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La Letteratura e i suoi luoghi: Pirandello e Marinetti a Como

Indagare i rapporti tra la letteratura e i luoghi è un esercizio tutt’altro che lezioso. Spesso, in letteratura, si è portati a considerare lo spazio come mera ambientazione, come quinta su cui inscenare le vicende di una vita o la trama di un romanzo. Ma non è così. Quasi sempre il riferimento geografico diventa prezioso per la comprensione di un autore. Non si capirebbe Manzoni senza conoscere la realtà lombarda in cui si colloca, non si capirebbe Pasolini se non sullo sfondo delle veraci borgate romane in cui amava gironzolare. E lo stesso vale per le opere: si coglierebbero davvero le frustrazioni di Madame Bovary (1856) se non fossero fiorite nella prosaica banalità della provincia? Cosa sarebbe l’angoscia de Lo straniero (1942) di Camus senza il torrido caldo algerino? Come spiegare l’allucinata progressione de La morte a Venezia di Mann senza il mortifero languore della laguna? E i tormenti amorosi e sessuali di Lady Chatterley non sarebbero forse meno intensi, fuori dalla brulla campagna inglese, con l’odore forte del carbone a penetrare i suoi segreti? Insomma, quando parliamo di letteratura, il luogo può rappresentare il punto focale dove due piani – quello esistenziale della biografia e quello ideale dell’arte – trovano un punto di incontro.

Se si considera il lago di Como, i riferimenti potrebbero essere centinaia, e portarci ben oltre il proverbiale incipit manzoniano. Anche tralasciando gli autoctoni – e ce ne sono di eccellenti, a cominciare dai due Plinio – ce n’è per tutte le epoche: Virgilio, nelle Georgiche, esalta le bellezze del «Lari maxime», citato anche da Catullo. Sthendal, ne La Certosa di Parma, lo descrive come «spettacolo sublime e pieno di grazia, eguagliato ma non superato dal luogo più famoso del mondo: il golfo di Napoli». Shelley prende per un certo tempo una casa sul lago. Goethe ne rimane estasiato, Hesse fa una gita in battello, Fogazzaro gli dedica la sua prima raccolta di poesie. Flaubert bacia ardente l’Amore e Psiche del Canova nel giardino di Villa Carlotta. D’Annunzio ci viene in idrovolante, da Gardone, per assistere alle gare motonautiche. Verga lo ama per la sua bellezza agrodolce: prima «un’esuberanza di vita, quasi un’esultanza di sensazioni e di sentimenti», poi una dolciastra malinconia, quando «guardate il lago sentendovi sorgere in petto ad una ad una tutte le cose care e lontane che c’avete in cuore, e dalle quali non avreste voluto staccarvi mai» [I dintorni di Milano, in Milano 1881, Milano, Ottino, 1881]. In una delle sue splendide ville, la villa del Grumello, Foscolo consuma il suo amore per la contessina Francesca Giovio, per poi abbandonarla precipitosamente di fronte al primo accenno di prospettiva matrimoniale. In un passo lunare e onirico de Le notti bianche (1848), Dostoevskij trasferisce Villa Borghese su queste sponde. In Finale di partita (1957) di Samuel Beckett, in una stanza vuota ci sono un uomo e una donna anziani impiantati in due bidoni della spazzatura: nel loro delirio verbale di ricordi sconnessi, se ne staglia uno, nitido e abbagliante, una gita in barca sul lago di Como, il giorno del loro fidanzamento. L’elenco potrebbe continuare all’infinito, ma si ridurrebbe a uno sterile esercizio di accumulazione, o tutt’al più a un campanilismo compiaciuto e inconsistente.

Molto più utile mi sembra soffermarsi su un periodo storico preciso, il primo spicchio di ‘900, in cui un piccolo centro come Como, che il pregiudizio vorrebbe sempre impantanato nella melma di uno sbadigliante provincialismo, si trova a vivere uno dei momenti più vivaci della sua storia. La sua vocazione industriale, con il comparto serico a raggiungere i vertici mondiali, è al suo apogeo, e la baldanza economica si traduce in una briosità culturale mai conosciuta. È l’età dell’oro del Razionalismo architettonico e dell’Astrattismo di Mario Radice e Manlio Rho, che configurano la città lariana come improbabile ma coerente avamposto dell’avanguardia nazionale. Ebbene, in questo contesto si muovono due scrittori italiani – due scrittori, tra l’altro, molto diversi tra loro come Luigi Pirandello e Filippo Tommaso Marinetti – che ci dimostrano la tesi di partenza: alle volte un luogo è la sintesi tra la vita di un autore e la sua poetica, in un fluire indistinto di ricordi, esperienze, suggestioni, trasfigurazioni che in fondo, nella sua irrazionale successione, costituisce l’essenza della vita e dell’arte.

Il primo contatto di Pirandello con Como è un piccolo giallo letterario. Stando al frammento di autobiografia pubblicato il 16 giugno 1933 sulla rivista Nuova Antologia, un giovanissimo Pirandello, dopo essere scappato di casa, sarebbe arrivato in treno a Como e avrebbe frequentato la seconda e la terza ginnasio in una scuola comasca. Il motivo, come in tante crisi adolescenziali, sarebbe dei più futili: la vergogna, alla fine del primo anno, di mostare al padre («affettuoso in genere, quanto terribile nell’ira») i voti mediocri della pagella. Leggiamolo integralmente:

Un amico di nostra famiglia, un lombardo di Como, doveva tornare alla sua città con un grande carico di zolfo per via di mare. Io lo pregai di condurmi con sé, tanto piú che egli ci aveva di molto esaltate le bellezze dell’Italia settentrionale, del lago di Como, del duomo di Milano e via dicendo. Da prima egli condiscese ben volentieri; ma, quando io gli manifestai la necessità, per me assoluta, che questo mio progetto dovesse tenersi completamente celato a mio padre, non ne volle piú sapere e partí per Palermo dove aveva noleggiato un vapore per caricarvi la sua merce e, con quello, andare a Genova, per poi, di là, recarsi con la ferrovia a Como.
Io, però, non mi smarrii e ne inventai un’altra. Racimolai il danaro necessario pel biglietto da Girgenti a Palermo; insalutato ospite fuggii di casa, e giunsi alla capitale dell’isola il giorno stesso in cui quel signore doveva imbarcarsi e partire. Lo trovai, ingarbugliai un bel discorso, di cui la sostanza era che avevo potuto finalmente ottenere il sospirato consenso paterno; l’amico mangiò la foglia ed io partii con lui glorioso e trionfante.
Al principio tutto andò benone; ma a metà del viaggio marittimo, fui preso da così straziante rimorso pel dolore che avrei cagionato ai miei, specialmente a mia madre, che non potei resistere piú e finii col confessare ogni cosa a quel signore: e solo mi parve di essermi liberato da una grave mole che mi pesasse sulla coscienza quando, arrivati a Genova, si telegrafò a mio padre tutto quanto era accaduto. Chi può ridire la mia contentezza quando, con la risposta, mio padre mi mandò anche il suo consenso perché continuassi il corso ginnasiale in Como? Quivi stabilitomi, frequentai dipoi regolarmente anche la terza ginnasiale.
Senonché in seguito, d’accordo coi miei genitori, tornai in Sicilia e compii gli studi secondarii a Palermo; dove anzi incominciai pure quelli universitarii.

In questo righe sicuramente qualcosa di vero c’è. Il «lombardo di Como» è un caro amico di famiglia, il comasco Giuseppe Butti, detto Peppot. Era lo stimato sindaco di Cavallasca – un piccolo comune limitrofo di cui sarà primo cittadino per ben ventiquattro anni, dal 1871 al 1894 – e viveva nella meravigliosa villa degli Imbonati, edificio seicentesco circondato da uno splendido parco a terrazze, affrescato con cicli mitologici e impreziosito da cimeli di ospiti illustri, da Giuseppe Parini a Cesare Beccaria a Pietro Verri. Butti è un uomo dai mille interessi: esce a caccia, si intende di lirica, produce vino bianco, combatte contro gli austriaci (la sua dimora aveva ospitato, nel 1859, lo stato maggiore dei Cacciatori delle Alpi e Giuseppe Garibaldi, nelle ore immediatamente precedenti alla celebre battaglia di San Fermo). E i suoi affari si allargano anche alle miniere di zolfo, che lo portano ad entrare in contatto con il padre di Pirandello, che ne possedeva alcune. Quindi è vero: Luigi lo conosceva bene. Ma tutto il resto non torna. D’altronde il frammento non è autografo, ma è stato dettato all’amico Pio Spezi a Monte Cavo, nell’estate del 1893. Spezi – e noi gli crediamo – ha sempre assicurato di aver trascritto le parole dell’autore con la massima esattezza, ma la pubblicazione tardiva, la smentita di Pirandello, l’assenza del suo nominativo nei registri delle scuole comasche e la sua regolare iscrizione al Ginnasio Vittorio Emanuele II di Palermo dal 1880 al 1885 (quindi per l’intera durata del corso) non depongono a favore dell’autenticità.

La falsa fuga, però, si basa su un evento reale, che ha a che fare con la sua tormentata carriera universitaria. Pirandello si iscrive nel 1886 alla Facoltà di Legge e Lettere dell’Università di Palermo, ma dopo appena un anno decide di trasferirsi all’Università della Sapienza di Roma. I motivi sono molteplici: le pressioni paterne; la volontà di allontanarsi da Lina, una cugina più grande di lui di quattro anni con cui aveva iniziato una difficile relazione; la presenza a Roma dello zio materno Rocco Ricci Gramitto, disposto ad ospitarlo. Anche nella capitale, però, la placida applicazione agli studi viene presto interrotta. Nel 1889 ha un violento diverbio con un professore di letteratura latina, che lo spinge ad abbandonare sdegnosamente l’ateneo. Su suggerimento di Ernesto Monaci, suo professore di filologia romanza, decide di trasferirsi all’Università di Bonn, in Germania, dove si laurea nel 1891 con la famosa tesi sugli sviluppi fonetici del dialetto di Girgenti, sua città natale.

Cosa c’entra tutto questo con Como? C’entra, perchè durante il viaggio da Roma a Bonn Pirandello si ferma per qualche tempo proprio a Cavallasca, proprio nella prestigiosissima villa Imbonati, proprio dall’amico Giuseppe Butti. Molte le ragioni che lo indussero alla sosta: era l’occasione per salutare la sorella Lina e il cognato Calogero, anch’essi ospiti della villa; di verificare di persona le alte aspettative  per le bellezze lacustri, unite alle immancabili reminescenze manzoniane; di concedersi una breve vacanza, con cui contava di rimettersi da una grave crisi di endocardite, prima di inoltrarsi nel buio e freddo nord. Così si legge nella più nota biografia dell’autore:

Luigi si mise a far l’amore con la grammatica tedesca. E prese la via del Nord. Per andar con metodo e non arrivare mutolo in Germania, si fermò sul lago di Como, presso una sorella a Cavallasca dove compulsò dizionari. Quivi abitò la villa già appartenuta a Imbonati, e ancora pingue di ricordi manzoniani. In codesta dimora istessa Garibaldi aveva fatto il piano della Battaglia di San Fermo [L’uomo segreto. Vita e croci di Luigi Pirandello di Federico Vittore Nardelli, Mondadori, Milano, 1932]

La prossimità al confine svizzero fissa nella memoria di Pirandello, costretto ad abbandonare la patria, l’immagine di Como come passaggio, come limite tra un di qua e un di là. Concetto di soglia che ritroviamo, non a caso, in due suoi componimenti. Il primo è una delle Elegie renane (ispirate alle Elegie romane di Goethe, che infatti tradurrà in italiano nel 1896). Qui la villa Imbonati assurge a simbolo di un ultimo sprazzo di calore familiare, un estremo avvolgente abbraccio materno prima della partenza, e Como diventa terminale lembo estivo prima del rigido inverno del continente. È interessante notare, tra l’altro, come questa visione del bacino comasco si ritrovi anche in tantissimi resoconti del Grand Tour sette-ottocentesco, quando il lago si definisce via via come tappa conclusiva del viaggio italiano e come bagno di sole prima del rientro:

Oh rosea in faccia ai primi, aerei gioghi de l’Alpi,
villa degl’Imbonati, nido di verde pace!
Ivi con lo sbaldore d’innumeri uccelli,
tra ‘l folto de’ campi tuoi, col bacio fulgido del tuo sole,
ebbi da Te (non mai, siccome in quell’ora, diletta)
’addio materno: l’ultimo, Italia, tuo.

Nella poesia Ritorno [in Zampogna, Società Editrice Dante Alighieri, Roma, 1901], invece, ritroviamo il movimento esattamente inverso. Allo studente che dalla teutonica Bonn, in treno, sta rientrando verso casa, Como appare come un dolce miraggio di Italia, la luminosa porta del sospirato rientro, circondata, non a caso, da notazioni atmosferiche tipicamente primaverili: Chiasso! Chiasso!/E il lungo tràino/ s’arrestò, fischiando. Scesi. […]/Che baglior d’azzurro! L’aria /ne grillava. Ansia gentile, /gaudio, incanto! Ecco l’Italia, /a cui nuovo or or l’Aprile, /sarto estroso e gajo, un abito /allestito avea di mezza /stagion, florido, mutevole /di color sotto la brezza. Con uno stile onirico e grottesco (già molto personale, nonostante la giovane età) l’autore fa comparire sul sedile accanto a lui, dal nulla, una diafana «Frau Germania», spettro di un amore abbandonato all’estero e che lo perseguita sulla via del ritorno. Alla rievocazione intimista, però, si somma la rievocazione storica: la donna tiene in grembo una guida turistica di Como, che diventa il pretesto per il riferimento alla celebre Guerra decennale tra Como e Milano, combattutta dal 1118 al 1127 per rivalità commerciali ed economiche e conclusasi con la sconfitta e il saccheggio di Como. Grazie all’aiuto di Federico Barbarossa, i lariani riedificarono mura e castelli difensivi, e nel 1162 si vendicarono partecipando all’assedio e alla distruzione di Milano: Sorda lì, nel cenno storico/ della Guida intorno a Como, /Frau Germania pascolavasi, /la vignetta del bel Duomo / fotoincisa in una pagina /non degnando d’uno sguardo. /Pensier’ gravidi il suo leggere /qua e là rendean piú tardo. /Sí, signora. Dieci o undici /anni in guerra, ed alla fine /di Milan gli eroi ridussero /Como un mucchio di rovine. /E i Comaschi allor chiamarono /quel suo Kaiser dalla barba /rossa, il quale poi… La storia /di quel Kaiser non le garba? /Chiuda il libro, via! Non lottano /piú tra loro, oggi, le belle /città nostre. Grandi e piccole, /si decantano sorelle.

C’è poi una terza traccia poetica del suo breve soggiorno comasco. La lirica Convegno [in Fuori di chiave, Formiggini, Genova, 1912], è un omaggio alle città dove il poeta ha «fatto alcun tempo dimora». Accanto alle città che ci aspetteremmo di trovare  Palermo, Bonn e Roma  compare un’unica altra città, Como appunto, dove Pirandello si rivede ragazzo, carico di speranze e illusioni, innamorato di una «bruna di Como», in un tuffo memoriale in cui volto urbano e volto femminile si intrecciano e si sovrappongono, fino a confondersi:

E uno
si ferma, or ecco, a sera, in una via
di Como, e guarda in sú, se un viso bruno…

Ahi, quella bruna – egli no ‘l sa – maestra
ora è di vizii e di sé locandiera…
Ma come può saperlo, se ogni sera
davvero ancor s’affaccia alla finestra
ella, e d’amor gli parla ed è sincera?

Da questi brevi cenni intuiamo che la sua passione, di certo folgorante e intensa, è stata fortemente ridimensionata dalla disillusione dell’età adulta. È un doppio sentimento – l’ingenuo affidamento del passato e il crudo realismo del presente – che si traduce in un vero e proprio sdoppiamento dell’autore in due personaggi distinti, in un gioco di specchi dal quale la donna, totalmente smitizzata, ne esce con una caratterizzazione non proprio nobilitante: 

vien la bruna di Como a dirmi in fretta:
«Tu sai che cosa io sono, ora; ma a lui
non dirne nulla: ei mi vede qual fui!»
Ti basta un sol mio sguardo, o poveretta,
e in un brivido tutta ti rabbuj.

Egli ha guardato me; qual sei ti vede.
Non nasconderti il viso, ché di te
non ha ragione di lagnarsi: in me
vani egli or vede l’amor tuo, la fede
che gli giuravi, e vana ombra pur sé.

Pirandello, dopo questa visita del 1889, tornerà in terra comasca soltanto trentasei anni più tardi. Ormai è un autore famoso a livello mondiale, ma poche spie sparse (tra le novelle, in Notizie dal mondo troviamo citata «un’umile osteria» a «Moltrasio, sul lago di Como», mentre in La veglia si ingiunge a uno dei personaggi che «se ne torni dond’è venuto, là, là, a Como, nell’amena sua villa di Cavallasca») ci dicono che alcuni ricordi sono ancora vivi. Tra il 30 settembre e il 9 ottobre 1925 il suo Teatro dell’Arte sbarca a Como, al Politeama, con il suo ricco repertorio, tra cui non poteva mancare i Sei personaggi in cerca d’autore, celebratissimo spartiacque, nel mondo teatrale, tra un prima e un dopo (successo clamoroso, replicato dall’11 al 20 maggio 1926 sempre al Politeama e sempre con lo stesso cartellone). È interessantissimo notare la scelta del teatro: tra il teatro Sociale, primo palcoscenico cittadino, incentrato su un classicismo schifiltoso ed elitario, e il teatro Cressoni, tutto cabaret e grossolana allegria popolare, Pirandello fa la scelta mediana del teatro Politeama,  nuovo – aperto da una quindicina d’anni – borghese, sperimentale, costruito in acciaio e vetro in una zona residenziale della città.

Ed è proprio in questi giorni che accade un episodio famosissimo della biografia pirandelliana. Alla compagnia di attori si è appena aggiunta una giovane attrice, Marta Abba. Bella, ambiziosa, affascinante, il maestro è rimasto folgorato da una sua interpretazione, l’ha immediatamente scritturata e in pochi mesi l’ha resa la sua musa, oggetto di una venerazione quasi fanatica. Per capire i pettegolezzi che sin da subito fioriscono attorno alla coppia non bisogna dimenticare un dettaglio non da poco: Pirandello è sposato. Era convolato a nozze con Maria Antonietta Portulano nel 1894 e i due, nonostante il matrimonio fosse concordato dalle famiglie e caldeggiato dalla famiglia di lui per la cospicua dote della sposa, si amano molto. Si stabiliscono a Roma e nel giro di quattro anni, dal 1895 al 1899, arrivano i tre figli Stefano, Lietta e Fausto. L’idillio familiare, però, è presto stravolto: Maria Antonietta inizia a dare segni di squilibrio mentale, sviluppando una gelosia paranoica e ossessiva. I suoi furiosi sospetti si abbattono persino sulla figlia Lietta, che, vittima di inaudite pressioni psicologiche, tenta il suicidio e scappa di casa. Complici una serie di spiacevoli eventi – l’improvviso crollo finanziario, la partenza del figlio Stefano per la guerra – la malattia della donna esplode in tutta la sua gravità. A malincuore, Luigi è costretto ad accettare il ricovero in clinica nel 1919. All’inizio la va a trovare tutti i giorni, ma col passare degli anni la moglie (le cui condizioni, nel frattempo, si aggravano: i medici parlano di schizofrenia, mania di persecuzione, delirio di grandezza, personalità dissociata) diventa un fantasma via via privo di consistenza.


Consistenza che, al contrario, gli offre in abbondanza la giovane e spigliata Marta. Lui ne è follemente innamorato, ma lei mantiene un rispettoso distacco, fatto di asciuttissimi «lei» e sincere reverenze (per tutta la vita si limiterà ad un riguardoso «maestro»). D’altronde lui ha cinquattotto anni, lei venticinque. Ed è proprio durante la tournè comasca che l’impossibilità di quell’amore si rivela in tutta la sua ineluttabilità. Il dramma sentimentale si consuma in una «atroce notte a Como» – sono parole dello stesso Pirandello [in Lettere a Marta Abba, Mondadori, Milano, 1994] – nelle lussuose stanze dell’Hotel Palace dove i due soggiornano. Non è chiaro se lui non sia riuscito a soddisfare l’amplesso da lei finalmente concesso, oppure se, come appare più probabile, per la sua arditezza abbia ricevuto in cambio un cortese rifiuto. In ogni caso quel momento segnerà la fine delle sue velleità amorose, a cui il poeta aveva appeso tutte le sue speranze di uomo e di artista. Solo tre anni più tardi il Teatro d’Arte si scioglierà, e Pirandello, seppur circondato da riconoscimenti e onori (fino al premio Nobel del 1934) si avvierà verso l’amara solitudine degli ultimi anni.

Anche il rapporto di Filippo Tommaso Marinetti con il territorio comasco attraversa tutto l’arco della sua vita. La prima volta che arriva da queste parti è l’estate del 1902. È giovane, ha appena ventisei anni, ma è già molto ambizioso. Giunge all’Hotel Beleuve di Cadenabbia per far visita alla cugina Letizia Ossola e all’amico Enrico Annibale Butti, drammaturgo e romanziere, suo sodale milanese del Savini, giunto su queste sponde per trovare quiete ai polmoni malconci. Marinetti mette subito in chiaro la sua indole infiammabile: durante una gita in barca a remi si azzuffa con il barcaiolo, che lo querela, e in tribunale, durante il dibattimento, tira un cazzotto all’avvocato. Ma non è venuto a Como solo per risse e visite di cortesia: vicino a Como, nel suo eremo di Breglia, abita in selvaggia solitudine Gian Pietro Lucini, poeta simbolista, baroccheggiante, dirompente. Marinetti, smanioso di emergere, vuole arrivare a lui. E ci riesce: un amico comune, il francesista Gustavo Botta, invia a Lucini l’opera prima del futurista, la raccolta di poesie La Conquête des Étoiles, che Lucini legge, apprezza e recensisce sulla Gazzetta del Popolo il 27 agosto. Il prestigio della recensione avvierà la carriera del poeta, oltre che un rapporto personale tra i due (Lucini, però, nonostante le blandizie marinettiane e l’evidente affinità di poetica, si rifiuterà sempre di aderire al gruppo futurista).

È il 20 aprile 1911. Marinetti scende alla stazione comasca di San Giovanni. Con lui ci sono Umberto Boccioni, Luigi Russolo e Carlo Carrà, gli amici con cui anima il tour delle serate futuriste: rappresentazioni teatrali che spaziano dalla politica all’arte, dalla musica al ballo, in un mix infarcito di provocazioni, spunti polemici, letture di poesie, oltre alle immancabili azzuffate, agli insulti, ai lanci di ortaggi. Burrascoso programma immancabilmente rispettato anche quella sera. Il palcoscenico non può che essere quello appena inaugurato del teatro Politeama (che come detto ospiterà le opere pirandelliane e che in quegli albori poteva contare sull’intraprendenza del suo impresario Alessandro Pizzi, deciso a distinguersi per arditezza e innovazione). Fu il solito profluvio verbale contro la critica, i musei, lo stucchevole immobilismo della tradizione, in una Como che un roboante Marinetti, dal palco, definisce «futurista, perché procede sicura verso l’avvenire» e perché «ricca di commerci e di industria». E fu un successo clamoroso, netto, inaspettato, specie se si considera la bonaria diffidenza al nuovo dell’indole cittadina (che infatti boccerà clamorosamente un’altra sperimentale piece di Marinetti, Simultanina, rappresentata sempre al Politeama qualche tempo più tardi, il 19 maggio 1931).

Passeranno molti anni prima di un ritorno marinettiano sul lago. Ma il suo rapporto con la città si fa meno occasionale, più duraturo. Gli anni ’20, come detto, sono gli anni dell’esplosiva rivoluzione architettonica del Razionalismo, con con le sue squadrate geometrie e le sue rigorose simmetrie si saldava alla perfezione con l’esaltazione della metropoli verticale propugnata dal futurismo. Como innesta, sul suo substrato romano e medievale, edifici razionalisti essenziali, avveniristici, bellissimi, che nelle sue realizzazioni massime – la Casa del Fascio di Giuseppe Terragni, la fontana di Camerlata di Cesare Cattaneo, il Tempio Voltiano di Federico Frigerio – diventerà famoso in tutto il mondo. Inevitabile che gli architetti razionalisti e i poeti futuristi trovassero nel mito della modernità un terreno comune. Tra tutti, divennero molto amici Marinetti e Antonio Sant’Elia: insieme a Boccioni, dal 1915 combattono insieme al fronte nella III Compagnia del Battaglione Volontari Ciclisti, di stanza a Dosso Casina. Marinetti ricorderà con affetto la vita comune in caserma, il «naso adunco», le «cave gote», «l’incendio dei suoi capelli al vento e fra le labbra la sigaretta amica», «la sua faccia tagliente aquilina che aggancia e ingabbia le sagome delle costruzioni evocate dalla sua parola» [Introduzione di Filippo Tommaso Marinetti a Catalogo della mostra delle opere dell’architetto futurista comasco Sant’Elia, Cavalleri, Como, 1930].

Il 10 ottobre 1916, durante un assalto, Sant’Elia muore con una pallottola in fronte. Marinetti, ricevuta l’improvvisa notizia, lo celebra come un eroe. «Ragazzi, stanotte si dorme a Trieste o in paradiso con gli Eroi!», ha esclamato pochi istanti prima di morire, e la retorica futurista fa presto a trasformarlo in eterno emblema della gloria bellica. L’8 marzo 1924 Marinetti arriva presso la sede comasca della Federazione fascista (vestito con uno sgargiantissimo panciotto ideato da Depero) a elogiare il compagno caduto. Il 14 settembre 1930 inaugura una mostra di 95 tavole santeliane nel salone del Broletto cittadino. In questo periodo scrive un copione teatrale dal titolo Ricostruire l’Italia con architettura futurista Sant’Elia, ritrovato inedito tra le sue carte [oggi in Teatro di F.T. Marinetti, a cura di G. Calendoli, vol. III, Vito Bianco Editore, Roma, 1960]. In questo testo strambo, in qualche misura allegorico, Spaziali e Velocisti (emuli di razionalisti e futuristi uniti a braccetto) combattono contro i Mollenti (ingrato epiteto riservato alla massa passatista), distruggono città obsolete come Venezia e impongono «l’impero dell’inegualismo, dell’originalità e della libertà».

La ripetuta commemorazione di Sant’Elia trova una realizzazione concreta nell’ottobre del 1930. Marinetti è ancora a Como, ospite del podestà Luigi Negretti, che gli confida che in città monta la polemica per la mancata costruzione di un monumento ai caduti. A cinque anni dal bando, i progetti proposti sono del tutto insoddisfacenti e un piccato Mussolini, in visita alla Triennale di Monza, aveva fatto notare il ritardo. Marinetti, col solito piglio energico, sblocca l’impasse: si fa portare ai giardini a lago una raccolta di disegni del suo adorato Sant’Elia, e li sfoglia finchè non rimane folgorato da un edificio a due torri parallele (che Escodamè aveva catalogato come «torre-faro»). È perfetto per l’occasione. Prampolini prepara il progetto, Attilio Terragni avvia la costruzione, il ben più noto fratello Giuseppe la prosegue, fino all’inaugurazione del 4 novembre 1933.

Ma non è finita qui. Un Marinetti stanco, fiaccato nel fisico, ormai anziano – ha sessantotto anni – arriva sul lago di Como per un periodo di vacanza insieme alla giovane moglie Benedetta. È il novembre del 1944. Prima Cadenabbia, poi Griante, infine Bellagio. Qui si sistema all’albergo Splendido, e le torbide acque del lago riflettono il suo umore fosco, per un’Italia attanagliata dal giogo della doppia occupazione. Rimane molto colpito da un amico, che gli racconta di alcuni baldanzosi giovani che a Como, poche settimane prima, si sono arruolati nella X Flottiglia Mas, unità navale della Repubblica Sociale specializzata in assalti e incursioni, trovando tutti una morte quasi immediata nelle acque di Nettuno. Il loro leggero coraggio, il loro baldanzoso sacrificio nella più nera notte della sconfitta, gli ispira la sua ultima opera, Quarto d’ora di poesia della X Mas. Il 1 dicembre 1944, quando alle due del mattino il suo cuore smette di battere, lo ha appena terminato. Tre giorni più tardi si svolgono frettolosi funerali nella basilica bellagina di San Giacomo. Vicinissimo a quel lago che pochi mesi dopo vedrà l’epilogo della dittatura e di mezza storia del nostro ‘900.

Bibliografia:

  • Giovanni Verga, I dintorni di Milano, in Milano 1881, Milano, Ottino, 1881
  • Luigi Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti vari, a cura di Manlio Lo Vecchio Musti, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1960
  • Federico Vittore Nardelli, L’uomo segreto. Vita e croci di Luigi Pirandello, Mondadori, Milano,1932
  • Luigi Pirandello, Elegie renane, Unione Cooperativa Editrice, Roma, 1895
  • Luigi Pirandello, Zampogna, Società Editrice Dante Alighieri, Roma, 1901
  • Luigi Pirandello, Fuori di chiave, Formiggini, Genova, 1912
  • Luigi Pirandello, Novelle per un anno, Bemporad, Firenze, 1922-1928
  • Luigi Pirandello, Lettere a Marta Abba, Mondadori, Milano, 1994
  • Catalogo della mostra delle opere dell’architetto futurista comasco Sant’Elia, Cavalleri, Como, 1930
  • Filippo Tommaso Marinetti, Teatro, a cura di G. Calendoli, vol. III, Vito Bianco Editore, Roma, 1960

Autore: Mario Taccone
Revisione e cura: Alessandro Ardigò, Arianna Sardella

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