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Migrazioni e Imperi dell’altro ieri: Roma e i Goti (TERZA PARTE)

In copertina: I Goti attraversano il fiume, di Evariste-Vital Luminais. Immagine di pubblico dominio. Link: https://en.wikipedia.org/wiki/%C3%89variste_Vital_Luminais#/media/File:Evariste-Vital_Luminais_-_Goths_traversant_une_rivi%C3%A8re.jpg Sotto: Ulpiano Checa Sanz, Gli Unni all'attacco. Immagine di pubblico dominio. Link: https://it.wikipedia.org/wiki/Invasioni_barbariche_del_V_secolo#/media/File:Ulpiano_Checa_La_invasi%C3%B3n_de_los_b%C3%A1rbaros.jpg
In copertina: I Goti attraversano il fiume, di Evariste-Vital Luminais. Immagine di pubblico dominio. Link: https://en.wikipedia.org/wiki/%C3%89variste_Vital_Luminais#/media/File:Evariste-Vital_Luminais_-_Goths_traversant_une_rivi%C3%A8re.jpg Sotto: Ulpiano Checa Sanz, Gli Unni all’attacco. Immagine di pubblico dominio. Link: https://it.wikipedia.org/wiki/Invasioni_barbariche_del_V_secolo#/media/File:Ulpiano_Checa_La_invasi%C3%B3n_de_los_b%C3%A1rbaros.jpg

TERZA PARTE
6. Al di là dei confini: i Barbari
6.1 I brutali Germani
Nell’immaginario romano del Tardo Impero, i Germani erano saldamente associati alla forza fisica e alla brutalità tipica degli incolti e degli incivili. Secondo questa visione  i cittadini erano razionali e intelligenti, ma molli e inetti: “in ogni uomo vi è un elemento barbarico, selvatico e ribelle: l’iracondia e le voglie insaziabili dico, che sono l’antitesi della ragione, così come Germani e Sciti sono l’antitesi dei Romani.” [Εἶναι λάρ τι καὶ ἐν έκάστῳ βάρβαρον ψῦλον, λίαν αὐθάδες καὶ δυσπειθές, τὸν θυμὸν  λέγω καὶ τὰς ἀπλήστους ἐπιθυμίας, ἀντικαθήμενα γένη τῷ λογισμῷ, καθάπερ Ῥωμαίοις Σκύθαι καὶ Γερμανοί.] (TEMISTIO, DISCORSI, X, 5 trad. it. a cura di R. Maisano).

Per chiarire ulteriormente questo aspetto, si mettano a confronto i due testi seguenti. Il primo testo è di Giordane, un vescovo goto del VI secolo, che da Costantinopoli si spostò in Calabria, nel monastero di Vivarium fondato da Cassiodoro. In questo luogo di pace, Giordane si mise a riassumere una poderosa Storia dei Goti di Cassiodoro, oggi andata perduta.
Il secondo testo invece è preso dalle Storie del già citato Ammiano Marcellino, storico ed ex militare romano, vissuto nella seconda metà del IV secolo.

Infatti, durante il regno dell’imperatore Severo (n.d.r. 193-211 dC) […] Massimino, alla fine della sua giovinezza e dopo una vita trascorsa in campagna, lasciò i pascoli per farsi soldato. Il principe, in quell’occasione, aveva indetto dei giochi militari. Massimino, accortosi di ciò, sebbene fosse un adolescente semibarbaro, visti i premi in palio, chiese nella propria lingua all’imperatore la possibilità di confrontarsi con i soldati più esperti. 85. Severo, impressionato in modo particolare dalla sua statura imponente (infatti, come raccontano, era alto più di otto piedi – [n.d.r. 232 cm]) ordinò di far combattere corpo a corpo il giovane con i vivandieri, affinché i suoi soldati non rischiassero di venire umiliati da quell’uomo così rude. Il successo fu tale che Massimino riuscì a gettare a terra sedici vivandieri vincendoli l’uno dopo l’altro, senza concedersi neppure un intervallo di tempo per recuperare le forze. Ottenuti quindi i premi, fu immediatamente reclutato nell’esercito e per prima cosa militò nella cavalleria. Tre giorni dopo, l’imperatore si presentò al campo di addestramento e lo vide folleggiare alla maniera dei barbari; allora ordinò al tribuno di correggerlo e di educarlo alla maniera alla disciplina romana. […] 86. […] Poi Severo, sceso da cavallo, ordinò che le reclute più fresche combattessero contro di lui. Quello gettò a terra sette valorosissimi giovani, senza neppure il tempo di riprendere fiato […] infine gli fu ordinato di servire nella guardia imperiale.

[Nam hic Severo imp. regnante et natalis die filii celebrante, post prima aetate et rusticana vita de pascuis in militiam venit. Princeps si quidem militares dederat ludos; quod cernens Maximinus, quamvis semibarbarus aduliscens, propositis praemiis patria lingua petit ab imperatore, ut sibi luctandi cum expertis militibus licentiam daret. 85 Severus, ammodum miratus magnitudinem formae “erat enim, ut fertur, statura eius procera ultra octo pedes” iussit eum lixis corporis nexu contendere, ne quid a rudi homine militaribus viris eveniret iniuriae. Tum Maximinus sedecim lixas tanta felicitate prostravit, ut vincendo singulos nullam sibi requiem per intercapidinem temporis daret. Hic captis praemiis iussus in militiam mitti, primaque ei stipendia equestria fuere. Tertia post haec die, cum imperator prodiret ad campum, vidit eum exultantem more barbarico iussitque tribuno, ut eum cohercitum ad Romanam inbueret disciplinam. Ille vero, ubi de se intellexit principem loqui, accessit ad eum equitantemque praeire pedibus coepit. 86 Tum imperator equo ad lentum cursum calcaribus incitato multos urbes huc atque illuc usque ad suam defatigationem variis deflexibus impedivit ac deinde ait illi: ‘Num quid vis post cursum, Thracisce, luctare?’ Respondit: ‘Quantum libet, imperator’. Ita Severus, ex equo desiliens, recentissimos militum cum eo decertari iussit. At ille septem valentissimos iuvenes ad terram elisit, ita ut antea nihil per intervalla respiraret, solusque a Caesare et argenteis praemiis et aureo torque donatus est; iussus deinde inter stipatores degere corporis principalis.]
IORDANES, GETICA, XV, 84-86.

Secondo testo, di Ammiano Marcellino, che descrive – ironicamente – un ricco romano:

Alcuni, se si allontanano dalla città per visitare i campi o per cacciare la selvaggina con le fatiche altrui, credono d’aver uguagliato i viaggi di Alessandro Magno o di Cesare; oppure, se navigano in barchette variopinte dal lago di Averno sino a Pozzuoli, a loro sembra di aver affrontato la lotta per il vello d’oro, specie poi quando osano compiere la traversata nella stagione calda.

[Pars eorum, si agros visuri processerunt longius, aut alienis laboribus venaturi, Alexandri Magni itinera se putant aequiperasse vel Caesaris: aut si a lacu Averni lembis invecti sunt pictis Puteolos, velleris certamen, maxime cum id vaporato audeant tempore. ubi si inter aurata flabella laciniis sericis insederint muscae, vel per foramen umbracul pensilis radiolus inruperit solis, queruntur quod non sunt apuc Cimmerios nati.]
AMM, XVIII, IV, 18

6.2 Noi e gli altri
Da secoli le tribù barbare facevano pressioni sui confini imperiali, soprattutto, per quel che interessa a noi, sui confini naturali dell’Impero: il Reno e il Danubio. Il rapporto fra romani e barbari era un rapporto di forza ambiguo da entrambe le parti: poter godere della pax romana, infatti, significava per i barbari poter accedere a un tenore di vita senza dubbio più alto, ma anche dover rinunciare alla propria libertà. I romani, dal canto loro, accoglievano o annientavano le tribù che varcavano la frontiera a seconda delle necessità del momento, come il bisogno di reclute nell’esercito o di manodopera nelle campagne. Nei secoli, la macchina imperiale romana aveva imparato a rapportarsi con i barbari in maniera sempre più organizzata cercando, fino a quando fu possibile, di trattare con i barbari da una posizione predominante. Le strategie a cui ricorse l’Impero andavano dalla deportazione forzata di clan, all’annientamento fisico dei barbari,  alla stipulazione di patti di vario genere con i capitribù. Alessandro Barbero (BARBERO 2006) ci ricorda la continua evoluzione dei rapporti di forza fra barbari e Impero. Egli sottolinea come, durante il primo periodo imperiale, l’Impero «fosse ancora dominato da una razza padrona che conservava per sé la pienezza dei diritti, e agli indigeni la condizione di sudditi». Con il passare del tempo, invece, «la deportazione forzata di popolazioni barbare verso l’impero diviene un aspetto centrale della politica romana» (Ibi, p. 73); l’obiettivo poteva essere duplice: il ripopolamento delle campagne o il rinsanguamento delle truppe, a seconda delle necessità.

Capita spesso di leggere autori contemporanei che descrivono come, a ondate, le campagne romane si riempissero di stranieri («inpletae barbaris servis Scythicisque cultoribus Romanae provinciae», cfr. Historia Augusta, Divus Claudius). Si legga questo testo del greco Sinesio di Cirene (370-413 dC), tenendo presente che molti autori Tardoantichi, come Sinesio e Temistio, chamano “Sciiti” i Goti:

Non c’è famiglia, anche di agiatezza modesta, che non possieda uno schiavo di razza sciitica: Sciiti sono addetti alla tavola, i cuochi, i coppieri; anche quei servitori che si caricano sulle spalle e sedercisi sulle strade sono tutti Sciti.

[Cκυθικὸν ἔχει τὸν δοῦλον, καὶ ὁ τραπεζοποιόc, καὶ ὁ περὶ τὸν ἰπνόν, καὶ ὁ ἀμφορεαφόροc Cκύθηc ἐcτὶν ἑκάcτῳ, τῶν τε ἀκολούθων οἱ τοὺc ὀκλαδίαc ἐπὶ τῶν ὤμων ἀνατιθέμενοι, ἐφ’ ᾧ τοῖc ἐωνημένοιc ἐν ταῖc ἀγυιαῖc εἶναι καθίζεcθι, Cκῦθαι πάντεc εἰcίν]
SINESIO, DE REGNO, 20 trad. it. a cura di C. Amande

In alcune situazioni limite, che ci vengono riportate dal già menzionato Giordane, l’eccesso di schiavi fa sì che questi non valgano più di una pagnotta:

Spinti dall’avidità i comandanti romani iniziarono a mettere sul mercato a caro prezzo non solo carni ovine e bovine, ma anche cadaveri di cani e animali immondi, tanto che si poteva mercanteggiare l’acquisto di uno schiavo con un solo pane o dieci libbre di carne. 135
Una volta terminati gli schiavi e suppellettili, l’avido mercante arrivò a reclamare i loro figli, succubi ormai dell’indigenza. I genitori dovettero accondiscendere alla richiesta, preoccupati della salvezza dei loro figli. Erano infatti più propensi a vederli perdere la libertà piuttosto che la vita, giacché un figlio messo in vendita avrà la possibilità di essere nutrito con più misericordia di uno libero destinato a morire.

[Coeperunt duces avaritia compellente non solum ovium bovumque carnes, verum etiam canum et inmundorum animalium morticina eis pro magno contradere, adeo, ut quemlibet mancipium in uno pane aut decem libris came mercarent. 135 Sed iam mancipiis et supellectile deficientibus filios eorum avarus mercator victus necessitate exposcit. Haut enim secus parentes faciunt salute suorum pignorum providentes: faciliusque deliberant ingenuitatem perire quam vitam, dum misericorditer alendus quis venditur quam moriturus servatur. Contigit etenim illo sub tempore erumnoso, Lupicinus ut ductor Romanorum Fritigernum Gothorum regulum in convivio invitaret dolumque ei, ut post exitus docuit, moliretur.]
IORDANES, GETICA, XXVI 134-135

L’evento qui citato si riferisce a uno dei fatti che costellano le vicende di Adrianopoli.

I barbari, anche quando si vedranno affidate posizioni di primo piano nell’esercito imperiale, venivano associati alla “puzza” che emettevano le pelli di cui erano vestiti:

Ai nostri giorni Temide [Ndr. dea della guerra] stessa, che presiede le assemblee, e il dio degli eserciti, si velano il volto, io credo, per non vedere chi è vestito di pelli esercitare il comando su chi porta la clamide, e poi, gettato a terra quel pellame, avvolgersi nella toga e deliberare con i magistrati romani sui problemi del giorno, sedendo al posto d’onore, proprio accanto al console, mentre i dignitari legittimi gli stanno dietro. Ma appena usciti fuori dalla porta del Senato, ecco i barbari di nuovo avvolti nei pellami!

[ὲπεὶ νῦν γε καὶ τὴν βουλαίαν Θέμιν αὐτὴν, καὶ θεὸν οἶμαι τὸν cτράτιον ἐγκαλύπτεθαι, ὅταν ὁ cιcυροφόροc ἄνθρωποc ἐξηγῆται χλαμύδαc ἐχόντων, καὶ ὅταν ἀποδύc τιc ὅτερ ἐνῆπτο κώδιον, περιβάληται τήβεννον, καὶ τοῖc Ῥωμαίων τέλεcι cυμφροντίζῃ περὶ τῶν καθεcτώτων, τροεδρίαν ἔχων παῤ αὐτόν πον τὸν ὕπατον, νομίμων ἀνδρῶν ὀπίcω θακούντων. ἀλλ’ οὗτοί γε μικρὸν τοῦ βουλευτερίου προκύψαντεc, αὖθιc ἐν τοc κωδίοιc εἰcί]
SINESIO, DE REGNO, 20 trad. it. a cura di C. Amande

La superiorità con cui i ricchi romani trattavano i barbari spesso sfociava nel disprezzo più totale. Il nobile Simmaco (340-402), paragonato dai contemporanei a Cicerone per la sua abilità oratoria, in una lettera – la 46 del libro II del suo Epistolario – ci dice di aver portato a Roma un gruppo di Sassoni, che dovevano «massacrarsi tra loro nei pubblici giochi da lui indetti in onore di suo figlio. Ma prima dello spettacolo ventinove di essi si suicidarono con l’unico sistema che avevano a disposizione: strangolandosi a vicenda. Questa morte rappresenta per noi un coraggioso atto di sfida e di libertà. Ma per Simmaco quel suicidio era l’azione di un “un gruppo di uomini più vili di Spartaco”». (WARD-PERKINS p.33)

Dicono che Socrate sempre teneva per utile ciò che gli succedeva opposto ai desideri suoi. Imperciocché egli interprete sicuro del proprio merito argomentava esser migliori le cose che portava la contingenza di quelle che appetiva l’inclinazione.
Seguo l’esempio dello savio Filosofo, ed attribuisco a mia buona sorte che il numero di sassoni resti diminuito con la morte e ne sian rimasti a sufficienza, e secondo il numero per i divertimenti del Popolo, acciocché nelle pubbliche feste del nostro  Magistrato ne vi si conosca il superfluo , ne vi manchi il bisognevole. Come avrebbe potuto una custodia privata ritener la fierezza di gente così disperata, quando nel primo giorno degli spettacoli se ne videro ventinove strozzati da se stessi, e senza laccio? Io dunque non istimo la perdita di una razza di uomini ancor più perfida di quella di Spartaco; e vorrei, se non è tanto difficile a concerdersi, che in questo la generosa munificenza del principe permutasse i servi in tanti leoni o leopardi. Imperciocché il pubblico ci provvederà di gladiatori atti a così fatto spettacolo, ed obbligati ed astretti col solito giuramento: e questa è la condizione principale della pompa questoria. Se io non erro nel computo dei giorni, stimo che quegli i quali ebbero da me la commissione di provvedere e condurre gli orsi, già saranno arrivati costì. Ma se fossero stati ritardati dall’avarizia dei ministri delle poste, sarà uffizio della tua beneficienza il rimuovere ogni ostacolo per la maggior sollecitudine. Salute. 

[EPIST. XLVI. SYMMACHUS FLAVIANO FRATRI. Ferunt Socratem, si quando excidit cupitis, aut destinatis, id sibi utile, quod evenerat, aestiuiasse. Nil meriti sui securus interpres, ea conjectabat esse meliora quae casus dabat, quam quae animus appetebat. Sequor sapientis exemplum, et in bonam partem traho, quod Saxonum numerus morte contractus, intra summam decretam populi voluptatibus stetit, ne nostrae editioni, si quid redundasset, abscederet. Nam quando prohibuisset privata custodia desperatae gentis impias manus, cumviginti novem fractas sine laqueo fauces primus ludi gladiatorii dies viderit? Nihil igitur moror familiam Spartaco nequiorem; velimque si tam facile factu est, hanc munificentiam principis, Libycarum largitione mutari. Nam gladiaturae idoneos communi cura prospiciet; quae pars in apparatu quaestorio prior est, ut auctoramento lectos longus usus instituat. Nostros,quibus ursorum lectio et comparatio jam pridem credita est, pervectos ad te temporis aestimatione non ambigo. Sed si cursualium praepositorum avaritia retardantur, erit beneficentiae tuae moras, quibus tenentur, absolvere. Vale]
AURELIUS SYMMACUS, Epistolae, II, 46. Trad. it. a cura di G. A. Tedeschi 

Attenzione, però, questo atteggiamento non è unilaterale. Soprattutto nella seconda metà del IV secolo, con l’esercito spesso in affanno sui confini, capita che siano i romani a piegarsi. Ad esempio, nel 369 il capo di alcune tribù di visigoti obbligò l’imperatore Valente a trattare un patto su due imbarcazioni in mezzo al fiume Danubio, giacché aveva giurato – tanto era il suo odio per i romani – che non avrebbe mai messo nemmeno un piede sul territorio dell’Impero.

Il fatto è che il punto di vista dei barbari si deve per forza di cose ricavare indirettamente da testi romani, poiché le poche informazioni che abbiamo sulla lingua gotica derivano dal solo Codex Argenteus, una trascrizione della Bibbia in lingua gota scritta dal vescovo Ulfila nel IV secolo. Non possiamo, quindi, che limitarci ad ipotizzare quale fosse la “visione dei barbari”. Sappiamo, però, che fra le fila dei Goti c’erano diversi gruppi di cristiani ariani, per lo più discendenti di seconda o terza generazione di soldati romani catturati e mai più restituiti all’Impero. Il cristianesimo, benché di due differenti tipi, cattolico e ariano, era fermamente identificato con Roma: si ha notizia di differenti momenti in cui, per liberarsi dalle ingerenze imperiali, i goti hanno fisicamente eliminato gli appartenenti ai loro stessi clan che si erano convertiti al cristianesimo.

Codex Argenteus, manoscritto in lingua gotica del VI secolo scritto con inchiostro d'argento. Contiene la traduzione del Nuovo Testamento.
Codex Argenteus, manoscritto in lingua gotica del VI secolo scritto con inchiostro d’argento. Contiene la traduzione del Nuovo Testamento. Immagine reperibile a questa url

Come si è detto, il confine era nei fatti molto poroso, “adattabile” alle esigenze pratiche dell’Impero o delle tribù. Non era così a livello ideologico, però: paradossalmente, romani e barbari potevano mescolarsi nella vita di tutti i giorni, ma non in quella ideale, nella quale anzi sentivano di appartenere a gruppi ben distinti. Da entrambe le parti, infatti, erano vietati rigidamente i matrimoni misti (da parte romana il divieto viene rinnovato sia nel 370 dC sia nel 373, cfr. Codex Theodosianus), che avrebbero inquinato la “goticità” o la “romanità”.

Di certo, nella vita del Basso Impero, il rapporto con lo straniero era quotidiano. Basta sfogliare le pagine di Ammiano Marcellino, ex militare che in vecchiaia scrive le sue fondamentali Storie, per capire quando fosse “usuale” avere a che fare con una moltitudine di popoli.

In un documento databile fra fine del III e inizio del IV secolo, il “Laterculus Veronensis”, possiamo leggere il lungo elenco dei popoli barbari con i quali l’impero aveva continuamente a che fare:

13. Gentes barbarae quae pullulaverunt sub imperatoribus.
Scoti | Picti | Caledonii | Rugi | Heruli | Saxones | Franci | Chattovari | Chamavi | Frisiavi | Amsivari | Angrivari | Flevi | Bructeri | Chatti | Burgundiones | Alamanni | Suebi | Iuthungi | Armilausini | Marcomanni | Quadi | Taifali | Hermunduri | Vandali | Sarmatae | Sciri | Carpi | Scythae | Gothi | † Indii | Armenii | Osrhoeni | Palmyreni | † Morositae | Nabathei | Isauri | Fryges | Persae | Marmaridae.
Item gentes quae in Mauretania sunt: Mauri Quinquegentiani | Mauri Mazices | Mauri Barbares | Mauri Bacuates <…> Celtiberi | Turduli | Ausetani | Carpetani | Cantabri | † Enantes.

14. Nomina civitatum trans rhenum fluvium quae sunt.
Vsiporum. Tubantum. Victoriensium † Novariseari. Casuariorum. Istae omnes civitates trans Rhenum in formulam Belgicae primae redactae. Trans castellum Mogontiacensium LXXX leugas trans Rhenum Romani possederunt. Istae civitates sub Gallieno imperatore a barbaris occupatae sunt. [Leuga una habet mille quingentos passus] Explicit.
PROVINCIARUM LATERCULUS VERONENSIS, 13-14

Gli Scoti sono la popolazione da cui deriva il nome dell’attuale Scozia, anche i Picti e Caledoni erano stanziati a nord del vallo di Adriano. I Rugi erano invece stanziati sul continente, prima a ridosso del Danubio e poi sempre più verso l’attuale Austria. Degli Eruli sappiamo che da tempo combattevano sotto le insegne romane, e comunque sicuramente prima del 360 e via dicendo.

Quello che è sicuro è che l’Impero cercò di trattare con gli stranieri – per quanto gli fu possibile e fino a quando gli fu possibile – da una posizione predominante, dettando le condizioni degli accordi. Non è un paragone fuorviante paragonare l’esercito romano di allora all’istituzione scuola di oggi: un organismo che riesce a spostare per migliaia di chilometri i suoi membri, senza che per questo essi smettano di sentirsi parte di una istituzione unica (per la similitudine cfr. BARBERO). La burocrazia dell’esercito, infatti, registrava accuratamente le matricole e le loro destinazioni. Per ritrovare una tale efficienza burocratica si dovrà aspettare almeno il 1500 e i registri delle anagrafi istituiti nel secolo XVI.

Non è raro che gli spostamenti di barbari/matricole abbraccino tutto l’impero: Zosimo, ad esempio, nella sua Storia Nuova, ci ricorda che i prigionieri burgundi e vandali catturati nell’area del Danubio vennero messi in marcia per migliaia di chilometri e destinati a ripopolare terra e eserciti d’Oltremanica: «Tutti quelli che riuscì a catturare vivi, li fece condurre in Britannia».

I romani incitarono al combattimento i barbari che si trovavano sull’altra sponda [di un affluente del Danubio in Rezia, Ndr]; irritati da questo atteggiamento attraversarono il fiume tutti quelli che ne furono capaci. Allora le legioni piombarono su di loro: alcuni barbari furono massacrati, altri vennero catturati vivi dai romani. I rimanenti chiesero di venire a patti, impegnandosi a restituire il bottino e i prigionieri che avevano; ma quando la loro richiesta fu accolta non resero tutto.
Questo comportamento irritò l’imperatore, che li attaccò mentre si ritiravano e inflisse loro la punizione che si meritavano, massacrandoli e prendendo prigioniero il loro capo Igillo. Tutti quelli che riuscì a catturare vivi, li fece condurre in Britannia.

[Καί πως αuνέδραμeν τῇ γνώμτι τοῦ βασλέως ή τύχη· τῶν γὰp στρατοπἐδων ὄντων παp’ ὲκάτερα ποταμοῦ Δίγυος, εἰς μάχην τοὐς πἑραν βαρζάρους οἱ ·Ρωμαῖοι προ καλοῦντo· οῖ δὲ ἐπι τούτῳ παροξυνθέντες, δστοι περ oῖoί τε ῆσαν, ἐπεραιοῦντο· καί
σuμπεσὁντων οφίσι τῶν στρατοπέδων oῖ μὲν ἀπεσφάττοντο τῶν βαρζάρων, oῖ δἐ καἰ ζῶντες ὑπὸ τοὺς ‘Ρωμαίους
γεγόνασιν.]
ZOSIMO, STORIA NUOVA I, 68, 2-3 trad. it. a cura di F. Conca; Cfr. anche BARBERO 2006, p. 64


La macchina burocratica imperiale era talmente efficiente da riuscire a gestire e a smistare su tutto l’impero masse di decine di migliaia di prigionieri che sarebbero diventate reclute:

[L’imperatore] prese, inoltre, sedicimila reclute, che sparpagliò attraverso le varie province, in modo che cinquanta o sessanta reclute venissero incorporate in ogni distaccamento o tra i soldati lungo la frontiera; dicendo detto che l’aiuto che i Romani ricevevano dagli ausiliari barbari deve essere sentito ma non visto.

[accepit praeterea sedecimmilia tyronum, quos omnes per diversas provincias sparsit, ita ut numeris vel limitaneis militibus quinquagenos et sexagenos intersereret dicens sentiendum esse non videndum, cum auxiliaribus barbaris Romanus iuvatur.]
HISTORIA AUGUSTA, PROBUS XIV

Giustamente Barbero ricorda anche l’anonimo autore del Panegirico VIII:

schiere di barbari prigionieri si siedono sotto tutti i portici della città, gli uomini tremanti, selvaggi ma ammutoliti, le vecchie e le mogli incredule per l’impotenza dei figli, e tutti costoro distribuiti al servizio degli abitanti, fino a quando non saranno condotti in zone spopolate che dovranno coltivare […] ora dunque il Camavo e il Frisone arano per me, il vagabondo e il ladrone sono costretti ad un duro lavoro, ed è un coltivatore barbaro a pagare l’imposta. E se poi è convocato alla leva, accorre e si consuma nel servizio e subisce la disciplina

[totis porticibus civitatum sedere captiva agmina barbarorum, viros attonita feritate trepidantes, respicientes anus ignaviam filiorum nuptas maritorum, vinculis copulatos pueros ac puellas familiari murmure blandientes, atque hos omnes provincialibus vestris ad obsequium distributos, donec ad destinatos sibi cultus solitudinum ducerentur. [2] Insultare hercule communi Galliarum nomine libet <et>, quod pace vestra loquar, ipsis triumphum adsignare provinciis. [3] Arat ergo nunc mihi Chamavus et Frisius et ille vagus, ille praedator exercitio squali<di> ruris operatur et frequentat nundinas meas pecore venali et cultor barbarus laxat annonam.]

PANEGYRICI LATINI, VIII, 9

Il Reno e il Danubio, confini dell'Impero romano
Il Reno e il Danubio, confini dell’Impero romano

7. I Goti
Si è scelto di parlare dei Goti perché essi saranno i primi, a seguito delle vicende di Adrianopoli,  che riusciranno a formare una nazione compatta all’interno dei territori dell’Impero, nazione che lo Stato romano si vedrà costretto ad accettare, non avendo la forza di annientarla né di smistarla.

È ormai accertato che, all’altezza del IV secolo, la vita delle popolazioni al di là di Reno e Danubio fosse grandemente influenzata da una secolare rete di relazioni con i romani. Da tempo, infatti, lo Stato romano assumeva mercenari e «l’afflusso di stipendi e di sussidi aveva già stravolto la vita è l’economia delle tribù» (BARBERO 2005, p. 35). Di più, gli accordi con l’Impero molto spesso prevedevano dei donativi in denaro da parte romana, come l’accordo del 332 stipulato fra Costantino e i Goti, che apriva la strada a forti ingerenze romane. L’obiettivo, da parte romana, era di trasformare lo “Stato” goto in un regno cliente, mentre l’obiettivo, da parte gota, era quello di godere del tenore di vita romano.

Molti Goti potevano godere dei frutti di uno stretto rapporto con lo Stato romano. L’impero ebbe probabilmente un ruolo nel sostegno della dinastia regnante dei tervingi. Il sostegno romano aveva naturalmente un prezzo. Il quid pro quo di ogni dinastia di frontiera che riceveva donativi annuali era quello di mantenere la disciplina fra i suoi indocili seguaci. (HEATHER, p. 71)

Dagli scavi archeologici emerge che a quell’altezza cronologica i Goti non vivessero affatto allo stato “di natura”: ogni villaggio scavato dagli archeologi aveva infatti il proprio vasaio e soprattutto il proprio fabbro (Cfr. HEATHER pp. 93-96). Nel IV secolo, inoltre, nei villaggi goti si registrano i primi ritrovamenti di oggetti di vetro: era in assoluto la prima volta che il vetro appariva in una zona non romana del mondo.

Incrociando le testimonianze scritte di Ammiano Marcellino e Giordane con le testimonianze archeologiche, gli studiosi affermano che le tribù di goti, che nel IV secolo erano dodici (Cfr. HEATHER p. 69), erano stanziate nella zona che gli archeologi chiamano cultura di Černjachov. Questa cultura si estendeva fra il mar Nero (a sud), il Diepr (a Est) e il Danubio e l’Impero (a Ovest).

In arancione la zona di estensione della cultura di Černjachov, mentre in rosso l'estensione della più antica cultura di Wielbark.
In arancione la zona di estensione della cultura di Černjachov, mentre in rosso l’estensione della più antica cultura di Wielbark. Immagine di https://en.wikipedia.org/wiki/User:Wiglaf reperibile a questa url

Secondo Giordane, i Goti si insediarono in quella zona, corrispondente oggi grossomodo a Ucraina e Bielorussia, guidati da un più o meno mitico capo, Filimero. Egli, sempre secondo Giordane, era un discendente di quinta generazione dal primo capo in assoluto (Berig) e avrebbe spostato il suo popolo nella zona di Černjachov, muovendosi dall’attuale Polonia, ovvero dalla più antica cultura di Wielbark. La storia di Giordane, secondo gli studiosi, è degna di fede, perché i monili ritrovati dimostrano una effettiva continuità fra le due culture.

Alfabeto gotico.
Alfabeto goto. Immagine reperibile a questa url

La società gota, tradizionalmente indicata da una certa propaganda come esempio di uguaglianza, libertà e spirito guerriero, dimostra in realtà di basarsi, nel IV secolo, su evidenti differenze sociali. Alcuni studiosi ritengono sia opportuno parlare al tal proposito di nobiltà in potenza di alcuni strati della società – la classe dei reiks – che dominava le scelte durante le adunate, alle quali gli uomini liberi partecipavano in massa, e il cui peso decisionale «in ultima analisi restava determinante» (HEATHER, p. 86).
La libertà dei Germani era riservata solo al “gruppo dei pari”, poiché anche la loro società, come quella romana, era suddivisa fra uomini liberi e schiavi.
Tale distinzione era il prodotto degli spostamenti delle tribù gotiche, le quali sottomettevano le altre tribù che man mano riuscivano a battere sul loro cammino, «trasformando gli uomini liberi delle popolazioni indigene in subordinati o schiavi» (HEATHER, p.102).

Giordane ci suggerisce che le usanze gotiche nei confronti delle tribù  che sottomettevano non dovessero essere molto delicate. Lo storico dice che essi erano devoti a un loro dio della guerra, che le “invenzioni dei poeti” chiamano “dio Marte”. Tale dio, per essere saziato e offrire i suoi favori, chiedeva come tributo l’esecuzione capitale dei prigionieri delle tribù straniere e pretendeva che i cadaveri degli sconfitti venissero legati a tronchi d’alberi:

Dunque, fino a tal punto erano lodati i Geti [Goti] che si diffuse la diceria secondo cui Marte, che la menzogna dei poeti proclama dio della guerra, un tempo sarebbe nato presso di loro, da cui anche Virgilio: “Quel padre Gradivo che regna sui campi dei Geti” [Ndr. Eneide, III, 35].
41. I Goti hanno fino ad oggi placato questo Marte con un culto violento (infatti a lui erano dedicate le esecuzioni capitali dei prigionieri), sicuri che colui che presiede la guerra possa essere appagato solo con lo spargimento di sangue umano. A lui promettevano le primizie del bottino, in onore suo si appendevano ai tronchi degli alberi le spoglie, e il senso di quel culto era radicato nel popolo più degli altri, dal momento che si rivolgevano a lui come a un padre.

Adeo ergo fuere laudati Gaetae, ut dudum Martem, quem poetarum fallacia deum belli pronuntiat, apud eos fuisse dicant exortum. Vnde et Vergilius: ‘gradivumque patrem, Geticis qui praesidet arvis’. 41 Quem Martem Gothi semper asperrima placavere cultura (nam victimae eius mortes fuere captorum), opinantes bellorum praesulem apte humani sanguinis effusione placandum. Huic praede primordia vovebantur, huic truncis suspendebantur exubiae, eratque illis religionis preter ceteros insinuatus affectus, cum parenti devotio numinis videretur inpendi.
IORDANES, V, 40-41.

Da fonti romane – le sole che possediamo – veniamo a sapere che i Goti erano in perenne contrasto armato contro tribù di Burgundi e Taifali.

Gli spostamenti dei Goti non furono repentini, ma durarono secoli. Secondo l’origine mitica trasmessa da Giordane, essi partirono da «quell’utero di popoli» che era la Scandinavia e da lì si spostarono sull’europa centro-orientale come se fossero uno «sciame di api»:

Questo stesso immenso oceano contiene nella sua parte artica, ossia quella settentrionale, un’isola molto grande di nome Scandia. Proprio da qui, con l’aiuto del Signore inizia il nostro racconto, poiché il popolo la cui origine tu desideri conoscere, dal cuore di quest’isola, erompendo fuori come uno sciame di api, si riversò su tutta Europa.

[Habet quoque is ipse inmensus pelagus in parte artoa, id est septentrionali, amplam insulam nomine Scandzam, unde nobis sermo, si dominus iubaverit, est adsumpturus, quia gens, cuius originem flagitas, ab huius insulae gremio velut examen apium erumpens in terram Europae advinit.]
IORDANES DE ORIGINE ACTIBUSQUE GETARUM, I, 9
).

Dunque da quest’isola di Scandia, quasi fosse un’officina di genti o comunque un utero di popoli, i Goti, un tempo, secondo la tradizione partirono sotto la guida del loro re di nome Berig.

[Ex hac igitur Scandza insula quasi officina gentium aut certe velut vagina nationum cum rege suo nomine Berig Gothi quondam memorantur egressi.]
IORDANES DE ORIGINE ACTIBUSQUE GETARUM, IV, 25

Guerrieri Goti sotto Teodosio.
Guerrieri goti sotto Teodosio. Immagine reperibile a questa url

7.2 Verso Adrianopoli
Prima di quella che Ammiano Marcellino definisce una catastrofe pari solo a quella di Canne del 216 aC, che diede al cartaginese Annibale mano libera su tutta l’Italia, in realtà i rapporti fra romani e Goti non furono così tesi, almeno dal periodo che dall’impero di Costantino va fino al 365 dC. L’imperatore Costantino, nel 327, fece addirittura costruire un ponte sul fiume per facilitare commerci e contatti con quelle tribù. Certo, c’è anche da aggiungere che per celebrare quell’evento Costantino fece coniare delle monete che raffiguravano un barbaro inginocchiato, ricordando in questo modo che quello goto, nei suoi piani, doveva essere uno “Stato” cliente. Ma tant’è, in questi anni «la frontiera gotica sul Danubio restò completamente aperta al commerci. I ritrovamenti archeologici della cultura di Černjachov testimoniano degli effetti di questa politica. Sono numerose le monete romane, soprattutto quelle dell’imperatore Costanzo II (337-361)».
Costantino era effettivamente venerato fra le tribù gote; nel 332 strinse con esse un patto che prevedeva, in cambio di contingenti di soldati, il rifornimento annonario delle tribù.

Le cose cambiarono del 364, con la morte dell’imperatore Giuliano e l’estinzione della famiglia costantiniana. I barbari infatti presero ad agitarsi sui confini, chiedendo la revisione del foedus – patto – poiché sostenevano che la loro fedeltà non andava allo Stato, bensì alla persona di Costantino e alla sua famiglia, perché con lui avevano stretto il patto.

Fine della terza parte.
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Autore: Alessandro Ardigò
Revisione e cura: Arianna Sardella, Serena Lunardi

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