1. Intenti e metodologie
L’intento del presente articolo è quello di partire da un tema-problema – quello delle migrazioni – e analizzarlo non nel suo stato presente attraverso gli strumenti delle scienze umane contemporanee, come la statistica, la sociologia, l’economia o la psicologia, ma attraverso un processo di verticalizzazione storica. In questo come in molti altri casi, interrogare la storia può essere molto utile per comprendere meglio l’attualità; non con lo scopo di trovare delle risposte pratiche e immediate, ricalcandole sulle risposte che sono state date nel passato alle medesime problematiche – come faceva Machiavelli, ad esempio – (il che sarebbe inutile, oltre che anacronistico e potenzialmente pericoloso), ma perché tale pratica arricchisce la mentalizzazizone della questione, e consente di accostarvisi in modo più ricco,
I complessi e contraddittori rapporti fra romani e barbari prima e dopo Adrianopoli (378 dC) sono il centro di questo studio.
«Nel passato cerchiamo sempre le origini del nuovo», per dirla con Huizinga (HUIZINGA 1987), quindi l’auspicio è che questa prospettiva di analisi del fenomeno sia tesa a individuare possibili comuni denominatori, dinamiche che si ripropongono simili, che passano le ere storiche, risalgono dall’oscuro dei tempi e arrivano fino a noi. Perché, come dice lo studioso Peter Heather, «una delle caratteristiche generali dell’homo sapiens come specie è l’abilità nell’occupare nuove nicchie ecologiche, una caratteristica che genera una certa qual tendenza alla migrazione» (HEATHER 1996). A modesto parere di chi scrive, è utile sottoporre alla società civile o a una classe liceale o superiore lo studio del periodo Tardoantico, per le domande che spinge inevitabilmente a porsi nel confronto con il momento attuale.
2. Il ri-uso della Storia
Parlare di movimenti di gruppi o clan barbarici all’interno dell’Impero Romano è altamente problematico per diverse ragioni.
La prima e più lampante questione è che questo tema è collegato a una delle più intricate questioni della storia e della storiografia mondiale: la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (storia) e l’indagine delle ragioni che la determinarono (storiografia). Demandt, uno studioso tedesco attivo nella seconda metà del Novecento, analizzando le varie cause addotte dagli storici per spiegare la caduta di Roma, arrivò a stilare un elenco di 210 ragioni per cui, secondo gli studiosi, l’impero era crollato. L’elenco, che va dalla lettera A alla Z, inizia con la parola Aberglaube (superstizione) e finisce con Zweifrontenkrieg (guerra su due fronti), passando per motivazioni come “impotenza” o “crisi nervose” (cfr DEMANDT 1984). Questi termini, che possono sembrarci “fantasiosi”, ci ricordano in realtà la complessità della questione. Fortunatamente, l’obiettivo del presente articolo non è esaminare la caduta dell’Impero, né capire perché è caduto, anche se inevitabilmente sarà necessario tornare su questi aspetti.
2.1 L’impero immortale
L’Impero romano lasciò vivo il ricordo della sua potenza per tutti i secoli a venire, fino a noi, rappresentando la realizzazione pratica del mito di un unico potere e di un unico ordine universale su tutta la Terra.
A questo mito le società non riuscirono mai a rinunciare.
Lo storico Santo Mazzarino (1916-1987) ci ricorda che l’idea di un potere globale (mondiale ovviamente in rapporto alle conoscenze del tempo) è ancestrale e si ritrova già nelle prime civiltà storiche di cui si ha testimonianza. La prima fu l’antichissima civiltà degli Accadi (2500-2300 aC.), poi gli imperi di Assiria e Babilonia, poi ancora l’impero persiano distrutto da Alessandro Magno (cfr. MAZZARINO 1959).
Gli uomini medievali, ad esempio, per sostenere il fatto che in realtà l’Impero non fosse mai morto, elaborarono la teoria della translatio imperii, tanto cara a personaggi del calibro di Dante. Secondo tale teoria, un unico Impero si sposterebbe progressivamente da Oriente a Occidente seguendo il corso del Sole: iniziarono i già menzionati imperi orientali, poi sorse quello persiano, poi l’”aquila” imperiale passò ad Alessandro Magno, che avrebbe finalmente riunito l’Oriente e l’Occidente sotto la stessa bandiera, poi toccò a Roma, poi, sempre più a ovest, al Sacro Romano Impero. Così, pur mutando attraverso i secoli e i millenni le centrali del potere e le dinastie, nell’immaginario l’idea di “impero” divenne immortale e irrinunciabile.
A subire il fascino dell’ordine unico non sono stati solo l’Età Antica e il Medioevo; l’impero si affaccerà anche nella modernità e nei tempi a noi contemporanei attraverso le visioni imperiali degli Asburgo e degli Hohenzollern, fino alle lucide allucinazioni di ordine mondiale nazista del III Reich o dell’“impero fascista”. Nella seconda metà del Novecento saranno sempre due Imperi a contendersi il controllo sull’ordine mondiale: lo Statunitense e il Sovietico.
La caduta dell’impero romano è, quindi, a livello ideale, molto di più che il collasso di un sistema statale. Essa è «un monito che porta con sé la chiave per l’interpretazione di tutta la nostra storia» (MAZZARINO, 1959 p.16).
Date queste premesse non c’è da sorprendersi se, quando l’Impero romano cadde, buona parte delle genti (omousane o nicene, cristiane e non) pensarono che il mondo stesso avesse raggiunto la sua ultima ora. San Girolamo, ad esempio, commentò così il sacco di Roma del 410 ad opera di Alarico e dei suoi Visigoti:
E poi, quando si spense la luce più brillante del mondo [Ndr. Roma], quando cadde il capo dell’Impero romano: il mondo intero perì nella caduta di una singola città, “rimasi silenzioso e umiliato; e io tacevo con uomini buoni, e il mio dolore si rinnovava. Il mio cuore si stava scaldando nel mio petto e nella mia meditazione divampava il fuoco.
[Postquam vero clarissimum terrarum omnium lumen exstinctum est, immo Romani imperii truncatum caput: et, ut verius dicam, in una Urbe totus orbis interiit, obmutui et humiliatus sum, et silui a bonis, et dolor meus renovatus est: concaluit cor meum intra me, et in meditatione mea exarsit ignis.] HIERONYMUS, In Ezechielem, Praefatio

2.2 O l’Impero o le nazioni
L’idea di impero universale implicava ovviamente il fatto che esso fosse al di sopra dei popoli, delle genti, delle etnie, che fosse insomma un organismo super-nazionale. Come ci ricorda qualsiasi dizionario etimologico, Nazione deriva dal latino natiōne(m), derivato di nāsci, cioè «nascere»: essa raggruppa quindi tutte quelle genti che si riconoscono come “nate” in un gruppo compatto, con caratteristiche identitarie affini. Su questi aspetti avremo modo di tornare più approfonditamente quando sarà trattata l’etnogenesi dei Goti e di altre popolazioni barbariche.
«L’impero di sovrappose alle nationes, come nell’Oriente i grandi stati universali (l’achmenide soprattutto) si erano sovrapposti alle varie lingue dei popoli sudditi. Nell’odio o nell’amore, Roma dominò le coscienze» (MAZZARINO 1959 p.17). Così, l’alternativa fra uno Stato supernazionale e tanti Stati, uno per ogni gruppo etnico (nationes), è un’altra di quelle idee che si verticalizza e si ritrova come costante di ogni epoca di cui si abbiano testimonianze certe.
Certo è che i romani erano orgogliosi della superiorità dell’impero sulle nazioni. Ancora al declino dell’impero, con praticamente Roma in fiamme, un Gallo – che si sentiva in tutto e per tutto romano e imperiale – scriveva: «[Roma] Hai fatto di genti diverse una sola patria, la tua conquista ha giovato a chi viveva senza leggi: offrendo ai vinti l’unione nel tuo diritto hai reso l’orbe diviso una unica Urbe». [Fecisti patriam diversis gentibus unam;/profuit iniustis te dominante capi;/dumque offers victis proprii consortia iuris,/Urbem fecisti, quod prius orbis erat] RUTILIUS NAMATIANUS, DE REDITU SUO, I. 63-66.




2.3 Le parole non sono neutre: Roma e i Germani nel Novecento
Un’altra questione che rende problematico proporre oggi un articolo sulle migrazioni e sui popoli del periodo tardoantico risiede nella lingua; è un problema di “scelta lessicale”, di significato e di significante. Fino a qui, infatti, si è utilizzato il termine “migrazioni” di popoli germanici senza analizzare ciò che questo termine evoca. La storiografia occidentale del secondo Novecento ha infatti gradualmente abbandonato l’idea di “invasione” per abbracciare quella, molto più pacifica e fraterna, di spostamento o migrazioni di popoli. All’immagine di roghi, incendi e stupri evocata dalla parola “invasioni”, si è mano a mano cercato di sostituirne una – meno minacciosa – fatta di carovane di barbari che viaggiavano con al seguito donne, bambini e anziani, che avevano come scopo quello di stanziarsi sulle terre incolte di un Impero Romano ormai in parte spopolato (cfr. WARD-PERKINS 2010).
Questo slittamento semantico è avvenuto dopo la Seconda guerra mondiale. Con l’avvio del progetto di Europa Unita, si sentì infatti l’esigenza culturale di abbattere le barriere innalzate dai nazionalismi e, parallelamente, si avvertì la necessità di inglobare il mondo tedesco, allora conteso da Usa e Urss:
Con la fondazione di una nuova e pacifica Europa occidentale, le immagini degli invasori gradualmente si attenuarono e diventarono più positive. […] questi lavori non mettevano in dubbio la realtà delle invasioni, però le presentavano come una forza positiva nella formazione dell’Europa moderna. […] fino ad affermare “ciò che noi chiamiamo la caduta dell’impero romano d’occidente non era che un fantasioso esperimento andato fuori controllo”. (WARD-PERKINS 2010 p. 12)




Prima e durante la Seconda guerra mondiale, invece, fu fin troppo facile associare le invasioni dei Germani – che nell’immaginario erano i predecessori di Hitler – alla distruzione portata dal Reich nazista. E d’altronde, dal mondo germanico l’immaginario nazista attinse a piene mani, dai Nibelunghi all’idea di “razza ariana superiore”.
2.4 La visione dei contemporanei
Non è soltanto il Novecento ad aver attribuito significati contrastanti a questi eventi. Essi rappresentano uno dei punti nevralgici della storia mondiale, e per questo sono continuamente risemantizzati e reinterpretati alla luce dei valori di ogni epoca.
Persino i latini del IV e del V secolo, contemporanei ai fatti, non sapevano leggere gli eventi se non schierandosi – in sintesi – in due raggruppamenti contrapposti. Vi erano infatti coloro i quali ritenevano che il nuovo corso degli eventi fosse voluto da Dio, e per questo bisognava affidarvisi, e coloro invece che vi si opponevano con tutte le forze.
I primi erano i Cristiani del periodo tardoantico, divisi a loro volta in due grandi gruppi: gli omousiani, vale a dire coloro i quali accettavano la dottrina stabilita nel Concilio di Nicea (325 d.C) e gli ariani, seguaci delle dottrine di Ario, un prete originario della Libia che sosteneva che Padre e Figlio non fossero “consustanziali” e quindi il primo fosse sovraordinato all’altro. Le sue dottrine, dichiarate eretiche dal Concilio di Nicea, si diffusero fra i barbari oltre i confini dell’Impero, vedremo fra poco con quali effetti.




I Cristiani dell’Impero erano inclini a vivere gli eventi che capitavano intorno a loro con spirito di rassegnazione, ma al tempo stesso anche di fiducia nel futuro: se Dio aveva voluto che determinati fatti avvenissero, l’uomo, che non poteva leggere le intenzioni di Dio, doveva avere il coraggio di accettarne i disegni. Ad esempio Paolo Orosio, un cristiano vissuto a cavallo fra IV e V secolo, autore delle Storie contro i Pagani, diceva dei barbari:
O dura mente e cuore sempre spietato degli uomini! Io stesso, che sto passando in rassegna questi eventi, per dimostrare che in ogni tempo ritorna con ritmo alterno la sventura, mentre discorrevo di un male così grande, per il quale tutto il mondo tremò o per avuto la morte o per il solo terrore di essa, ho forse pianto? Ho forse mostrato dolore? Ritornando col pensiero a queste sciagure, ho forse fatto mie le sofferenze dei nostri antenati, data la somiglianza delle condizioni di vita? Ma se vengo a parlare di me stesso e dire come vidi i barbari e dovetti evitarli perché dannosi, adularli perché padroni, pregarli benché infedeli, fuggirli mentre tendevano insidie […]
[5 O dura mens hominum et cor semper inhumanum! ego ipse, qui haec pro adserenda omnium temporum alternanti calamitate percenseo, in relatu tanti mali, quo uel morte ipsa uel formidine mortis accepta totus mundus intremuit, numquid inlacrimaui oculis ? numquid corde condolui ? numquid reuoluens haec propter communem uiuendi statum maiorum miserias meas feci ? 6 cum tamen, si quando de me ipso refero, ut ignotos primum barbaros uiderim, ut infestos declinauerim, ut dominantibus blanditus sim, ut infideles praecauerim, ut insidiantes subterfugerim]
OROSIUS, HISTORIARUM ADVERSUM PAGANOS, III, 20, 5-6
Nonostante ciò, per lo stesso Orosio «le recenti migrazioni barbariche appaiono come il più evidente dei giudizi di Dio» (MAZZARINO, 1959 p.58). La concezione di Orosio – ma in generale quella cristiana – «si concludeva, in ultima analisi, con l’accettazione totale della storia in quanto storia dei giudizi di Dio» (MAZZARINO, 1959 p. 60). E sarà questa mentalità quella che arriverà al Medioevo e lo caratterizzerà:
Poiché i giudizi di Dio sono ineffabili, e non possiamo conoscerli tutti né possiamo spiegare quelli che ci sono noti, dirò in breve che la punizione di Dio giudice, in qualunque modo essa avvenga, giustamente cade su quelli che non sanno.
[10 Et quia ineffabilia sunt iudicia Dei, quae nec scire omnia nec explicare quae scimus possumus, breuiter expresserim, correptionem iudicis Dei, quoquo pacto accidat, iuste sustinere qui sciunt, iuste sustinere qui nesciunt.]
OROSIUS, HISTORIARUM ADVERSUM PAGANOS, VII, 41, 10




I pagani, sostenitori della classicità, alla fine del IV secolo sono ormai numericamente poco consistenti. Essi interpretano il presente in modo diametralmente opposto: per loro, che sentivano ancora il mito imperiale, «il mondo fatto una città sola, ed una patria unica per le diverse genti», la situazione era inaccettabile e straziante. Per essi, l’Impero al declino era «un infermo che bisognava guarire a tutti i costi».
Il dissidio fra tradizione classica e tradizione cristiana è totale, eppure – come sostiene autorevolmente Santo Mazzarino – :
dal punto di vista di tutti gli imperatori romani – anche dei più vicini al cristianesimo – il cristianesimo resta ufficialmente un crimine, tuttavia da ogni parte si leggono e si pubblicano scritti di Cristiani, da ogni parte di trovano didaskaleia di Cristiani. C’è ufficialmente un crimine di cristianesimo, eppure Marcia, la donna che domina il cuore e la corte dell’imperatore Commodo, è devota al papa Vittore, ed è cristiana. […] tutti sanno che gli dèi Mani sono pagani, eppure potrete trovare l’iscrizione Dis Manibus anche sui titoli funerari Cristiani. Settimino Severo (193-211 dC) conferma i rescritti dei suoi predecessori contro i Cristiani, tuttavia nel 212 Tertulliano presenterà lui come Christianorum memor e suo figlio come Lacte Christiano educatus. Sesto Giulio Africano, cui Severo Alessandro affida la direzione di un tempio pagano (il Pantheon) è tuttavia una Cristiano; ma usa formule magiche pagane. Si vivono due vite, l’una appollaiata sulla tradizione, l’altra di spiriti più o meno decisamente rivoluzionari.
(SANTO MAZZARINO, p.121)
2.5 Il decennio in cui sparirono i sacrifici
Non è questo il luogo in cui discutere delle complesse vicende legate alla diffusione del Cristianesimo nell’Impero. Il fenomeno è comunque di primaria importanza, ed è stato più volte additato dagli studiosi come una delle cause primarie della caduta dell’Impero. Lo storico di origine svizzera Rene Pfeilschifter delinea molto bene il passaggio al Cristianesimo come religione di Stato, avvenuto sotto l’imperatore Costantino (306-337 dC). Tale passaggio non consistette in una richiesta “dal basso”, lanciata da una massa ormai cristianizzata, e di cui gli apparati statali presero atto. In realtà si verificò l’esatto opposto: fu lo Stato romano a scegliere una religione, diffusa ancora solo a livello di setta, e ad elevarla imponendola anche ai vertici degli apparati statali. Il processo di diffusione del Cristianesimo non fu orizzontale, bensì verticale, dall’alto al basso. Esso avvenne principalmente a opera di una sola persona, l’imperatore Costantino:
La Chiesa fu sostenuta da un punto di vista finanziario, non soltanto mediante la restituzione dei beni patrimoniali confiscati durante la persecuzione, bensì anche mediante aiuti economici e donazioni di edifici. La Chiesa poté anche accettare eredità. […] Nel 313 i chierici furono esonerati dai servizi pubblici, come ad esempio il servizio militare. [… ] Nel 318 lo Stato riconobbe come vincolante il giudizio di un tribunale vescovile nelle questioni ecclesiastiche. […] Le norme cristiane trovarono accesso alla legislazione e, in tal modo, divennero prescrizioni vincolanti per tutti. La domenica divenne il giorno di riposo; dal 320 la condizione di celibe non fu più sanzionata, una sanzione che risaliva a Augusto […] Il passaggio alla nuova epoca si manifestò nel modo più evidente con la sparizione dei culti pagani. Da sempre essi erano la manifestazione più potente della vivacità dei culti pagani. […] In una legge del 319 Costantino definì la lettura delle viscere dei sacrifici una pratica superstiziosa e in seguito, nel 323, definì superstizioso il sacrificio stesso. […] Le idee pagane non erano (ancora) scandalose, ma le pratiche pagane suscitavano disapprovazione. Chi desiderava fare carriera, chi intendeva porre la propria città in buona luce agli occhi dell’imperatore, chi voleva evitare discussioni con sacerdoti e vescovi preferiva adattarsi. Offire sacrifici non era più opportuno.
(PFEILSCHIFTER 2015, p. 49)
Il grande problema che aveva assillato gli imperatori precedenti, vale a dire l’impossibilità di essere venerati dai cristiani, con il cambio della temperie culturale fu aggirato. Cominciò a essere accettata questa visione dei fatti: «Se i cristiani non possono pregare per l’imperatore, preghino per Dio a favore dell’imperatore». Ad un certo punto, così, dopo Costantino il Grande, gli imperatori preferirono essere considerati i favoriti di un unico e onnipotente Dio invece che una fra le tante e piccole semidivinità pagane.
L’unico imperatore, dopo Costantino, che cercò di riportare l’antico ordine pagano, fu Giuliano l’Apostata, il quale detenne il potere dal 360 al 363 dC. Sotto di lui vennero ripristinati i sacrifici, ma la gran parte della popolazione era ormai cristiana e lui non poteva che essere visto come «un sognatore rivolto al passato, che trovava sostegno soltanto in persone come Libanio, cioè in una ristretta élite» (PFEILSCHIFTER 2015, p. 81). La stessa morte precoce dell’imperatore Giuliano fu il segno, per i Cristiani, che Dio aveva ormai deciso che l’impero dovesse essere cristiano: il giavellotto persiano che trafisse l’imperatore fu “un miracolo” che non permise più alcun ritorno al paganesimo.
Così, fra IV e V secolo, l’impero era ormai cristiano, e i romani seguivano il credo stabilito dal Concilio di Nicea. Nel frattempo moltissime tribù barbariche, fuori o dentro i confini imperiali che fossero, avevano abbracciato anch’esse il cristianesimo, ma nella sua variante ariana.
3. Definizione del campo di indagine
Sulla scia delle riflessioni effettuate da Barbero (cfr. BARBERO 2005; 2006) si propone qui di utilizzare la battaglia di Adrianopoli (378 dC) come spartiacque fra un “prima” e un “dopo”, come un evento i cui effetti determinarono condizioni da cui non si poté tornare indietro. In effetti gli studiosi – fra cui in un certo qual modo lo stesso Barbero – che pongono l’accento sul carattere “migratorio” e costruttivo delle invasioni barbariche tendono a focalizzare i loro studi sul IV secolo. Essi tratteggiano un mondo romano “tutto ancora in piedi”, se così si può dire, a cui aggiungono una forte componente straniera, prima presente in maniera molto minore. In generale il loro discorso verte sul concetto di continuità fra mondo romano e futuri regni romano-barbarici, continuità derivante anche dai numerosissimi elementi culturali e sociali che i nuovi venuti mutuarono dal mondo latino. Emerge insomma l’idea che il passaggio di questi popoli sia, per dirla alla maniera degli anglosassoni, sostanzialmente una “accommodation”.
Altri studiosi, invece, su tutti Ward-Perkins ed Heather, hanno rifiutato la moderna idea di “appeasement” e sono tornati sulla linea classica dell’invasione. Questi studiosi ci ricordano come, soprattutto per le zone periferiche, la disgregazione dello Stato romano segnò una fortissima regressione di tutti gli aspetti della vita civile. Ci ricordano come, ad esempio, i reperti archeologici ritrovati in Britannia – cioè la regione meno romanizzata dell’Impero – testimoniano che sotto i colpi delle invasioni questa zona tornò addirittura a una situazione antecedente all’età del ferro. Questi studi in genere incentrano le loro ricerche su un V secolo ormai maturo.
Questo è il motivo per cui il presente articolo, con intento divulgativo, cerca di mettere Adrianopoli in un centro ideale, analizzando sia la situazione antecedente che quella successiva.
Nella seconda parte del presente studio viene analizzato il IV secolo, prima delle vicende di Adrianopoli. Nella terza parte, invece, si tratterà dei barbari, in particolare dei Goti e del rapporto fra romani e germani. La quarta parte sarà dedicata alla battaglia di Adrianopoli, mentre la quinta ed ultima parte (in uscita nel 2019) alla descrizione degli effetti delle invasioni nel V secolo.
Fine della prima parte
Autore: Alessandro Ardigò
Revisione e cura: Arianna Sardella, Serena Lunardi
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