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Gli “Antenati” di Italo Calvino: spunti per una pedagogia dell’immaginazione (SECONDA PARTE)

2. La Resistenza nel laboratorio di Calvino
2.1 L’esordio
Non si insisterà mai abbastanza su un fatto essenziale per comprendere l’universo di Calvino: l’input che segna il suo avvicinamento alla scrittura è nell’esperienza della guerra antifascista e della Resistenza partigiana. Questo è il dato da cui partire per entrare nel suo laboratorio di scrittore.
Non volendo prestare servizio militare sotto la Repubblica di Salò, il giovane Italo fugge col fratello sulle Alpi Marittime e dal 1943 milita nelle brigate comuniste Garibaldi, nella seconda divisione d’assalto Felice Cascione, con cui rimane fino alla fine della guerra, nel 1945. Si tratta di un’esperienza decisiva, come Calvino racconta in una lettera del 6 giugno 1945 a Eugenio Scalfari, suo compagno di liceo:

«La mia vita in quest’ultimo anno è stata un susseguirsi di peripezie […] sono passato attraverso una serie inenarrabile di pericoli e di disagi; ho conosciuto la galera e la fuga, sono stato più volte sull’orlo della morte. Ma sono contento di tutto quello che ho fatto, del capitale di esperienze che ho accumulato» (cfr. Lettere).

Nel 1962 aggiunge che dei partigiani ammirava l’«attitudine a superare i pericoli e le difficoltà di slancio, un misto di fierezza guerriera e autoironia». E osserva: «A distanza di tanti anni, devo dire che questo spirito […] resta ancor oggi, per muoversi nella contrastata realtà del mondo, un atteggiamento umano senza pari» (GAD 1962).

2.2 Torino, ″operosa e razionale″
Nel dopoguerra, Calvino si trasferisce a Torino e s’iscrive alla facoltà di Lettere, rinnegando (con molti sensi di colpa) la vocazione scientifica della sua famiglia. Comincia a collaborare al Politecnico, frequenta Elio Vittorini e Cesare Pavese, che – fino alla prematura morte – fu il primo lettore di tutte le sue opere; inoltre pubblica il suo primo racconto, Campo di mine.

Nel 1947 si laurea con una tesi su Conrad, inizia a lavorare nell’ufficio stampa della casa editrice Einaudi e pubblica Il sentiero dei nidi di ragno. Nel 1949 esce la prima raccolta di racconti, Ultimo viene il corvo. Sono anni difficili, come si legge in un’altra lettera a Scalfari: «Vivo in una gelida soffitta torinese, tirando la cinghia e attendendo i vaglia paterni che non posso che integrare con quel migliaio di lire settimanali che mi guadagno a suon di collaborazioni» (REPUBBLICA 1989).

In questa fase, è all’esperienza della Resistenza che Calvino attinge come prima fonte della scrittura: la tensione al reale della letteratura è centrale fin da questi primi albori.

2.3 L’esplosione letteraria del dopoguerra
La lunga e densa Prefazione che lo scrittore aggiunge al Sentiero molto più tardi, nel 1964 (quando ha già pubblicato l’intera trilogia degli Antenati), dà delle indicazioni illuminanti sul suo esordio e sul contesto in cui avvenne, ovvero quell’esplosione letteraria che siamo soliti definire con il nome di Neorealismo:

«L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto in tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, “bruciati”, ma vincitori […]; quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, […] una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello d’una spavalda allegria» (CALVINO 1964, Prefazione, p. 7).

2.4 “Il Neorealismo non fu una scuola”
Proprio perché nato da questa esperienza collettiva, di tutti, il Neorealismo – dice ancora Calvino – non fu una scuola ma «un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie» (CALVINO 1964, p. 9), anche di quelle che la letteratura non conosceva. Si era allora in preda a una vera e propria smania di raccontare:

«Nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle “mense del popolo”, ogni donna nelle code ai negozi» (CALVINO 1964, p. 8).

2.5 Raccontare ed esprimere l’esperienza
In questo bisogno fisiologico di narrare, che veniva dalla riconquistata libertà di parola dopo il ventennio fascista, Calvino comincia a sentire l’esigenza di trasformare il materiale grezzo, derivante dalle esperienze vissute o ascoltate, in un romanzo, ossia in un testo in cui la realtà vissuta non semplicemente si racconta ma si esprime:

«Avevo un paesaggio. Ma per poterlo rappresentare occorreva che esso diventasse secondario rispetto a qualcos’altro: a delle persone, a delle storie. La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone. Il romanzo che altrimenti mai sarei riuscito a scrivere, è qui. Lo scenario quotidiano di tutta la mia vita era diventato interamente straordinario e romanzesco […]: era l’inseguirsi e il nascondersi d’uomini armati; anche le ville, riuscivo a rappresentare, ora che le avevo viste requisite e trasformate in corpi di guardia e prigioni; anche i campi di garofani, da quando erano diventati terreni allo scoperto, pericolosi ad attraversare, evocanti uno sgranare di raffiche nell’aria» (CALVINO 1964, pp. 10-11).

2.6 Scrivere il romanzo della Resistenza
Il problema era trovare la forma più idonea, e – paradossalmente – per Calvino non si trattava di una questione meramente formale, ma di un fatto di coscienza: come raccontare ciò che la Resistenza era stata per chi – come lui – l’aveva combattuta?

Il primo dilemma che lo scrittore si trovava ad affrontare era quindi il più complesso e tormentoso: «scrivere “il romanzo della Resistenza” si poneva come un imperativo […]. A me, questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo impegnativo e solenne per le mie forze» (CALVINO 1964, p. 13).

2.7 Guardare alla Resistenza di scorcio
La scelta fu dunque quella di rappresentare la guerra di Liberazione di scorcio, attraverso gli occhi di un bambino: «Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo» (CALVINO 1964, p. 13).

Per Calvino, era necessario infatti combattere su due fronti contrapposti: contro i detrattori della Resistenza e contro i «sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata» (CALVINO 1964, p. 14).

Nel Sentiero dei nidi di ragno questa urgenza emerge con una furia polemica a cui lo scrittore, a posteriori (nella Prefazione del 1964), guarda con distacco:

«Ci pareva, allora, a pochi mesi dalla Liberazione, che tutti parlassero della Resistenza in modo sbagliato, che una retorica che s’andava creando ne nascondesse la vera essenza, il suo carattere primario» (CALVINO 1964, p. 19).

Quello delle forzature retoriche in tema di fascismo e Resistenza è del resto un problema dolorosamente attuale, e le pagine di Calvino hanno ancora molto da insegnarci.

2.8 L’adolescente Pin e il distacco dalla materia narrata
Torniamo alla genesi del Sentiero. La soluzione per trovare un distacco rispetto alla resa dei conti con l’esperienza partigiana fu, come si è detto, quella di non narrare la storia in prima persona, ma di guardare la Resistenza dal punto di vista di un ragazzino, Pin, un narratore disagiato e immaturo il cui ruolo marginale nella guerra partigiana era per Calvino il punto di vista privilegiato.

Si tratta di una scelta simbolica, che nella Prefazione del 1964 lo scrittore associa anche a un’immagine di regressione sul piano personale. Il punto di vista di un outsider adolescente viene infatti a identificarsi con lo sguardo del giovane autore esordiente, con la sua adolescenza durata troppo a lungo:

«Io non riuscivo a essere quello che sognavo prima dell’ora della prova: ero stato l’ultimo dei partigiani; ero un innamorato incerto e insoddisfatto e inabile; la letteratura non mi s’apriva come un disinvolto e distaccato magistero ma come una strada in cui non sapevo da che parte cominciare» (CALVINO 1964, p. 22).

2.9 Scrittura ed esperienza
In quel primo libro, il Sentiero dei nidi di ragno, Calvino sente di aver letteralmente “bruciato” l’esperienza della Resistenza; tuttavia, in forma ancora incerta, in quel romanzo sono molte delle premesse dei libri a venire: ad esempio, la scelta di un narratore o di un protagonista adolescente, isolato, ai margini, che lo scrittore ripeterà anche in altri romanzi di quel periodo, in primis proprio nella trilogia araldica, benché con grandi differenze rispetto al Sentiero.

Proprio nella conclusione alla Prefazione, Calvino sottolinea – non senza rimpianto – l’immaturità della sua prima prova e di nuovo torna sul nodo fondamentale che intreccia la scrittura all’esperienza:

«Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho distrutto scrivendolo: quell’esperienza che custodita per gli anni della vita mi sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non mi è bastata che a scrivere il primo» (CALVINO 1964, p. 26).

2.10 Il 1964, un anno di svolta
La Prefazione al Sentiero è una dichiarazione di poetica, che ci restituisce lo sguardo lucido di Calvino su una fase della sua storia ormai giunta a maturazione, in un momento in cui lo scrittore è in cerca di strade nuove. Il 1964 è in effetti un anno di svolta, che conclude una fase di stasi creativa, iniziata dopo la pubblicazione del Cavaliere inesistente nel 1959: lo scrittore compie un viaggio importante a New York, si trasferisce prima a Roma, poi a Parigi e intraprende nuove sperimentazioni, che lo condurranno a scrivere Le Città invisibili (1972) e Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979).

2.11 “Il romanzo che tutti avevamo sognato”
Nel 1964 sono passati più di quindici anni dalla data di pubblicazione del Sentiero dei nidi di ragno e pochi anni dall’uscita dei nostri Antenati. A posteriori, Calvino riconosce che fu Beppe Fenoglio a scrivere il capolavoro sulla Resistenza: Una questione privata, «il romanzo che tutti avevamo sognato» (CALVINO 1964, p. 24).Del libro di Fenoglio, lo scrittore sottolinea due aspetti in particolare:

«la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’“Orlando furioso”, e nello stesso tempo […] la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, […] e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. Ed è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive, ed è un libro di parole precise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché» (CALVINO 1964, p. 24).

Alcuni aspetti che Calvino mette in luce nella scrittura di Fenoglio si ravvisano anche nei nostri Antenati: ad esempio la presenza ariostesca, che agisce in profondità sulla strutturazione del racconto, oppure l’importanza delle figure che si muovono nel testo, rapide e vive, e delle parole, precise e vere.

Sta però cambiando la musica delle cose, la fase del Neorealismo è ormai da tempo conclusa e lo scrittore è in cerca di altri percorsi.

3. La genesi dei nostri Antenati

3.1 Le fasi di elaborazione della trilogia araldica
La stagione degli Antenati si colloca nel lasso di tempo di circa 15 anni che intercorre fra la pubblicazione del Sentiero nel 1947 e la Prefazione del 1964.

Ricordiamo anzitutto l’ordine cronologico di pubblicazione dei tre romanzi araldici: Il Visconte dimezzato esce nel 1952 presso Einaudi, nella collana I Gettoni; poi è la volta del Barone rampante, pubblicato nel 1957 con lo stesso editore, nei Coralli; infine, nel 1959 Calvino pubblica nei Supercoralli Il Cavaliere inesistente, in concomitanza con il saggio Il mare dell’oggettività, che esce sul Menabò, la neonata rivista di cui era condirettore insieme a Vittorini.

3.2 La Nota all’edizione 1960
Pochi mesi dopo, nel 1960, i tre romanzi araldici confluiscono nella raccolta I nostri Antenati: il Cavaliere inesistente occupa il primo posto, seguito dal Visconte e dal Barone. L’edizione è accompagnata da un’importante Nota, in cui Calvino spiega che l’ultimo romanzo in ordine di pubblicazione, il Cavaliere appunto, «può occupare tanto l’ultimo posto quanto il primo […] perché, rispetto agli altri due racconti, può essere considerato più un’introduzione che un epilogo» (CALVINO 1960, pp. 353-363). Nella Nota Calvino dichiara inoltre che i tre romanzi sono un ciclo compiuto:

«una trilogia di esperienze sul come realizzarsi esseri umani: nel “Cavaliere inesistente” la conquista dell’essere, nel “Visconte dimezzato” l’aspirazione a una completezza al di là delle mutilazioni imposte dalla società contemporanea, nel “Barone rampante” una via verso una completezza non individualistica da raggiungere attraverso la fedeltà a un’autodeterminazione individuale: tre gradi d’approccio della libertà» (RR, I, p. 1208).

3.3 L’edizione 1967 e la posizione del Cavaliere
Non si tratta però della strutturazione definitiva della trilogia. Come osservano Barenghi e Falcetto, infatti, nel 1960 l’ordine dei tre racconti «seguiva la successione storica delle vicende narrate: Medioevo carolingio […], guerra contro i Turchi in Boemia […], Settecento illuminista e rivoluzionario […]. L’ordine definitivo (Visconte, Barone, Cavaliere) verrà introdotto nell’ottava edizione, datata dicembre 1967» (RR, I, Note e notizie sui testi, pp. 1391-1392).

Calvino torna silenziosamente all’ordine originario di pubblicazione dei singoli romanzi araldici per «documentare un’evoluzione d’ordine storico (piuttosto che logico)» riguardante sia la sua attività di scrittore, «sia il clima politico-intellettuale dell’Italia degli anni Cinquanta» (RR, I, Note e notizie sui testi, p. 1392). Nel nostro excursus seguiremo questa successione, che rispecchia l’effettiva genesi della triade e la volontà ultima dell’autore.

3.4 Il Visconte dimezzato tra disillusione ed evasione
Iniziamo dunque dal Visconte dimezzato, che vede la luce poco dopo il Sentiero dei nidi di ragno, in un periodo in cui Calvino ha avviato stabilmente la collaborazione con Einaudi. Lo scrittore coltiva ancora il desiderio di scrivere un romanzo di stampo neorealistico per dare «un quadro della società italiana contemporanea, specie nei suoi aspetti più nuovi e dirompenti, l’urbanesimo e l’industrializzazione» (BARENGHI 2009, p. 17). Gli esiti sono però deludenti: I Giovani del Po, composto nel 1951, viene interrotto, e così altre prove dello stesso tipo. Calvino spiega nella Nota agli Antenati del 1960: «Provai a scrivere altri romanzi neorealistici […] ma non riuscivano bene, e li lasciavo manoscritti nel cassetto. […] Era la musica delle cose che era cambiata» (CALVINO 1960, p. 353). A ciò si aggiunge un sempre maggiore distacco dalle scelte culturali e politiche del Partito comunista, in cui lo scrittore militava dal dopoguerra, ma verso il quale era sempre più critico.

Secondo Barenghi, la storia della narrativa di Calvino non si può capire «se si prescinde da questa duplice impasse, dove i baldanzosi propositi giovanili s’incagliano e si frantumano» (BARENGHI 2009, p. 18).

3.5 Una deviazione di percorso
In particolare, l’inizio degli anni Cinquanta è segnato da due lutti drammatici per lo scrittore: nel 1950 si toglie la vita Cesare Pavese, che era per Calvino un punto di riferimento importante e autorevole: «Finivo un racconto e correvo da lui a farglielo leggere. Quando morì mi pareva che non sarei più stato buono a scrivere» (DeM 1959).

Il suicidio dell’amico è per lui del tutto inaspettato: «Lo credevo un duro, un forte, un divoratore di lavoro, con grande solidità. Per cui l’immagine del Pavese visto attraverso i suicidi […] l’ho scoperta solo dopo la sua morte» (D’ER 1979).

L’anno dopo, nel 1951, muore il padre, mentre lo scrittore, per una strana ironia della sorte, è in viaggio in Unione Sovietica: secondo Stefano Adami, infatti, Mario Calvino nel 1908 avrebbe avuto un ruolo nella progettazione di un attentato anarchico contro lo zar Nicola II, poi sventato. Per tale motivo, dovette affrontare dei guai giudiziari e decise nel 1909 di trasferirsi con la moglie in Messico e poi a Cuba; lì il figlio Italo nacque nel 1923 (cfr. DI STEFANO 2017).

3.6 La scomparsa di due figure importanti
«La scomparsa di due figure d’autorità non sarà estranea alla decisione di Calvino […] di concedersi una breve evasione […]: egli si prende una pausa per dedicarsi, anziché al libro che sente di dover scrivere, a un libro che gli sarebbe piaciuto leggere» (BARENGHI 2009, p. 18). Lo confessa lo stesso scrittore in un’intervista di molti anni dopo:

«Quando ho cominciato a scrivere il “Visconte dimezzato”, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso, e possibilmente per divertire gli altri; avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato […] avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi e non l’altra» (PES 1987, p. 9).

3.7 Il dimidiamento di Medardo
Così nasce il Visconte, ambientato all’epoca delle guerre contro i Turchi nell’Europa centrale. La vicenda è narrata da un ragazzino, cresciuto alla corte di suo zio, il Visconte Medardo di Terralba. Durante una battaglia in Boemia, Medardo viene colpito da una palla di cannone e così rimane diviso a metà. Di qui la bipartizione del protagonista in due identità antitetiche e complementari: quella del Gramo, crudele e malvagio, e quella del Buono, pacifico e gentile, ma anche goffo e inconcludente (cfr. BARENGHI 2009, p. 19).

Finalmente, le due metà di Medardo si contendono in duello la pastorella Pamela, di cui entrambe sono innamorate, «e battendosi all’ultimo sangue si riaprono vicendevolmente le cicatrici della fenditura. Il dottor Trelawney interviene prontamente, e benda strette insieme le due metà; quando guarisce, Medardo è di nuovo un uomo intero» (BARENGHI 2009, p. 19). Il finale è lieto, ma il romanzo si chiude sull’immagine del nipote di Medardo, che a sua volta tristemente afferma: Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane (VD, p. 90 e BARENGHI 2009).

3.8 Visibilità
Anche questo romanzo, come gli altri che confluiranno nella trilogia degli Antenati, prende spunto da un’immagine, in questo caso derivante probabilmente dal Don Chisciotte di Cervantes, con richiami evidenti e dichiarati allo Stevenson di Doctor Jekyll e mister Hyde: «Se ho scelto di dimezzare il mio personaggio secondo la linea di frattura “bene-male”, l’ho fatto perché ciò mi permetteva una maggiore evidenza d’immagini contrapposte, e si legava a una tradizione letteraria già classica (p. es. Stevenson)» (lettera del 7 agosto 1952 a Carlo Salinari, in TESIO 1991, p. 67).

L’interesse per la resa scritta di un’immagine mentale è essenziale anche negli interventi teorici dello scrittore, ad esempio nella più tarda lezione americana sulla Visibilità:

«Nell’ideazione di un racconto la prima cosa che mi viene alla mente è un’immagine che per qualche ragione mi si presenta come carica di significato […]. Appena l’immagine è diventata abbastanza netta nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia […]. Attorno a ogni immagine ne nascono delle altre, si forma un campo di analogie, di simmetrie, di contrapposizioni […]; nello stesso tempo la scrittura assume sempre più importanza; direi che dal momento in cui comincio a mettere nero su bianco, è la parola scritta che conta: prima conta come ricerca d’un equivalente dell’immagine visiva, poi come sviluppo coerente dell’impostazione stilistica iniziale, e a poco a poco resta padrona del campo» (CALVINO 1993, pp. 99-100; cfr. anche ZANGRANDI 2012).

3.9 Il racconto è nato dall’immagine
Questo è particolarmente evidente nella trilogia araldica; nella prefazione all’edizione inglese Our Ancestors, lo scrittore dice: «The tale is born from the image, not from the thesis which I want to demonstrate, and the image is developed in a story according to its own internal logic» (CALVINO 1980, p. IX, trad. it.: Il racconto è nato dall’immagine, non dalla tesi che voglio dimostrare, e l’immagine è sviluppata in una storia seguendo la sua propria logica interna).

All’uscita del romanzo, che peraltro suscitò non poche perplessità, soprattutto nella critica militante di sinistra, Emilio Cecchi paragonò il testo del Visconte dimezzato ai quadri «di Altdorfer, di Grünewald, dei Brueghel, di Bosch» (CECCHI 1952).

3.10 Il ritorno di Medardo
L’importanza dell’elemento visivo è evidente ad esempio nella narrazione del ritorno di Medardo dalla guerra, all’inizio del capitolo 3; dapprima, l’attenzione si concentra sulle persone che accorrono per vedere Medardo ferito:

Quando mio zio fece ritorno a Terralba, io avevo sette o otto anni […]. La voce si sparse per le vallate; nella corte del castello s’aggruppò gente: familiari, famigli, vendemmiatori, pastori, gente d’arme. […]. Tutti, aspettando, discutevano di come il visconte Medardo sarebbe ritornato; da tempo era giunta la notizia di gravi ferite che egli aveva ricevute dai turchi ma ancora nessuno sapeva di preciso se fosse mutilato o infermo, o soltanto sfregiato dalle cicatrici (VD, p. 14).

Poi viene descritta la sua figura avvolta in un mantello, che viene paragonato a una vela:

«Ed ecco, la lettiga veniva posata a terra, e in mezzo all’ombra nera si vide il brillio d’una pupilla […]. Poi si vide il corpo nella lettiga agitarsi in uno sforzo angoloso e convulso e davanti ai nostri occhi Medardo di Terralba balzò in piedi, puntellandosi a una stampella. Un mantello nero col cappuccio gli scendeva dal capo fino a terra; dalla parte destra era buttato all’indietro scoprendo metà del viso e della persona stretta alla stampella, mentre sulla sinistra sembrava che tutto fosse nascosto e avvolto nei lembi […]. Un’alzata di vento venne su dal mare […]. Il mantello di mio zio ondeggiò, e il vento lo gonfiava, lo tendeva come una vela e si sarebbe detto che gli attraversasse il corpo, anzi, che questo corpo non ci fosse affatto […]. Poi, guardando meglio, vedemmo che aderiva come a un’asta di bandiera, e quest’asta era la spalla, il braccio, il fianco, la gamba, tutto quello che di lui poggiava sulla gruccia: e il resto non c’era» (VD, pp. 14-16).

3.11 Osservare e descrivere
La capacità di pensare per immagini è fondamentale secondo Calvino (cfr. ZANGRANDI 2012, p. 14). Su questo tema lo scrittore si sofferma nel 1969, in una prospettiva propriamente educativa: insieme a Giambattista Salinari, cura infatti per Zanichelli un’antologia per la scuola media e in particolare si occupa dell’impianto dei capitoli Osservare e Descrivere.

La descrizione è intesa da Calvino come esperienza conoscitiva:

«Descrivere vuol dire tentare delle approssimazioni che ci portano sempre un po’ più vicino a quello che vogliamo dire, e nello stesso tempo ci lasciano sempre un po’ insoddisfatti, per cui dobbiamo continuamente rimetterci ad osservare e a cercare come esprimere meglio quel che abbiamo osservato» (CALVINO – SALINARI 1969).

Nell’operazione descrittiva, Calvino vede il tentativo della parola scritta di restituire la realtà sulla pagina, un’operazione complicata perché l’esperienza visiva ha un carattere di immediatezza che la scrittura non potrà mai riprodurre, essendo espressione mediata dal segno linguistico (cfr. ZANGRANDI 2012, p. 5).

3.12 Il soggetto diviso del Visconte
La storia di Medardo in apparenza è semplice e il tono è spigliato, consono alla giovane età del narratore; però Calvino nella Nota all’edizione 1960 osserva: «Eravamo nel cuore della guerra fredda, nell’aria era una tensione, un dilaniamento sordo, che non si manifestavano in immagini visibili ma dominavano i nostri animi». Inoltre aggiunge: «Il tema principale non è affatto il contrasto tra bene e male all’interno del soggetto […], bensì l’idea generale di un soggetto diviso […]. Il mio intento era combattere tutti i dimidiamenti dell’uomo, auspicare l’uomo totale» (CALVINO 1960, p. 355).

Il tema del dimezzamento si rispecchia anche nella costruzione del sistema dei personaggi secondari per antinomie contrapposte: quella fra ugonotti e lebbrosi, oppure quella fra mastro Pietrochiodo e il dottor Trelawney, che riflettono il contrasto fra «impulso attivistico e spinte autodistruttive, [ed evocano] il recente dramma della scomparsa di Pavese» (BARENGHI 2009, p. 20).

3.13 Elogio dell’incompletezza
Nella Nota del 1960, però, Calvino tesse al contempo un elogio dell’incompletezza: «Chi vive nel racconto è solo Medardo in quanto metà di se stesso. E queste due metà, queste due contrapposte immagini di disumanità, risultavano più umane, muovevano un rapporto contraddittorio […]; ad entrambe facevo declamare un elogio del dimidiamento come vero modo di essere, dagli opposti punti di vista, e un’invettiva contro l’“ottusa interezza”» (CALVINO 1960, p. 355). Il primo elogio è quello del Gramo, quando, nel capitolo 5, dice al nipote:

Ero intero e tutte le cose erano per me naturali e confuse, stupide come l’aria; credevo di veder tutto e non era che la scorza. Se mai tu diventerai metà di te stesso, e te l’auguro, ragazzo, capirai cose al di là della comune intelligenza dei cervelli interi. Avrai perso metà di te e del mondo, ma la metà rimasta sarà mille volte più profonda e preziosa. E tu pure vorrai che tutto sia dimezzato e straziato a tua immagine, perché bellezza e sapienza e giustizia ci sono solo in ciò che è fatto a brani (VD, p. 45).

La seconda lode dell’incompletezza è invece quella pronunciata dal Buono nel capitolo 7:

Questo è il bene dell’essere dimezzato: il capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza. Io ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminati dovunque […]. Ecco ora io ho una fraternità che prima, da intero, non conoscevo: quella con tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo (VD, p. 63).

3.14 Sulle soglie dell’adolescenza
Sono evidenti anche le affinità fra il Visconte dimezzato e il Sentiero dei nidi di ragno: Pin e il nipote di Medardo sono entrambi protagonisti orfani e ancora adolescenti; lo sfondo della vicenda è, in entrambi i romanzi, la guerra; il sistema dei personaggi è costruito, come si è visto, per antinomie; la narrazione intreccia, seguendo il modello di Stevenson, fili realistici e fili fiabeschi (BARENGHI 2009, p. 20). Soprattutto, in entrambi i libri rimane centrale il tema della formazione appena iniziata del giovane narratore.

Non a caso, il Visconte ha un doppio finale: il primo riguarda Medardo, che torna a essere intero (ma ciò non conduce all’avvento di un’epoca di felicità nel suo feudo); il secondo concerne appunto il giovane nipote, che perde il suo caro amico mentre è nascosto nel bosco a raccontarsi storie:

Ero giunto sulle soglie dell’adolescenza e ancora mi nascondevo tra le radici dei grandi alberi del bosco a raccontarmi storie. Un ago di pino poteva rappresentare per me un cavaliere, o una dama, o un buffone […]. E venne il giorno in cui anche il dottor Trelawney m’abbandonò […]. Poi le navi levarono le ancore. Io non avevo visto nulla. Ero nascosto nel bosco a raccontarmi storie. Lo seppi troppo tardi e presi a correre verso la marina, gridando: – Dottore! Dottor Trelawney! Mi prenda con sé! Non può lasciarmi qui, dottore! Ma già le navi stavano scomparendo all’orizzonte e io rimasi qui, in questo nostro mondo pieno di responsabilità e di fuochi fatui (VD, p. 71).

Fine della seconda parte
La terza parte sarà pronta a breve
Se vuoi rileggere la prima parte clicca qui

Bibliografia della SECONDA PARTE
In tutte le sezioni di questo contributo l’edizione di riferimento delle opere di Calvino è citata con le seguenti abbreviazioni:

  • RR = Italo Calvino, Romanzi e racconti, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, 3 voll., Milano, Mondadori, 1991-1994.
  • Saggi = Italo Calvino, Saggi, Milano, Mondadori, 1995.
  • Lettere = Italo Calvino, Lettere 1940-1985, Milano, Mondadori, 2000.
  • BARENGHI 2009 = Mario Barenghi, Calvino, Bologna, Il Mulino, 2009.
  • CALVINO 1960 = Italo Calvino, I nostri Antenati, Torino, Einaudi, 1960.
  • CALVINO 1964 = Italo Calvino, Il Sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964 (1a ed. 1947).
  • CALVINO 1980 = Italo Calvino, Our Ancestors, Introduction by the Author, London, Picador Pan Books 1980.
  • CALVINO 1993 = Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988; Milano, Mondadori, 1993.
  • CALVINO – SALINARI 1969 = La lettura. Antologia per la scuola media, a cura di Italo Calvino e Giambattista Salinari, Bologna, Zanichelli, 1969, vol. 1.
  • CECCHI 1952 = intervista a Emilio Cecchi, L’Europeo, 10 maggio 1952.
  • D’ER 1979 = Italo Calvino, intervista a Marco d’Eramo, Mondoperaio XXXII, 6 giugno 1979, pp. 133-138.
  • DeM 1959 = Pavese fu il mio lettore ideale, intervista a Roberto De Monticelli, Il Giorno, 18 agosto 1959.
  • DI STEFANO 2017 = Paolo Di Stefano, Calvino, i misteri russi del padre, in Corriere della sera, 16 luglio 2017.
  • GAD 1962 = risposta all’inchiesta La generazione degli anni difficili, a cura di Ettore A. Albertoni, Ezio Antonini, Renato Palmieri, Bari, Laterza, 1962.
  • PES 1987 = Il gusto dei contemporanei. Quaderno numero tre. Italo Calvino, Pesaro, Banca popolare pesarese, 1987 (intervista con gli studenti di Pesaro dell’11 maggio 1983).
  • REPUBBLICA 1989 = Autoritratto dell’artista da giovane, in La Repubblica Mercurio, 11 marzo 1989.
  • TESIO 1981 = Italo Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di G. Tesio, Torino, Einaudi, 1991.
  • VD = Italo Calvino, Il Visconte dimezzato, Milano, Mondadori, 2004 (1a ed.: Torino, Einaudi, 1952).
  • ZANGRANDI 2012 = Silvia Zangrandi, Segni visivi e percorsi linguistici in I nostri antenati di Italo Calvino, in Sinestesie, 8, 2012, pp. 1-14.

Autore: Serena Lunardi
Revisione e cura: Alessandro Ardigò, Arianna Sardella

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