chiamati a ricoprire un posto di prestigio, quale ad esempio l’incarico di medico chirurgo primario, il solo che non contemplava l’obbligo di permanenza in ospedale e che era meglio retribuito. (cfr. G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, cit., p. 336.)
I medici primari avevano l’obbligo di prestare un giuramento di fedeltà alla monarchia, erano responsabili dell’infermeria a loro affidata e vigilavano sul personale ad essi assegnato. Visto il modesto onorario tendevano ad integrare il loro stipendio con prestazioni private trascurando, a volte, il servizio nosocomiale, tanto che le loro attività dovevano essere svolte dal personale medico subalterno. (cfr. S. Onger, Note sul medico ospedaliero nella Lombardia della Restaurazione, in L’arte di guarire, a cura di M.L.Betri e A. Pastore, Bologna, 1993 p. 163) Per questo motivo, i medici e i chirurghi impiegati nei nosocomi e nelle opere pie venivano costantemente controllati ed istruiti dalla direzione, che si premurava di garantire all’istituzione ospedaliera un servizio regolare ed efficace: l’interesse degli ospedali non era solo medico, poiché essi perseguivano anche fini economici. Infatti, nonostante fosse iniziata la rivoluzione medico-scientifica, queste strutture dedicavano solo una quota delle proprie risorse all’assistenza sanitaria, continuando a finanziare una fitta rete di interessi legati alla gestione del patrimonio (cfr. P. Frascani, Ospedali, malati e medici dal Risorgimento all’età Giolittiana, Annali 7, Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Torino, 1984. p. 300).
Saldamente legati alla politica ed alle istituzioni religiose, gli ospedali, per tutto l’Ottocento, apparvero come complesse strutture economiche ed amministrative, che contavano tra i loro impiegati un numero imprecisato di avvocati, tesorieri e contabili. Questo assetto permise agli ospedali di mantenere un ruolo che risultò funzionale alla conservazione di interessi ed equilibri economici, caratteristica che permise la sopravvivenza degli stessi nosocomi rispetto alla opere pie e alla loro vocazione assistenziale.
1.6 La mentalità dei pazienti
Mentre la scienza medica stava consolidando le proprie posizioni, l’incertezza delle teorie e delle terapie mediche portavano ancora i pazienti a cercare soluzioni efficaci nella medicina familiare e nelle cure dei guaritori e dei ciarlatani. Le cure prestate da questi ultimi non avevano, come facilmente intuibile, esiti più felici rispetto all’assistenza prestata dai medici, ma i guaritori, attraverso la creazione di un rapporto più diretto con il malato, riuscivano ad ottenerne fiducia e completo affidamento. Venne dunque avviata un’opera di sensibilizzazione per indurre soprattutto i poveri a fidarsi e ad affidarsi maggiormente al medico piuttosto che al ciarlatano.
2.1 Un caso di studio: La sanità a Como
Dopo le battute d’arresto relative alla crescita della popolazione a causa della diffusione di epidemie di colera avvenute nel 1836 e nel 1855, la città di Como – alla fine del 1855 – aveva raggiunto la soglia delle 20.614 anime, mentre la relativa provincia nel 1859 era popolata da 456.646 abitanti. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1861, anno XXIV, p. 16.)




A metà Ottocento la città lariana era ancora:
caratterizzata da località con viottoli angusti, tortuosi e non ventilati, case depresse, umide, non areate, con abitazioni del tutto malsane. (cit. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1861, anno XXIV, p. 10)
Una città insomma che poteva definirsi tutt’altro che salubre e pulita, dove i ceti più poveri si ritrovavano addensati nei sobborghi e costretti a vivere nello squallore. Nonostante ordinamenti di igiene pubblica e privata, il ceto popolare si adattava alla malasanità delle abitazioni e all’insalubrità dell’acqua potabile, alla quale si attribuivano molti malanni e l’infelice condizione fisica di gran parte dei cittadini, tormentati da scrofola, rachitide e gozzo. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1861, anno XXIV, p. 11)
La popolazione doveva anche affrontare gli allagamenti causati dalla piena del lago: le sue acque si trovavano a quota 198,726 metri sul livello del mare adriatico, e la città a soli 199,144 metri. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1861, anno XXIV, p. 11) Una piena ordinaria arrivava a 1,80 metri sul livello del lago e questi allagamenti, soprattutto nel periodo invernale, avevano nefaste influenze sulle località coinvolte. Le acque escrescenti sollevavano le sozzure dalle fogne, facevano fuoriuscire liquami dai pozzi neri e diffondevano le materie di scarto dei numerosi opifici manifatturieri e industriali. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1861, anno XXIV, p. 12.)




L’acqua, le sostanze di scarto ed i prodotti delle industrie emanavano effluvi maleodoranti e gas nocivi che aggravavano la misera condizione di molte famiglie. Nel 1855, le acque del lago inondarono la città salendo di ben 3,56 metri, mentre mai in passato si era registrato un fenomeno di simile portata, tanto che molte famiglie a causa delle esalazioni pestilenziali dovettero sgombrare le abitazioni ed allontanarsi dalle zone in prossimità delle rive, rifugiandosi nell’entroterra. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1861, anno XXIV, p. 13)
La città era formata da sobborghi e contrade parallele alle mura, i caseggiati erano angusti e alti due o tre piani; nell’Ottocento venne iniziata un’opera di abbellimento delle zone popolari con la costruzione di nuovi importanti edifici ed abitazioni. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1861, anno XXIV, p. 9) Uno degli elementi favorevoli allo sviluppo della vita in città, oltre agli impieghi nei numerosi opifici, era il clima salubre e piacevole, solitamente mite, anche se soggetto a frequenti variazioni atmosferiche influenzate dal vento.




2.2 L’ospedale di Como
Nel 1861 il direttore dell’ospedale, il dottor Bonomi, descriveva così il “tipico” cittadino comasco:
Ben formato nella persona e di taglia mezzana, svelta, di lineamenti regolari, di fisionomia concentrata e in pari tempo furba, di colorito sano ma non rubicondo, sciolto nelle mosse e negli atti, lascia travedere come in lui predomini quell’assieme di caratteri che costituisce la tempre sanguigno-biliare. È vivace, pronto all’ingegno, di fantasia fervida, ma pieghevole ai consigli e docile alla riflessione, inclinato alle novità […] arguto, spedito nel linguaggio e coraggioso in guerra. (cit. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1861, anno XXIV, p. 20)
Il direttore, nel suo articolo, descriveva la società lariana nel suo complesso e forniva un dettagliato resoconto delle abitudini dei cittadini, non tralasciando anche un attento rapporto sulla condizione sanitaria degli stessi. Oltre alla presentazione dei caratteri fisici generali più comuni, Bonomi rifletteva sul mancato miglioramento della pubblica moralità: benché i primi anni dell’Ottocento fossero stati caratterizzati dalla diffusione dei “mezzi di educazione”, la moralità pubblica non trasse giovamento, ed anzi, tra il 1855 e il 1858, aumentarono i crimini e così pure i casi di morte violenta. Inoltre, quasi annualmente, crebbe il numero dei trovatelli e si radicò nelle fasce più povere della popolazione l’indifferenza per la prole. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1861, anno XXIV, p. 21)
Nel 1857 venne redatto un resoconto sulle morti infantili: morirono di parto 20 donne e persero la vita durante il primo mese 134 neonati, mentre nel 1857 morirono 355 bambini (nella fascia di età compresa tra la nascita e i 5 anni), di cui 201 legittimi e 154 illegittimi. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1861, anno XXIV, p. 15)




2.3 Como e il colera
Due avvenimenti in particolare segnarono notevolmente la città e concorsero a rafforzare e migliorare la figura e la funzione del medico: il colera degli anni Trenta e Cinquanta e la Prima guerra di Indipendenza nel 1848.
Diffusosi nel 1835 il cholera morbus imperversò nella penisola nel 1836 causando numerose vittime e rendendo necessario un intervento massiccio delle istituzioni, che predisposero strutture assistenziali affidate ai medici e si impegnarono nella stesura di norme precauzionali e igieniche che diffusero capillarmente tra la popolazione. Negli anni Cinquanta si verificò un nuovo caso di colera: era il 13 luglio 1855.
Il primo caso fu tempestivamente arginato; Como resistette alla diffusione del morbo sino al 3 agosto, data in cui numerose famiglie furono contagiate ed anche in ospedale si contarono diversi pazienti colerosi. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1861, anno XXIV, p. 49)
In pochi giorni il numero degli infetti salì a più di 100 unità, colpendo molte persone già sofferenti e rendendole incurabili, mentre il morbo si sarebbe diffuso ulteriormente se non fossero stati trasferiti nei lazzaretti i malati più contagiosi. (cfr. Biblioteca Comunale di Como, Fondo Monti, cartella A3 VII, fascicolo 11, dispaccio del Podestà, Como, 17 settembre 1855)
Il colera del 1836 fu molto più grave rispetto all’epidemia degli anni Cinquanta, perché il contagio si protrasse per molto più tempo, risultando il numero dei contagiati di 865 su una popolazione di 16.642 e contandosi ben 603 deceduti. Anche nel 1855 il morbo colpì la città, ma l’entità dell’epidemia fu più contenuta: i contagiati nella città di Como furono 704 su una popolazione di 20.140 anime; in proporzione dunque si ebbero tre guariti su cento e due morti su cento. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1861, anno XXIV, p. 49.)
Non si era ancora riusciti a scoprire le cause del contagio, anche se certe e note a tutti erano l’inadeguata attenzione igienica e le poche precauzioni e cautele che la popolazione mise in atto, nonostante gli avvertimenti di medici e autorità.
Si ha notizia del fatto che i medici a disposizione spesso non bastassero e che il lavoro risultasse spesso faticoso o addirittura fastidioso.
In un articolo del 1861, pubblicato sull’Almanacco di quell’anno della città di Como, il Dottor Tassani si lamentava del fatto che durante i primi cinquant’anni dell’Ottocento il personale medico sanitario era molto ridotto, tanto che non si era in grado di provvedere alle necessità mediche di tutti gli abitanti. Questa situazione era con il tempo migliorata: in città esercitavano 21 dottori in medicina e chirurgia, 25 levatrici e 19 farmacisti. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1861, anno XXIV, Personale sanitario e igiene comunale, p. 80)
Ogni medico aveva la responsabilità di 1.000 abitanti, il che assicurava un’astratta assistenza a tutta la popolazione. In realtà, il suddetto rapporto numerico non era del tutto veritiero, perché ogni medico non aveva solo la responsabilità della popolazione cittadina, ma doveva prestare servizio anche nei comuni adiacenti.
Anche i medici impiegati in ospedale dovevano occuparsi non solo dei ricoverati, ma erano responsabili del servizio nelle carceri e dovevano persino ottemperare all’obbligo di svolgere la funzione di periti giudiziari. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1861, anno XXIV, Personale sanitario e igiene comunale, p. 80)
I molteplici incarichi e i disparati ruoli che i medici erano chiamati a ricoprire, oltre alle continue richieste di assistenza che ricevevano, li portavano sovente a svolgere male e poco volentieri la loro professione. Questo succederà anche al Dottor Pedraglio che sarà sovente richiamato a una più attenta e meticolosa cura dei pazienti.
2.4 L’organizzazione sanitaria di Como e provincia
L’ospedale Sant’Anna poteva contare su un’équipe di otto persone tra medici e chirurghi, godeva del servizio interno di farmacia ed era supportato da enti caritatevoli quali il Pio Luogo di Carità e da una serie di uffici preposti alla gestione della Pia Casa di Ricovero e d’Industria, del Monte di Pietà e dell’Opera Pia Parravicini. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1858, anno XXI, p. LXVI)
Il più importante tra questi enti era il Pio Luogo della Carità, che lavorava con l’ospedale ed era destinato all’assistenza dei circondari e dei sobborghi della città. Vi praticavano quattro medici-chirurghi e un ostetricante. Questo ente gestiva anche sei levatrici, che assegnava alle singole parrocchie. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1861, anno XXIV, p. CXVIII)




A metà Settecento la città fu divisa in cinque circondari affidati a cinque medici
1) le parrocchie della SS. Annunciata e S. Giorgio;
2) tutta la parrocchia di S. Bartolomeo,
3) le parrocchie di S. Agostino e S. Agata;
4) le parrocchie di S. Sisto e S. Fedele (e altre minori)
5) le parrocchie di S. Donnino, S. Benedetto e S. Eusebio.
Nel 1746 venne pubblicato il regolamento che stabiliva la tipologia di malati che il Luogo Pio avrebbe preso in cura: i medici dovevano occuparsi degli infermi, di tutte quelle persone indigenti che realmente versavano in una condizione di bisogno. I pazienti dovevano essere dichiarati curabili dalle “fedi di povertà” emesse dai Curati delle parrocchie. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1857, anno XX, p. 57.)
Nel 1820 il patrimonio dell’ospedale e del Luogo Pio fu affidato a un’amministrazione, mentre il rispetto della disciplina e delle regole venne posto sotto la competenza della direzione. Non si registrano grandi cambiamenti, ma nel 1843 venne diminuito il personale, sebbene la popolazione e il numero dei poveri fossero aumentati. (cfr. Archivio di Stato di Como, Almanacco, Manuale Provincia di Como per l’anno 1857, anno XX, p. 64.) L’assistenza doveva ancora essere migliorata, passerà ancora molto tempo prima che la popolazione della città possa realmente godere di assistenza medica attenta e professionale.




Fine della prima parte. Se vuoi leggere la seconda parte clicca qui.
Autore: Marta Bernasconi
Revisione e cura: Alessandro Ardigò, Arianna Sardella
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