SECONDA PARTE
4. Sicuri dentro i confini
4.1 L’uno e il molteplice
L’idea stessa di impero rendeva implicita la presenza di moltissime etnie e popolazioni all’interno dei suoi confini. Oltre all’Impero, nella mentalità romana, non vi era sostanzialmente nulla o, per lo meno, non vi era nulla di civile. Non è solo con spirito umanitaristico quindi che, nel 212 dC, l’imperatore Caracalla emanò la Constitutio Antoniniana. Con questo provvedimento, la cittadinanza veniva estesa a tutti gli abitanti (o quasi tutti, come vedremo fra poco): ciò implicava l’equiparazione di tutti gli abitanti agli occhi del potere imperiale, eliminando de facto ogni forma di supremazia di una nazione – quella latina – sulle altre.
Durante III e IV secolo, invece, già da tempo gli imperatori stessi erano dei provinciali e il potere imperiale – l’uno – si sentiva investito della missione di racchiudere e accettare in sé tutte le molteplicità presenti nell’Impero. A loro volta le molteplicità dovevano riconoscersi nell’unico potere imperiale e a quello dovevano sottomettersi. Era questa la concezione della superiorità romana nell’età tardoantica: l’identificazione con un ideale superiore che distingueva il vivere all’interno di un impero universale e il vivere al di fuori di esso. Da ciò derivava anche la consapevolezza della superiorità della missione imperiale e della sua universalità. Ad esempio l’oratore Temistio (317-388 dC), rivolgendosi all’imperatore Valente dopo che quest’ultimo aveva trionfalmente trattato le condizioni di pace con i Goti nel 369 dC, afferma che non è degno di un imperatore romano – e quindi universale – non adoperarsi per civilizzare tutti i popoli della Terra:
Così stanno le cose. Chiunque perseguita fino in fondo i barbari insolenti si considera principe soltanto dei Romani, mentre chi vince senza infierire si riconosce principe di tutto il genere umano e in particolare di quelli che da lui sono stati protetti e salvaguardati anche se avrebbero potuto essere completamente sterminati.
[Ἔχει γὰρ οὔτως· ὄστις μὲν ἄχρι παντὸς ἐπέξεισιν ἀπαυθαδιασαμένοις τοῖς βαρβάροις, οὖτος Ῥωμαίων μόνων ἑαυτὸν βασιλέα ποιεῖ, ὄστις δὲ κρατεῖ μέν, ψείδεται δέ, οἶδεν ἑαυτὸν βασιλέα πάντων ἀνθρώπων, καὶ μᾶλλον ἐκένων ὅς διετήρησε καὶ διέσωδεν, ἐξὸν ἀνελωῖν παντελῶς.]
TEMISTIO, DISCORSI, X, 6 trad. it. a cura di R. Maisano
In questa orazione fatta al cospetto dell’Imperatore Valente, Temistio sottolinea con decisione come la missione umanitaria doveva essere la prerogativa di un impero che aspirava a unificare il mondo intero (su questi aspetti cfr. in particolare BARBERO 2005, 2006):
A noi ora resta da fare non il conto dei caduti in guerra, ma il conto dei vivi; il nostro compito non è vincere, ma lasciar andare liberi quelli che già da noi sono stati sconfitti. È così che gli uomini si rivelano superiori ai loro simili: l’altro modo invece è quello degli orsi, dei cinghiali e dei leopardi. Quando cacciamo quelle bestie noi badiamo a preservarne la specie, e chi le stermina senza pietà è considerato un profanatore dell’arte della caccia. Noi dunque, che quando si tratta della conservazione dell’arte della specie abbiamo riguardo per gli animali più feroci, dai quali ci separa non l’Istro o il Reno, ma la natura stessa, e non permettiamo che si facciano scomparire gli elefanti dalla Libia, i leoni dalla Tessaglia e gli ippopotami dalle paludi intorno al Nilo, come possiamo non ammirare colui [l’Imperatore Valente] che, invece di sterminare, salva e protegge una popolazione sconfitta e umiliata di esseri umani che qualcuno chiama anche barbari, ma che sono pur sempre uomini?
[Καì νῦν περίεστιν ἡμῖν οὐς νεκροὺς ἀριθμεῖν, ὅσων κρείττους γεγόναμεν, ἀλλὰ τοὺς ζῶντας, οὐδὲ κεκρατηκέναι μέν, οὕς δὲ ἐκρατήσαμεν μὴ ἔχελν. Οὕτω γίνονται κρείττους ἄνθρωποι ἀνθρώπων, ὲκείνως δὲ ἄρκτων καὶ συῶν καὶ παρδάλεων. Καίτοι γε ὲκείνων απέρμα κυνηγετοῦντες ὑπολιμπάνομεν, ὁ δ’ ἐξαιρῶν παντελῶς ἀλιτήριος τῆς ἄγρας νομίζεται. Εἶτα θηρίων μὲν τῶν ἀγριωτάτων, ἅ διείργει πρὸς ἡμᾶς οὐκ Ἴστρος οὐδὲ Ῥῆνος, ἀλλ’ ἡ ψύσις αὐτή, ψελδὼ ποιούμεθα, ὅπως ἄν τῷ γένει σῷζοιτο καὶ διαμένοι, καὶ δυσχεραίνομεν ὲξῃρηένων ἐκ Λιβύης μὲν ἐλεψάντων, ὲκ Θεττλίας δὲ λεόντων, ἐκ δὲ τῶν ἑλῶν τῶν περὶ τὸν Νεῖλον τῶν ἵππων τῶν ποταμίων, ἔθνος δὲ ἀνθρώπων, καὶ εἰ πάνυ ψαίη τις βαρβάρων, ἀλλὰ ἀνθεώπων, ἐπτηχός, ὐποκῦπτον, ἐψ’ ἡμῶν κεῖσθαι δμολογοῦν, οὐ θαυμασόμεθα τὸν μὴ παντελῶς ἐξελόντα, ἀλλὰ περιποιήσαντα καὶ ψειοάμενον]
TEMISTIO, DISCORSI, X, 15, trad. it. R. Maisano
I contenuti di questa Orazione ci lasciano sbalorditi per la loro contemporaneità: da un lato parlano di umanitarismo, collegandolo al giusto trattamento degli stranieri, mentre dall’altro queste righe mettono in risalto sia quelle che oggi chiameremmo “specie animali protette” sia il “comportamento ecologico”. «Il risvolto umanitario, per cui l’impero, che aspira a dominare il mondo, deve proporsi anche l’obiettivo di civilizzare i barbari: il genocidio, in confronto, è un’opzione perdente, indegna di una grande civiltà. Possiamo scommettere che più di un generale in privato la pensasse diversamente, ma ufficialmente erano discorsi che non si potevano più fare». (BARBERO, 2005 p. 44)
4.2 La legge dell’imperatore e quella delle città
Nel periodo tardo imperiale, la fonte del diritto era l’imperatore. Senato e popolo ormai da lungo tempo non avevano più voce in capitolo. L’occupazione principale degli imperatori, però, non era quella di fare le leggi, piuttosto quella di guidare gli eserciti; l’attività legislativa dell’imperatore e della sua corte consisteva soprattutto nel rispondere a richieste che provenivano dalle città dell’impero o da altri organismi statali. Tali rescritti produssero un cumulo di normative spesso in contrasto fra di loro, poiché nascevano appunto come risposta a problemi pratici, a istanze diversissime tra loro (cfr. PFEILSCHIFTER 2015).
Ad esempio, una delle fonti di riferimento di questo studio è il De Regno di Sinesio di Cirene. Si tratta di una allocuzione all’imperatore composta dall’ambasciatore Sinesio, appunto scritta per corroborare i rapporti fra città e imperatore (probabilmente Arcadio). Sinesio era stato incaricato dalle città di Cirene e Pentapoli (città dell’attuale Libia) di recarsi a Costantinopoli e di offrire l’aurum coronarium all’imperatore, ovvero un contributo eccezionale in cambio di agevolazioni fiscali e commerciali per la Cirenaica (cfr. AMANDE-GRAFFIGNA 1999 p. 15).
Per avere una sistemazione organica del diritto imperiale, i romani avrebbero dovuto aspettare fino al 423 dC, quando, su invito dell’imperatore Teodosio, un gruppo di giuristi procedette alla sistemazione delle leggi imperiali. Il frutto di questo lavoro fu il cosiddetto Codex Theodosianus. In realtà, il Codex di Teodosio verrà superato nel giro di appena un secolo dalla grandiosa sistemazione legislativa promossa dall’imperatore Giustiniano (imp. 527-565 dC): il Corpus iuris civilis, tuttavia, per il periodo al quale è dedicato questo studio, è molto più importante il Codex Theodosianus, perché sarà preso a modello dai barbari nella costituzione delle prime statalità nazionali.
Accanto al potere universale dell’imperatore vi era, come si diceva poco sopra, quello locale delle città. Le città, per grandezza e per numero di abitanti, erano il fiore dell’Impero, il segno tangibile che la vita all’interno dell’Impero era civile ed evoluta. Sarà necessario più di un millennio, almeno in Occidente, per tornare a un livello di rete urbana e stradale simile a quello della Roma tardoimperiale.
Le città, sostanzialmente, si autogovernavano, tanto che l’impero «poteva far fronte alla sua enorme estensione soltanto grazie al fatto che la maggior parte delle decisioni veniva presa in loco, nell’ambito dell’autonomia cittadina» (PFEILSCHIFTER 2015 p.126).
Le città erano governate da élites, tenute al governo della città per diritto/dovere di nascita. Queste élites dovevano riscuotere le tasse per l’imperatore e prendersi cura della città, che era affidata alla munificenza dei cittadini più abbienti. Uno degli obiettivi primari del sistema della munificenza era quello di mantenere il consenso delle masse che vi abitavano. Con la progressiva imposizione di élites gradite all’imperatore, il sistema della munificenza perse man mano di importanza e con esso il dibattito politico cittadino. Come nota sardonicamente Pfeilschifter, fra IV e V secolo le “piazze si svuotarono e si riempirono le chiese”.

4.3 Esercito, soldi, carriera e stranieri
L’esercito era il cuore pulsante dell’impero. Era il più importante (e praticamente il solo) ministero dello Stato: a esso era affidata la realizzazione pratica dell’ideale della pax romana universale e ad esso erano indirizzate le annone e i tributi dei cittadini. Da secoli l’imperatore era un militare eletto da militari. Da secoli, inoltre, l’imperatore non era più “romano”, ma era un provinciale. A un certo punto, gli imperatori Diocleziano (in carica dal 284 al 305 dC) e Costantino (dal 306 al 337 dC) sentirono la necessità di dividere l’armata fra truppe di intervento (comitatenses), comandate direttamente dall’imperatore, che potevano spostarsi da un capo all’altro dell’impero, e truppe invece stanziali deputate al controllo dei confini imperiali (limitanei).
Dal 364 l’importanza dell’esercito tende a aumentare. […] militari essi stessi, gli imperatori si circondano di militari. Conseguentemente, il potere civile perde preminenza. Una legge del 372 crea due categorie sociali superiori ai clarissimi, di queste due categorie fanno parte i militari, come i prefetti del pretorio e i maestri di milizia. Il porre alla pari certe funzioni militari e certe funzioni civili, la creazione di due ranghi superiori ai clarissimi, è una doppia lesione all’ordine senatorio. […] anche l’amministrazione civile è militarizzata, ogni funzione pubblica è considerata come una militia. Gli impiegati degli uffici devono essere iscritti in una coorte oppure in una legione.
REMONDON, p. 141
È possibile farsi un’idea dell’esercito di quest’epoca consultando la Notitia Dignitatum, documento di autore anonimo, databile fra IV e V secolo, che illustra i vari corpi militari presenti sul territorio imperiale orientale e occidentale.




Si rimane molto colpiti, nel periodo storico in oggetto, dai nomi “barbarici” di molti dei reparti dell’esercito:
La composizione dell’esercito romano era molto cambiata rispetto all’epoca classica. C’erano ancora le legioni […] ma non aveva più molto a che fare con le legioni classiche: quelle infatti erano falangi enormi, di cinque o seimila uomini l’una, per cui ne bastavano tre o quattro per costituire un grande esercito. Le legioni del tardo impero, invece, erano reparti piccoli, non più di mille uomini sulla carta, e nella realtà anche meno, l’equivalente di un battaglione moderno. Accanto alle legioni c’erano gli auxilia, che in origine erano reparti di seconda categoria, reclutati fra le popolazioni barbariche sottomesse, e che ora non erano più di seconda categoria, le loro dimensioni però erano inferiori a quelle delle legioni, forse non più di qualche centinaio di uomini.
BARBERO 2005, p. 146
Da tempo il numero di barbari arruolati nell’esercito regolare era andato aumentando. Tale aumento era favorito dal sistema di reclutamento: le reclute romane venivano riscattate dall’Impero come una vera e propria tassa. I cittadini dovevano fornire soldati allo Stato in numero direttamente proporzionale alla quantità di terra che possedevano. Ma sia contadini sia élites erano liberi di rifiutare di prestare il servizio militare, a patto di risarcire l’Impero con un corrispettivo in denaro che andava a sostituire il mancato servizio. Abbiamo un documento – l’Editto sui prezzi massimi promulgato da Diocleziano nel 301 dC – grazie al quale è possibile comprendere perché un romano nell’epoca tardoantica preferisse pagare, sottrarsi al servizio militare e affidare la propria sicurezza a un esercito di professionisti.
L’Edictum De Pretiis Rerum Venalium – questo il nome esatto dell’editto di Diocleziano – ci dice che un soldato comune riceveva una paga di circa 20 denari al giorno, comprese tutte le indennità, mentre un bracciante agricolo, dopo l’editto dei prezzi di Diocleziano, poteva guadagnare 25 denari, un muratore 50 denari. [N.B. Un litro di vino italiano costava 30 denari e un litro di vino locale 8. Uno schiavo fra i 16 e i 40 anni valeva 30.000 denari, una schiava 25.000, un cavallo 36.000 e un leone 150.000 denari (per le cifre cfr. PFEILSCHIFTER p. 22)].
Come è evidente da questi prezzi, per un cittadino romano non era conveniente prestare il servizio militare, nemmeno per un povero contadino. Di contro, il servizio militare era vantaggioso per un barbaro accampato sui confini: «L’armata costituiva il migliore strumento di mobilità sociale, il singolo poteva riuscire a fare carriera passando da recluta a generale. […] Con l’avanzare del IV secolo, tra i magistri militum [ndr generali del periodo Tardoantico] si trovavano sempre più germani». (PFEILSCHIFTER 2015, p. 105). I gruppi di barbari che intendevano intraprendere la carriera militare (gruppi, non singoli) «abbandonavano per sempre il loro paese e le loro famiglie per una vita nuova, e quelli che sopravvivevano a venticinque anni di servizio diventavano cittadini» (BARBERO 2005, p. 33).
Con la cittadinanza conquistata sul campo gli stranieri, che non erano interessati dagli effetti dell’editto di Caracalla, ottenevano anche della terra da coltivare come uomini liberi e il diritto di avere una famiglia e una discendenza. Entrare nell’esercito, nel IV secolo, era per un barbaro una prospettiva piena di potenzialità.
Le truppe del IV e del V secolo, che avevano la forza di imporre l’imperatore, erano truppe di professionisti (non mercenari, professionisti). Il loro numero totale era stimato attorno alla vertiginosa cifra di 600.000 unità, divise, come detto sopra, fra truppe mobili di intervento e truppe a guardia dei confini. Ognuno dei 600.000 soldati doveva essere sfamato, pagato ed equipaggiato: non essendoci altri “ministeri”, nella Roma imperiale l’esercito assorbiva la gran parte delle finanze, ma queste finanze dovevano essere ben funzionanti, come efficientissimo doveva essere il sistema di rifornimenti che si occupava dei soldati (Cfr. WARD-PERKINS p.33).
I romani compravano i vasi da vasai di professione, e la difesa da professionisti della guerra. In entrambi i casi acquistavano un prodotto di qualità.
WARD-PERKINS p.63




L’opinione pubblica, se così si può definire, Tardoantica era ben conscia delle contraddizioni del sistema di difesa e di reclutamento imperiale e del “corto-circuito” che andava creandosi con il sistema economico. La crescente presenza di stranieri armati andava creando sentimenti di ostilità e preoccupazione fra i cittadini dell’Impero; si legga questo stralcio dal De Regno dell’ambasciatore Sinesio di Cirene (370-414 ca), in cui i barbari militari sono paragonati a lupi che, per quanto allevati fin da piccoli nell’impero, rimangono comunque lupi e non si mescolano ai cani:
Ma il pastore non dovrà mettere insieme con i cani i lupi, anche quelli raccolti ancora cuccioli ed apparentemente mansueti, altrimenti avrà affidato il gregge a cattivi custodi, i quali, non appena avvertiranno nei cani qualche segno di debolezza o distrazione, si getteranno su di loro, sul gregge, sui pastori. Allo stesso modo il legislatore non dovrà dare armi a quelli che non siano stati generati e allevati sotto le sue leggi, poiché gente simile non garantisce un briciolo di lealtà. Soltanto un temerario o uno che non guardi al presente non viene colto dal timore alla vista di tanta gioventù, allevata diversamente dalla nostra e con proprie abitudini, dedita alle attività belliche nel nostro paese. […] Al contrario, non preparare una forza che possa contrastarli, anzi, per quanto tale forza sia disponibile, concedere l’esenzione dagli obblighi militari a molti che ne fanno richiesta e permettere che si occupino di altre attività gli uomini che si trovano nel nostro paese, che cos’è se non affrettarsi alla propria rovina? Piuttosto che permettere agli Sciti di portare armi nel nostro paese, bisognerebbe richiedere uomini alle nostre campagne, perché essi stessi le difendano, ed arruolare soldati il più possibile, prelevando anche il filosofo dal pensatoio, l’artigiano dal laboratorio, il commerciante dalla bottega.
[ἀλλ’ οὔτε τῷ ποιμένι μετὰ κυνων τοὺξ λύκους τακτέον, κἄν ξκύμνοι ποτὲ ὰναιρεθέντες τιθασεύεσσαι δόσωσιν, ἢ κακῶς αὐτοῖς πιστεύσει τὴν ποίμνην· ὅταν γάρ τινα ταῖς κυσὶν ἀσθένειαν ἢ ῥᾳθυμίαν ἐνίδωσιν, αὐταῖς τε καὶ ποίμνῃ καὶ ποιμέσιν ἐπιχειρήσουσιν· οὔτε τῷ νομοθέτῃ δοτεον ὅπλα τοῖς οὐ τεχθεῖσί τε κὰι τραφεῖσιν ἐν τοῖς αὐτοῦ νόμοις· οὐ λαρ ἔχει παρὰ τῶν τοιούτων οὐδὲν εὐνοίας ἐνέχυρον. ὡς ὤστιν ἀνδρὸς θαρσαλέου ἤ μάντεως νεότητα τολλὴν ἑτερότροφον ἔθεσιν ἰδιοις χρωμένην ἐν τῇ χώρᾳ τὰ πολέμια μελετῶσαν ὁρῶντα μὴ δεδιέναι· δεῖ γὰρ ἤτοι πάντας αὐτοὺς πιστεῦσαι φιλοσοφεῖν […] τὸ δὲ μήτε ἀντίπαλον αὐτοῖς κατασκευάζεσθαι δύναμιν καί, ὡς ἐκείνης οἰκείας ὄυσης, ἀστρατείαν τε διδόναι πολλοῖς]
SINESIO, DE REGNO, 19 trad. it. a cura di C. Amande
Nonostante ciò sono numerosissime le richieste, da parte di senatori e “civili” in generale, alla “clemenza imperiale” affinché conceda di poter riscattare il servizio militare. Evidentemente le campagne non erano così popolate e la popolazione, nonostante la presenza di stranieri armati, sentiva comunque più urgente occuparsi della campagna e dei commerci.
È molto interessante la testimonianza di Tesmistio il quale, sempre rivolgendosi all’imperatore Valente con l’intento di adularlo, in realtà ci rivela suo malgrado che la situazione non era così rosea non solo nelle campagne, ma anche sui confini “caldi” come quello danubiano:
[Sul confine danubiano, l’imperatore Valente] ha costruito fortezze nuove, ne ha restaurate altre che erano in rovina, ad altre ha procurato quanto mancava: ha sopraelevato i castelli troppo bassi, ha aumentato lo spessore di quelli non abbastanza solidi, ha fornito acqua ai luoghi ove se ne soffriva la mancanza, ha organizzato depositi di viveri ovunque, approdi sul mare, corpi scelti di soldati, presidi effettivi, armi e macchine da guerra, e tutto ha predisposto con la massima cura. Fino ad ora i nostri nemici, osservando l’incuria delle fortezze, avevano creduto che la pace e la guerra dipendessero soltanto da loro. Essi vedevano che i nostri soldati non solo erano disarmati, ma spesso addirittura privi di tuniche e prostrati nel corpo e nello spirito, e credevano che ufficiali e sottoufficali fossero piuttosto commercianti e trafficanti di schiavi, dediti esclusivamente alla ricerca del profitto e agli affari. I nostri nemici vedevano diminuire il numero delle guardie di confine, cosicché lo stipendio dei soldati rimasti diventava un guadagno per loro; e vedevano le stesse fortezze, spoglie di uomini e di armi, andare in malora. Notando dunque tutto questo i nemici non a torto pensavano che nelle loro scorrerie avrebbero avuto la meglio […].
[Gli Sciti] appostati sulle isolette [del Danubio] piombavano all’improvviso sugli abitianti e, mentre i soldati dei presidi, così lontani gli uni dagli altri, venivano a sapere dell’accaduto, quelli saccheggiavano quanto potevano per poi tornarsene al fiume. […]
[Ora invece, dopo che Valente ha ri-fortificato il confine] la riva è piena di presidi colmi di soldati, e questi sono bene equipaggiati con armi buone e solide. I militari arruolati non solo dediti alla mollezza e c’è abbondanza dei generi necessari: perciò i soldati delle guarnigioni non sono più costretti a fare la guerra ai sudditi dell’impero invece che ai barbari, rispettando questi in virtù dei trattati e vessando i contadini per rimediare alla propria indigenza.
[‘Αλλὰ. καίτοι τοῦ κέρδους ὑπάρχοντος κοινοῦ τοῖς ἔθνεσιν ἀμφοτέροις έκ τῆς ἀμοιβῆς τῶν ἐν χρείᾳ συναλλαγμάτων, δύο μόνας πόλεις τῶν ποταμῷ προσῳκισμένων ἐμπόρια κατεσκευάσατο. Τοῦτο δὲ ἦν ἅμα μὲν σημεῖον τοῦ πάντα ἐπιτάττοντα τοῖς βαρβάροις τὰς σπονδὰς ποιεῖσθαι, ἅμα δὲ πρόνοια τοῦ κακουργοῦντας ἦττον λανθάνείν, ἀποκεκλεισμἐνης αὐτοῖς εἰς τὰ ὡρισμένα χωρία τῆς ‘ ἐπιμξίας. Γινώσκει γάρ, οἶμαι, σῴζειν τοὺς βαρβάρους δυνάμεως ἔχων, τὴν φύσιν δὲ αύτῶν ἀμείβειν οὐχ οἷός τε ὤν· ὤστε ἀφῄρητο αὐτῶν την ῥᾳστώνην τῆς ἀπιστίας. Διὰ τοῦτο γὰρ καὶ τῶν φρουρίων τὰ μὲν ᾠκοδόμησεν ἐκ καινῆς, τὰ δὲ ἀνέστησε κατατετριμμένα, τοῖς δὲ
προσέθηκε τὸ ἐνδέον, ὕψους μὲν ᾗ χθαμαλώτερον ἦν, πάχους δὲ ὅπου τούtου προσέδει, ὕδατος δὲ ἀφθονίαν, ᾗ ταύτῃ πρότερον ἐπιέζετο] […]
TEMISTIO, DISCORSI, X, 11-13 trad. it. a cura di R. Maisano
5. Ricchi e poveri fra IV e V secolo
5.1 Il latifondo
Le classi senatorie erano una minoranza ricchissima. Le loro aziende erano costituite perlopiù da piantagioni in cui lavoravano schiavi che vivevano in caserma, diretti da villici liberi che invece vivevano assieme alla loro famiglia. Il latifondo si è talmente espanso che in Egitto, ad esempio, una “casa” romana pagava allo Stato qualcosa cosa come 30.000 libbre d’oro in tasse (Cfr. REMONDON p.166). Queste “case”, questi latifondi, erano di proprietà dei senatori. Vediamo quanto ricco poteva essere un senatore: secondo la Vita latina di Santa Melania, Santa vissuta nel V secolo, la cui storia fu narrata da Geronzio, essa si spogliò di tutti i suoi beni per dedicarsi a una vita di santità cristiane. Geronzio scrive che Melania aveva possedimenti in tutto l’impero, in Italia, in Siria in Mesopotamia, quasi come fosse una multinazionale attuale. Con le risorse provenienti dai suoi possedimenti africani, Melania e suo marito poterono costruire e dotare due grandi monasteri, uno per 130 sacre vergini, l’altro per 80 monaci. Questa fonte è interessantissima non solo per il fatto che ci testimonia la vertiginosa concentrazione delle ricchezze fondiarie nelle mani della classe senatoria tardoantica, ma anche per il fatto che la protagonista sia una donna – Melania, appunto -, che sia lei a gestire pienamente tutte le sue proprietà e che questa sia la prima opera di una certa ampiezza arrivata sino a noi dedicata interamente a una donna. Le donne ebbero infatti un ruolo di primo piano nella diffusione e nella conversione alla fede cristiana, lo stesso San Gerolamo indirizza numerosissime lettere a donne romane ricchissime, affinché diffondano la fede in Cristo, in una versione non troppo mitigata. Ancora oggi, ad esempio, sono le donne in maggioranza a praticare e a diffonde discipline ideologicamente e corporalmente rigide, quali il veganesimo. Grosso modo coeve alla vita di Santa Melania, ci sono arrivate opere agiografiche delle Sante Sincletica e Macrina. Le tre sante tardoantiche “condividono la stessa radicalità delle scelte di vita”, inoltre “la rinuncia al matrimonio, la scelta della castità coniugale di Melania, il disprezzo delle belle vesti e delle vanità terrene, rappresentano altrettanti punti di contatto delle tre sante” (cfr. COCO 2013, p. 5), che vanno viste, proprio per questo, come appartenenti a una minoranza ideologicamente agguerritissima.
La beata [Melania] ancora una volta dovette patire gli assalti del diavolo che le insinuava il dubbio. Possedeva infatti una proprietà davvero splendida […] infatti quella proprietà aveva sessanta villaggi, con ciascuno quattrocento schiavi che coltivavano la terra. La Santa respinse [queste visioni] mediante pensieri pii, dicendo che tutto ciò non era niente rispetto a quanto era stato promesso ai servi di Dio. Infatti questi beni possono essere distrutti dai barbari […]. Essi dunque cominciarono a vendere e a distribuire ai santi e ai bisognosi come ho detto in precedenza. Quale paese non fu toccato dai loro benefici? Si parli della Mesopotamia o di altre regioni di Oriente e Occidente, del nord o del sud, non credo vi sia un’isola che non abbia partecipato dei loro benefici! […] Vendettero dunque tutto quello che possedevano a Roma, in Campania e in Italia. Tutti i senatori li criticavano come fossero degli insensati […]. Dopo essersi diretti da Roma in Africa, Alarico arrivò sulle proprietà che avevano venduto a Roma. Allora tutti i detrattori cominciarono a beatificare i santi […].
[Melania] fece anche dono di una proprietà che garantiva un elevato reddito: proprietà che era più estesa della città stessa e che aveva dei bagni e molti artigiani che lavoravano l’oro, l’argento e il bronzo e due vescovi, uno della nostra fede e l’altro della fede degli eretici. I beati [Melania e suo marito] costruirono in Africa due monasteri propri, uno composto da vergini di Dio, in numero di circa centotrenta e l’altro di uomini, circa ottanta, che con i relativi servi e schiavi davano loro una rendita sufficiente.
[18. Iterum et secundo has immissiones diaboli patitur haec beatissima, quia immiserat ei dubitationem. Erat enim possessio nimis praeclara, habens balneum infra se et natatoriam in ea […] Habebat enim ipsa possessio sexaginta villulas, circa se habentes quadringenteos servi agricultores. Quod sancta repulit pio contradicens haec omnia nihil esse ad ea quae promissa sunt servis Dei: etenim hae arbores [haec a barbaris] possunt dissolvi et igni consumi aut tempore multo dissipari. […] 19. Incipiunt igitur venundare et dispertire quibus predis sanctis et egenis. Qualis autem patria immunis fuit beneficio ipsorum? Si dixeris Mesopotamiam aut alias partes orientis sive occidentis et arctum et meridianum, non existimo insula aut civitatem quae non commuicarit horum beneficiis. […] Venundant igitur omnia quae circa Romam, in Campaniam et Italiam possident, et dispergentes eam pergunt in Africam. Omnes enim senatores reprehendentes vituperbant eos quasi stultos et juvenilem agentes potestatem, pro quod omnia dispergerent. Cum ergo navigassent a Roma in Africam, statim Alacrius supervenit in possessionibus quas destruxerant Romae. Tunc omnes illi detractores coeperunt beatificare sanctos […].
Dedit autem et possessionem multam pastantem reditumque. Possessio erat major etiam cititatis ipsius, habens balneum, artifices multos, aurifices, argentarios et aerarios; et duos episcopos, unum nostrae fidei et alium haeretocorum. 22. Construxerunt etiam beatissimi in Africa duo primo monasteria, unum virginum Dei usque centum triginta numero, et alium virorum esque octuaginta, ex propriis servis et puellis, donantes eis sufficienter reditus.]
GERONZIO, VITA LATINA DI SANTA MELANIA, XVIII-XXII, trad. it. a cura di L. Coco
Da alcuni frammenti di Olimpiodoro (V sec dC) veniamo a sapere che «il reddito che numerose case romane traggono ogni anno dalle loro proprietà si eleva a 4.000 libbre d’oro, senza contare il grano, il vino e tutti gli altri prodotti in natura» (OLIMPIODORO, fr. 44 P.G. 103, 280).
Nel Tardoantico la grande proprietà fondiaria è la «forma essenziale della ricchezza», per usare le parole di Mazzarino. Dalle piantagioni arrivano i capitali per lo Stato e i capitali per le speculazioni. Ecco come era organizzata la piantagione romana:
Il campo è fondato sul lavoro a piantagioni, e i lavoratori di questo sono schiavi. La famiglia degli schiavi e i coloni, l’una accanto agli altri sono, anche in età imperiale, i normali abitatori delle grandi proprietà.
L’abitazione dello strumento parlante (o instrumentum vocale, cioè gli schiavi), la troviamo vicina a quella degli animali, o instrumentum semivocale. Essa si compone di dormitori, del lazzaretto, del carcere, dell’officina; insomma evoca subito l’immagine della caserma. Ed in realtà la vita dello schiavo è normalmente una vita di caserma […] lo schiavo accasermato non soltanto non ha proprietà ma non ha nemmeno famiglia. Solo il villicus vive stabilmente nella sua casa separata insieme con una donna, più o meno come il sotto ufficiale nella caserma moderna. Dunque la caserma di schiavi priva di famiglie non può riprodursi da sola; per crescere essa dovette ricorrere al continuo acquisto di schiavi.
MAZZARINO p.141
L’economia del IV secolo era tutt’altro che stagnante. Il commercio era molto diffuso anche e soprattutto fra gli strati medio-bassi della popolazione. Ed è proprio “diffusione” il termine per capire l’altissimo grado di specializzazione raggiunto dalla società romana. Alcuni scavi (Cfr. WARD-PERKINS) hanno rilevato come l’inquinamento da piombo e rame riscontrato nelle “zone produttive”, cioè dove sono stati rinvenuti resti di fornaci, era altissimo durante l’età romana. Esso si ridusse drasticamente nei secoli successivi fino a raggiungere livelli di inquinamento zero, simili a quelli preistorici. Per trovare livelli di inquinamento, e quindi di produttività, simili a quelli romani bisognerà aspettare addirittura i secoli XVI e XVII. Questi centri di produzione – oltre a inquinare con piombo e rame – producevano prodotti standardizzati che avevano diffusione in tutto l’impero e nell’esercito. I grandissimi depositi di cocci catalogati dagli archeologi ci dicono che ciò che veniva prodotto e non soddisfaceva alcuni requisiti, semplicemente veniva buttato, non riciclato e nemmeno riparato (cfr. ancora WARD-PERKINS). Se questa specializzazione valeva per le ceramiche – e ancora di più per gli armamenti dell’esercito, che dovevano essere assolutamente standard – «non v’è ragione di supporre che il mercato dell’abbigliamento, delle calzature e degli utensili domestici e di lavoro fosse meno raffinato di quello della ceramica» (Ibidem p. 116). Oltre a ciò, si tenga presente che, come diversi studi archeologici dimostrano, i romani dell’epoca tardoantica vivevano praticamente tutti – anche i più poveri – in abitazioni con tetti di tegole, che spariranno nel periodo successivo, anche per le case dei ricchi, sostituiti dal legno e dalla paglia.
5.2 I patroni e la perdita della libertà
Nonostante questo enorme flusso di merci, denaro e annone, le campagne, a seguito di epidemie e carestie, erano endemicamente depopolate, e le piantagioni che abbiamo descritto più sopra avevano un continuo bisogno di manodopera. Le fonti di schiavi erano appunto principalmente le guerre: gli schiavi provenivano per la grande maggioranza dalla cattura di tribù e popolazioni che vivevano fuori dai confini imperiali.
Come ci racconta Orosio, c’erano dei periodi in cui l’offerta schiavile era altissima e altri periodi in cui, evidentemente, era molto scarsa:
I prigionieri goti erano così numerosi che vennero venduti a branchi per un denaro l’uno, come se fossero il bestiame più a buon mercato
[tanta vero multitudo captivorum Gothorum fuisse fertur, ut, vilissimarum pecudum modo, singulis aureis passim greges hominum venderentur]
OROSIUS, HAP, VII, 37
Durante l’epoca tardoantica, la costante mancanza di manodopera schiavile, associata al grave depopolamento, farà sì che agli schiavi venga dato il diritto di affrancarsi dalle “piantagioni-caserme” e, pur continuando a essere legati alla coltivazione, che sia concesso loro il diritto alla famiglia, alla terra e alla discendenza. Questo è davvero un passaggio cruciale dell’età tardoantica, perché di fatto in questa maniera si andavano equiparando gli schiavi con i contadini poveri romani. «E mentre allora lo schiavo salì socialmente fino alla posizione di contadino legato alla terra, nello stesso tempo il colono scese alla condizione di contadino legato alla terra» (MAZZARINO p. 142).
Anche secondo Max Weber, il miglioramento delle condizioni degli schiavi andò a detrimento dell’economia monetaria in generale: «Quando lo schiavo ebbe una famiglia, l’economia rurale si sostituì a quella monetaria, i traffici scomparvero e il fisco richiese una tassazione naturale» (Cfr. WEBER, Rapporti agrari nell’antichità). Questo processo di omologazione degli strati medio-bassi è quello che, “non c’è dubbio” aggiunge Mazzarino, porterà dal sistema tardoantico a quello medioevale:
I piccoli contadini-proprietari si fecero dediticii dei ricchi o, come si diceva in celtico, vassi; qui sono le prime avvisaglie del sistema economico del vassallaggio, che segnò di sé il Medioevo. Gli uomini piccoli si rifugiarono sotto il patrocinio delle grandi signorie fondiarie, che esse sole potevano fugare lo spettro delle grandi esazioni.
MAZZARINO p. 157Da Marco Aurelio in poi, sino a tutto il Basso Impero, molti barbari vinti divennero laeti. Così essi non venivano ridotti in schiavitù, ma stanziati nelle campagne a lavorare le terre dette appunto laeticae; stanziati con mezzi e figli. E tuttavia ancora all’estremo crepuscolo della grandezza romana, sotto Stilicone, la grande vittoria contro Radagaiso nel 406 gettò sul mercato un’enorme quantità di schiavi Ostrogoti, in caso come questo la guerra vittoriosa dava come risultati la schiavizzazione dei barbari.
MAZZARINO, p. 148
A ciò bisogna aggiungere che la sempre maggiore richiesta di denaro da parte delle casse statali, per le guerre e per i soldati, favorì il cosiddetto patronato, altro fenomeno che lega direttamente il Tardoantico con il Medioevo. Molti coloni, a volte intere comunità, non potendo versare tutto ciò che l’Impero richiedeva, si mettevano sotto la protezione di un signore.
Il 4 febbraio 360, ad esempio, l’imperatore Costanzo si sdegna del fatto che in Egitto alcuni contadini abbandonino il consortium e si mettano sotto la protezione di gente abbastanza potente per «fornire loro un rifugio e, promettendo aiuto, ostacolare la riscossione dei redditi imperiali», cfr. Codex Theodosianus.
Secondo Remondon, a questa data, in alcune province imperiali il fenomeno del patronato è talmente diffuso da potersi considerare endemico. Nel Papiro di Teadelfia si legge:
Siamo andati alla ricerca della gente del nostro villaggio che è fuggita e abbiamo scoperto, sulla proprietà di Eulogio, cinque con le loro famiglie. Ma le genti di Eulogio ci hanno impedito con viva forza di avvicinarci all’entrata della tenuta.
PAPIRO DI TEADELFIA, 17 (332 dC, qui citato da REMONDON p.144)
Per non pagare le tasse i coloni fuggono dalle loro terre e si offrono ai duces, in condizione di semischiavitù. Lo Stato, allora, per ovviare alla situazione, cerca di vincolare i contadini al suolo, prefigurando la servitù della gleba. La necessità di tamponare queste fughe è talmente impellente che gli imperatori vi insistono nelle costituzioni promulgate negli anni 332, 357, 360, 365, 368 e 370 dC (tutte contenute nel Codex Theodosianus). Si legga questo esempio, sempre tratto dal Codice Teodosiano:
Impp. Valentinianus et Valens aa. ad Clearchum vicarium Asiae. Non dubium est, colonis arva, quae subigunt, usque adeo alienandi ius non esse, ut, et si qua propria habeant, inconsultis atque ignorantibus patronis in alteros transferre non liceat. Dat. vi. kal. febr. Valentinianus et Valente aa. coss.
COD. THEOD. V, 19, 1
Il giudizio dello storico Remondon sul fenomeno del patronato è molto duro:
Il patronato distrugge la funzione amministrativa delle città, usurpando terre uomini e villaggi riduce il territorio sul quale esse esercitano controllo; inoltre oppone la sua economia latifondista a quella economia monetaria delle città. […] i patroni inoltre tendono a concentrare nelle loro mani, oltre la potenza economica, poteri amministrativi (imposte) e poteri di polizia. […] si deve temere che l’autorità dello stato non possa esercitarsi se non con il consenso dei patroni.
REMONDON p.145




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Autore: Alessandro Ardigò
Revisione e cura: Arianna Sardella, Serena Lunardi
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