QUARTA PARTE
8. Guerra!
8.1 Gli Unni, il popolo che cuoce la bistecca col sudore del cavallo
Nell’anno 376, in un giorno non meglio precisato dalle fonti, due tribù gote, i Tervingi e i Grutungi, guidate rispettivamente dalle coppie di reiks Alavivo-Fritigerno e Alateo-Safrace, si accalcarono lungo il corso della sponda orientale del Danubio. Mandarono dei messi al di qua del fiume, nell’impero, indirizzati l’Imperatore Valente – Imperatore d’Oriente – per supplicare di poter attraversare il fiume ed essere accolti nelle terre romane. A detta loro, una pressante minaccia li obbligava a fare questa richiesta: l’avanzata degli Unni.
La testimonianza primaria su cui si fonda questa QUARTA PARTE sono le Storie scritte da Ammiano Marcellino, storico romano ed ex militare, che definisce lo spostamento degli Unni come la causa prima di tutte le sciagure che sarebbero capitate in seguito all’Impero romano (AMM XXXI, 2, 1). Secondo Ammiano, gli Unni erano una popolazione talmente barbara che i suoi membri a stento si potevano definire “umani” e, al confronto con essi, si potevano considerare civilizzati tutti gli altri barbari conosciuti dai romani (omnem modum feritatis excedit – AMM XXXI, 2, 1). Ecco la descrizione che Ammiano fa di alcune usanze Unne:
[Gli Unni] sono stranamente brutti e curvi, tanto che si potrebbero ritenere animali bipedi o simili a quei tronchi grossolanamente scolpiti che si trovano sui parapetti dei ponti. Per quanto abbiano la figura umana, sebbene deforme, sono così rozzi nel tenor di vita da non avere bisogno né di cibi conditi né di fuoco, ma si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda di qualsiasi animale, che riscaldano per un po’ di tempo fra le loro cosce e il dorso dei cavalli. Non sono protetti da alcun edificio, ma li evitano come tombe. Neppure un tugurio con un tetto di paglia si può trovare fra di loro, ma vagano per montagne e selve, abituati fin dalla nascita a sopportare geli, fame e sete.
[2. ubi quoniam ab ipsis nascendi primitiis infantum ferro sulcantur altius genae, ut pilorum vigor tempestivus emergens conrugatis cicatricibus hebetetur, senescunt imberbes absque ulla venustate, spadonibus similes, conpactis omnes firmisque membris et opimis cervicibus, prodigiosae formae et pavendi, ut bipedes existimes bestias vel quales in conmarginandis pontibus effigiati stipites dolantur incompte. 3. in hominum autem figura licet insuavi ita visi sunt asperi, ut neque igni neque saporatis indigeant cibis sed radicibus herbarum agrestium et semicruda cuiusvis pecoris carne vescantur, quam inter femora sua equorumque terga subsertam fotu calefaciunt brevi. 4. aedificiis nullis umquam tecti sed haec velut ab usu communi discreta sepulcra declinant. nec enim apud eos vel arundine fastigatum reperiri tugurium potest. sed vagi montes peragrantes et silvas, pruinas famem sitimque perferre ab incunabulis adsuescunt. peregre tecta nisi adigente maxima necessitate non subeunt: nec enim apud eos securos existimant esse sub tectis].
AMM XXXI, II, 2-4.
Oltre alla ferinità della vita e dei comportamenti degli Unni, ciò che in questa descrizione colpisce in modo particolare è quanto le usanze Unne qui descritte da Marcellino siano sostanzialmente identiche a quelle che – mille anni dopo, 1000! – il viaggiatore francescano Guglielmo di Rubruck descriverà a proposito del popolo dei Mongoli nel suo Itinerarium. (Cfr. G. di Rubruck, Viaggio in Mongolia-Itinerarium, a cura di P. Chiesa, Mondadori, Milano 2011).
In realtà, a livello archeologico, la presenza Unna sul Danubio (cfr. HEATHER 2005 pp. 139 e sgg.) è databile soltanto a partire dal V secolo, cioè trent’anni dopo gli eventi che stiamo narrando. Ciò che successe, e gli archeologi lo confermarono, è che i Goti non impattarono direttamente con gli Unni. Questi ultimi, infatti, spingendo le loro scorrerie sempre più a Occidente, avanzando avevano spostato le tribù di Alani (dei “quasi barbari come gli Unni”, stando a quanto scrive Ammiano Marcellino). Gli Alani, ripiegando, erano entrati in territorio Goto, esaurendo le scorte già esigue di cibo di quelle zone, condannando le tribù gote alla fame (per quanto riguarda gli Unni cfr. anche E. A. THOMPSON, Storia di Attila e degli Unni).
Tant’è, gli ambasciatori goti cavalcarono fino a raggiungere l’imperatore Valente, che nel frattempo era impegnato con le truppe d’Oriente in una campagna militare contro la Persia e aveva posto la sua base ad Antiochia. L’incontro fra Valente e gli ambasciatori goti fu presentato come un colpo di fortuna per Valente e per l’Impero: egli, accettando nell’impero queste tribù, poteva in un sol colpo avere sia tante reclute per il suo esercito sia tanti denari nelle casse imperiali, poiché tanti romani, grazie a tutte queste nuove reclute, potevano essere sollevati dal servizio militare, ma dovevano comunque pagare a Valente il corrispettivo del mancato servizio militare (per il funzionamento del reclutamento, cfr. la SECONDA PARTE del presente articolo).
Ammiano, però, che ci vede lungo e non è un estimatore di Valente, ma che soprattutto ha in odio la corruzione e la disonestà del mondo tardoantico, avverte chiaramente il lettore che tale versione ampollosa della “grande fortuna” che sarebbe spettata a Valente è opera di biechi adulatori che riempivano la corte imperiale e, con le loro lusinghe, inquinavano il giudizio del sovrano.
La situazione fu motivo più di gioia che di paura. Infatti gli adulatori abilmente esaltavano la fortuna del sovrano che, senza che egli se l’aspettasse, gli procurava dalle più lontane regioni tante reclute, in modo che, unendo le proprie forze a quelle straniere, avrebbe disposto un esercito invincibile. In tal maniera invece dei contributi di soldati, che ogni anno le province inviavano, si sarebbe riversata nell’erario una grande quantità di oro.
[negotium laetitiae fuit potius quam timori, eruditis adulatoribus in maius fortunam principis extollentibus, quod ex ultimis terris tot tirocinia trahens ei nec opinanti offerret ut conlatis in unum suis et alienigenis viribus invictum haberet exercitum, et pro militari supplemento, quod provinciatim annuum pendebatur, thesauris accederet auri cumulus magnus]
AMM, XXXI, IV, 4
In realtà, come sostengono diversi studiosi (Cfr. HEATHER 2005), è molto probabile che Valente non fosse così felice della situazione quanto la propaganda vorrebbe invece far credere (cfr. SECONDA PARTE, in particolare le Orazioni dell’“adulatore” Temistio).
Nei fatti, l’imperatore accordò il permesso di passare la frontiera soltanto a uno dei due gruppi, vale a dire alla tribù dei Tervingi, guidata da Fritigerno e Alavivo. La tribù dei Grutungi, invece, guidata dai “re” Alateo e Sarface, avrebbe dovuto rimanere al di là dei confini, oltre la sponda orientale del Danubio, a patire la fame. Questa decisione di Valente viene letta dagli studiosi come un segno di consapevolezza organizzativa, consapevolezza della scarsità di truppe a disposizione dei romani, non sufficienti per gestire l’attraversamento del fiume di entrambe le tribù e il successivo reinsediamento nelle campagne o nell’esercito.
Un altro fattore da tenere in considerazione è la volontà gota di chiedere la protezione romana. Siccome le fonti che possediamo riflettono un punto di vista imperiale, non è facile capire quanto fosse desiderabile per i Goti decidere in tal senso. Da un lato, infatti, ottenere la protezione imperiale poteva mettere fine alla fame e agli stenti, dall’altro però lasciava i barbari in balìa della volontà romana: i Goti erano ben consapevoli che la prassi romana consisteva nello smistare i popoli in varie regioni e nella riduzione in cattività (Cfr. SECONDA PARTE).
Ancora una volta, non avendo fonti barbare, il nostro autore di riferimento è Ammiano, il quale in effetti testimonia che i barbari non presero alla leggera questa decisione, ma al contrario adottarono tale risoluzione soltanto dopo aver a lungo discusso (Cfr. AM XXXI, 3, 8). Con altrettanta amarezza, Ammiano aggiunge che poi i romani “si impegnarono con tutte le forze perché non rimanesse indietro nessuno di quei barbari che poi avrebbe distrutto lo Stato romano” (AM, XXXI, 4, 5).

8.2 Il passaggio del fiume Danubio
La traversata del fiume Danubio doveva essere una dimostrazione di organizzazione romana: i barbari e le province dovevano rimanere impressionati dalla meticolosa precisione romana nel segnalare e registrare le generalità di ogni “immigrato” che attraversava il fiume. Precisione che era a un tempo segno tangibile di forza e civiltà progredita.
Invece tutto si trasformò in un caos. I barbari erano troppi e i romani erano corrotti. Le meticolose prassi burocratiche romane, di fronte alla folla affamata di goti, si risolsero in un nulla di fatto. Ammiano dice che, almeno inizialmente, i funzionari romani registrarono gli accessi dei Goti e cercarono di calcolarne il numero, ma dovettero rinunciare presto, perché era come “contare i granelli di sabbia del deserto di Libia sospinti dal vento”. (AM, XXXI, 4, 6).
Oltre al numero ingestibile di Tervingi – denuncia amaramente Ammiano – si assisteva alla piaga della corruzione romana, diffusa sia fra i soldati semplici sia fra gli ufficiali, poiché ognuno voleva portarsi a casa, a un prezzo irrisorio, qualche schiavo. Ammiano fa i nomi dei comandanti romani che gestirono la traversata, erano tali Lupicino e Massimo, e dice di essi che erano “avidi” e “funesti”, poiché permisero alle truppe di organizzare un “turpe commercio”: i goti erano talmente affamati che accettarono di mangiare carne di cani randagi dando in cambio ai romani i propri figli come schiavi:
Fuor di dubbio non è né oscuro né incerto che i funzionari cercarono spesso di calcolarne il numero, ma dovettero rinunciarvi per l’impossibilità […] erano al comando degli eserciti degli uomini macchiati di disonore, fra i quali si distinguevano Lupicino e Massimo, il primo comes della Tracia, il secondo generale funesto […] la loro insidiosa avidità fu causa di tutti i mali […] poiché i barbari che erano stati trasferiti, soffrivano per la scarsità di cibo, quei comandanti odiosissimi escogitarono un turpe commercio e, raccolti quanti cani poté mettere insieme d’ogne parte l’insaziabilità, li diedero in cambio di altrettanti schiavi, fra i quali annoveravano anche i figli dei capi.
[Ita turbido instantium studio orbis Romani pernicies ducebatur. illud sane neque obscurum est neque incertum, infaustos transvehendi barbaram plebem ministros, numerum eius conprehendere calculo saepe temptantes, conquievisse frustratos, “quem qui scire velit” ut eminentissimus memorat vates “Libyci velit aequoris idem discere, quam multae zephyro truduntur harenae.” reviviscant tandem memoriae veteres, Medicas acies ductantes ad Graeciam: quae ductum Hellesponti occupanteset discidio quodam fabrili maris, litus montanum pede quaesitum exponunt et turmatim apud Doriscum exercitus recensitos, concordante omni posteritate ut fabulosae sunt lectae.
. nam postquam innumerae gentium multitudines per provinciascircumfusae, pandentesque se in spatia ampla camporum, regiones omnes et cuncta opplevere montium iuga, fides quoque vetustatis recenti documento firmata est. et primus cum Alavivo suscipitur Fritigernus, quibus et alimenta pro tempore et subigendos agros tribui statuerat imperator.
. Per id tempus nostri limitis reseratis obicibus atque, ut Aetnaeas favillas armatorum agmina diffundente barbaria, cum difficiles necessitatum articuli correctores rei militaris poscerent aliquos claritudine gestarum rerum notissimos: quasi laevo quodam numine deligente in unum quaesiti potestatibus praefuere castrensibus homines maculosi: quibus Lupicinus antistabat et Maximus, alter per Thracias comes, dux alter exitiosus, ambo aemulae temeritatis.
. quorum insidiatrix aviditas materia malorum omnium fuit. nam – ut alia omittamus, quae memorati vel certe sinentibus isdem alii perditis rationibus in commeantes peregrinos adhuc innoxios deliquerunt – illud dicetur, quod nec apud sui periculi iudices absolvere ulla poterat venia, triste et inauditum.
. cum traducti barbari victus inopia vexarentur, turpe commercium duces invisissimi agitarunt, et quantos undique insatiabilitas colligere potuit canes, pro singulis dederunt mancipiis, inter quae et filii ducti sunt optimatum.]
AM XXXI, 4, 6-11
La fame deve avere spinto la disperazione al di là di ogni immaginazione e il caos era talmente diffuso che, pur di non rimanere fuori dall’Impero Romano, una gran massa di Goti cercava di attraversare il Danubio (il Danubio!) a nuoto o controcorrente o in tronchi scavati, finendo inevitabilmente per annegare, nonostante “notte e giorno” zattere romane si dessero da fare per traghettare i barbari:
Quindi, ottenuto, per concessione dell’imperatore, il permesso di attraversare il Danubio e di abitare le zone della Tracia, venivano trasportati in schiere notte e giorno su navi, zattere e tronchi d’albero scavati. Poiché il Danubio è un fiume assai pericoloso e per di più allora era in piena per le abbondanti piogge, parecchi perirono annegati mentre a causa della gran massa di gente tentavano di attraversarlo contro corrente e cercavano di nuotare.
[proinde permissu imperatoris transeundi Danubium copiam colendique adepti Thraciae partes, transfretabantur in dies et noctes, navibus ratibusque et cavatis arborum alveis agminatim inpositi, atque per amnem longe omnium difficillimum imbriumque crebritate tunc auctum ob densitatem nimiam contra ictus aquarum nitentes quidam et natare conati, hausti sunt plures.]
AM XXXI, 4, 5








Intanto la tribù di Tervingi veniva fatta marciare verso l’interno della Tracia e tutte le truppe romane disponibili venivano impiegate per il controllo e il vettovagliamento dei goti e per il contenimento – al di là dal fiume – dei Grutungi, che non potevano passare il fiume (cfr. BARBERO 2005, 2006).
Prassi abbastanza abituale dei romani, per ridurre all’obbedienza i barbari, (come visto nella SECONDA PARTE di questo studio) era lo sparpagliamento dei gruppi di immigrati in luoghi diversi dell’impero, distanti tra loro, di modo che in nessun modo i barbari potessero organizzarsi per nazionalità, formando grandi gruppi compatti. Spesso tale pratica era “corroborata” dall’esecuzione dei capi-tribù che opponessero resistenza. Come prevedibile, e come probabilmente previsto dagli stessi goti Tervingi, il medesimo trattamento fu riservato dai generali romani a Fritigerno e Alavivo: il comandante Lupicino invitò i due reiks a un banchetto, dentro la città di Marcianopoli. La folla di barbari affamati per la mancanza di viveri, la stessa massa che prima era stata costretta a vendere i figli per della carne di cane, venne chiusa fuori dalle mura della città, mentre rumoreggiava e chiedeva del cibo. Lupicino, durante il banchetto, ordinò che le guardie barbare venissero trucidate: Fritigerno, che sicuramente sospettava qualcosa, riuscì a fuggire dall’accampamento romano e a farsi sentire dai suoi mentre chiedeva aiuto, mentre di Alavivo non si hanno più notizie dopo quel banchetto, ed è quindi più che fondata supposizione che sia stato trucidato assieme agli altri.
Ma “quel giorno pose termine alla fame dei Goti e alla sicurezza dei Romani”, ci dice Giordane (Illa namque dies Gothorum famem Romanorumque securitatem ademi, GE, XXVI, 137): appena Fritigerno fuoriuscì dal campo romano, si riunì ai suoi, i quali “arsero dal desiderio” di fare la guerra: caricarono i romani di guardia, li trucidarono e presero le loro armi, mentre Lupicino riusciva a fuggire. I Tervingi da quel momento ebbero mano libera sulle campagne attorno a Marcianopoli:
da quel momento iniziarono a dare ordini ai proprietari terrieri non più come stranieri e pellegrini, ma come cittadini e padroni
[coeperuntque Gothi iam non ut advenae et peregrini, sed ut cives et domini possessoribus imperare totasque partes septentrionales usque ad Danubium suo iuri tenere]
GE, XXVI, 137
8.3 La nascita dei Visigoti
Sconfitto Lupicino a Marcianopoli, i Goti per tutto il 376 e il 377 si diedero al saccheggio della regione “incendiando le case di campagna e sconvolgendo con immense rovine tutto ciò che potevano trovare” (AM XXXI, 5, 8).
I Goti continuavano anche a crescere in numero, grazie al successivo innesto di almeno tre altri gruppi di Goti.
– Ai Goti Tervingi di Fritigerno, quasi subito si unì la tribù dei Grutungi, cioè i goti che erano rimasti al di là del Danubio e avevano il divieto di attraversarlo. Ma tale divieto fu aggirato facilmente: i soldati romani che dovevano controllare le sponde del Danubio furono chiamati per fronteggiare la rivolta dei Tervingi a Marcianopoli, e le sponde del Danubio rimasero deserte.
– Un secondo flusso che andava a ingrossare le fila di quelli che ormai erano degli invasori era costituito dal continuo arrivo di schiavi goti disertori, i quali, appresa la notizia della ribellione, scapparono dai loro padroni romani:
[I Goti] erano favoriti particolarmente dal fatto che ogni giorno accorreva presso di loro una moltitudine di connazionali che precedentemente erano stati venduti dai mercanti.
[5. laudato regis consilio, quem cogitatorum norant fore socium efficacem, per Thraciarum latus omne dispersi caute gradiebantur, dediticiis vel captivis vicos uberes ostendentibus, eos praecipue, ubi alimentorum reperiri satias dicebatur, eo maxime adiumento praeter genuinam erecti fiduciam, quod confluebat ad eos in dies ex eadem gente multitudo, dudum a mercatoribus venundati, adiectis plurimis, quos primo transgressu necati inedia, vino exili vel panis frustis mutavere vilissimis.]
AM XXXI, 6, 5
– Come se non bastasse, si unì ad essi una folta schiera di goti soldati di professione dell’esercito romano. Questi soldati disertori, ci dice Ammiano Marcellino, costituivano la guardia dei quartieri invernali di Adrianopoli, e stavano a “osservare con indifferenza quanto accadeva” a Marcianopoli (otiosis animis accidentia cuncta contuebantur. AM XXXI, 6, 1), cioè sul momento non erano per nulla animati da un “sentimento di comunione nazionale”, ci dice lo storico romano. Nonostante ciò Valente, impegnato ad Antiochia contro i Persiani ma evidentemente preoccupatissimo per le notizie che gli stavano giungendo, ebbe paura che un sentimento nazional-patriottico dei Goti potesse portare i militari goti di Adrianopoli ad attaccare la città stessa, aprendo le porte ai loro connazionali. Valente allora impose ai militari goti di Adrianopoli di lasciare immediatamente (di notte) la città, senza vettovagliamenti né denaro. I Goti si rifiutarono di eseguire l’ordine e i cittadini di Adrianopoli, che non si fidavano di loro, esplosero di rabbia e di odio e cercarono di trucidarli la notte stessa. Alla fine i soldati disertarono e andarono ad unirsi ai Goti di Fritigerno.
Questo episodio è per noi preziosissimo per capire il reale rapporto cittadini-stranieri in quegli anni, al di là della retorica di palazzo, di stampo umanitarista e universalista (Cfr. PRIMA PARTE di questo articolo). Da tali episodi emerge chiaramente, infatti, che la tanto sbandierata convivenza pacifica era in realtà minata da odii e rabbia, nonché da un malcelato sospetto nei confronti dell’altro.
Tutti questi gruppi di Goti, ormai unificati sotto la guida di Fritigerno, andarono formando quello che poi sarà ricordato come il gruppo dei Visigoti, mentre gli altrettanto famosi Ostrogoti, che al pari dei Visigoti non esistevano come gruppo prima di entrare nello Stato romano, si formarono in seguito a ondate immigratorie successive a questa.
8.4 Sotto l’ombra dei salici, sangue
Valente, apprese queste notizie, si affrettò a chiudere almeno momentaneamente la partita con la Persia, per liberare contingenti da mandare ad affrontare Fritigerno e i suoi Visigoti. Nel frattempo, non credendo ancora fosse necessario intervenire di persona alla guida di tutti i suoi effettivi, cioè l’esercito comitatense d’Oriente, mandò nei pressi di Marcianopoli due suoi generali – Traiano e Profuturo – alla testa di tre legioni. Fritigerno e i suoi avevano passato l’inverno depredando “in maniera orrenda”, come ci dice Ammiano, le campagne della Tracia.
Romani e Goti si incontrarono nuovamente nell’estate del 377 nella località Ad Salices, nella regione della Scizia, vicino a Marcianopoli, così chiamata per il gran numero di salici che vi crescevano. Qui i Goti si erano disposti all’interno dei loro numerosissimi carri, che avevano disposto a formare un grande anello entro cui proteggersi. Ammiano sottolinea con insistenza che i Goti erano costantemente informati delle intenzioni dei romani da spie (AM, XXXI, 7, 7) che si spostavano da un accampamento all’altro. Ciò può fare immaginare, contrariamente a quanto in genere si crede, che i due eserciti fossero in realtà due mondi comunicanti. Comunque sia, il primo giorno di battaglia i Romani caricarono, ma non riuscirono a sfondare il carrago (questo era il nome che i Goti davano ai loro carri disposti a cerchio per la difesa) e la notte mise momentaneamente fine allo scontro.
Ammiano ci racconta che la mattina del secondo giorno, pronti al suono delle trombe, i soldati romani si schierarono ordinati e immobili ai propri posti nei manipoli: da una parte il composto esercito romano, prima piano, poi sempre più forte fino a riempire la pianura, cominciava a emettere il suo grido di guerra, il barritus, che rianimava i soldati e li esortava alla vittoria. Dall’altra parte, invece, i barbari “con urla selvagge celebravano le lodi dei loro antenati” (AM XXXI, 7, 11). Gli eserciti, sotto una pioggia di giavellotti, si avvicinarono fino ad arrivare ad essere scudo a scudo:
I barbari, pronti come sono sempre, e veloci, lanciando sui nostri ingenti clave incendiate e piantando con violenza le spade nei petti […] riuscirono a travolgere l’ala sinistra. […] Mentre dunque la battaglia divampava in mezzo a continue stragi, ciascuno si scagliava con prontezza là dove lo schieramento era più compatto ed andava incontro alla morte sotto i colpi delle spade e dei dardi che, come la grandine, cadevano da ogni parte. La cavalleria inseguiva da ogni lato i fuggiaschi e con grande vigore li colpiva alla nuca ed alle spalle: così pure da entrambe le parti i fanti tagliavano i garretti a quanti cadevano ed erano impacciati per la paura. Tutta la zona era coperta di cadaveri; giacevano fra questi alcuni moribondi, che nutrivano una vana speranza di salvarsi, altri erano stati colpiti da pietre lanciate da fionde oppure da aste con punte di ferro, mentre ad altri, infine, le teste erano state spaccate da un fendente dalla sommità fino alla parte centrale della fronte e pendevano, con un orrendo spettacolo, su una e sull’altra spalla.
[12. iamque verrutis et missilibus aliis utrimque semet eminus lacessentes ad conferendas coiere minaciter manus, et scutis in testudinum formam coagmentatis pes cum pede conlatus est. barbarique ut reparabiles semper et celeres, ingentes clavas in nostros conicientes ambustas mucronesque acrius resistentium pectoribus inlidentes, sinistrum cornu perrumpunt: quod inclinatum subsidialis robustissimus globus e propinquo latere fortiter excitus haerente iam morte cervicibus sustentavit.
fervente igitur densis caedibus proelio in confertos quisque promptior ruens, ritu grandinis undique volitantibus telis oppetebat et gladiis, et sequebantur equites hinc inde fugientium occipitia lacertis ingentibus praecidentes et terga, itidemque altrinsecus pedites lapsorum, timore impeditorum, secando suffragines.
et cum omnia caesorum corporibus opplerentur, iacebant inter eos quidam semianimes, spem vitae inaniter usurpando, alii glande fundis excussa vel harundinibus armatis ferro confixi, quorundam capita per medium frontis et verticis mucrone distincta in utrumque humerum magno cum horrore pendebant.]
AM XXXI, 7, 12-14
Anche questo secondo giorno di battaglia terminò con un nulla di fatto, e nessuno dei due eserciti ebbe la forza e il coraggio per iniziarne un terzo. Anzi, Ammiano ci dice che i Goti per sette giorni consecutivi si chiusero nei loro cerchi di carri a pregare e seppellire i defunti, e non osarono né uscire né farsi vedere (AM XXXI, 8, 1). Per qualche tempo i romani riuscirono a chiudere i Goti nelle strette gole delle montagne della Scizia, ma dopo aver consumato tutto quello che si poteva consumare in quelle zone (AM XXXI, 8, 4), si allearono con alcuni gruppi di Unni e di Alani che avevano passato il Danubio. Il comandante inviato da Valente, Saturnino, per paura che l’eccessivo numero di barbari travolgesse i contingenti romani messi a contenere i passi (paura tutt’altro che infondata, come ci informa lo stratega ed ex militare Ammiano), fece togliere i blocchi ai passi. Appena tolti i blocchi i Goti iniziarono a distruggere l’intera Tracia, “sconvolgendo ogni cosa con rapine, stragi, sangue, incendi e violenze ai danni dei liberi cittadini” (AMM XXXI, 8, 6):
Si poteva allora assistere a scene dolorose, orribili a vedersi e a narrarsi […] venivano quindi condotte vergini adulte e caste spose, con il volto chino e in lacrime per la loro sorte dolorosissima, che desideravano salvare, sia pure con la morte in mezzo ai tormenti, il pudore che fra poco sarebbe stato violato.
[8. post quae adulta virginitas castitasque nuptarum ore abiecto flens ultima ducebatur, mox profanandum pudorem optans morte, licet cruciabili, praevenire.]
AM, XXXI, 8, 8
8.5 Valente, l’imperatore che non aveva letto i classici e invidiava suo nipote
Valente, ottenuta la pace momentanea con la Persia per il protettorato sull’Armenia, si spostò a Costantinopoli per organizzare l’esercito d’Oriente e fronteggiare i Visigoti.
Ammiano non è un estimatore di Valente, infatti scrive:
Aggravavano questa sua [di Valente] costante tendenza agli stimoli dell’avidità, sia sua che di coloro che stavano a corte, i quali concepivano sempre nuovi desideri e, se veramente qualche rara volta si faceva menzione al sentimento di umanità, lo chiamavano ottusità. Costoro con cruenti adulazioni guastavano, rendendolo ancora peggiore, il carattere d’un uomo abituato ad avere la morte sulla punta della lingua. Giacché Valente […] si adirava senza misura.
[19. adulescebat autem obstinatum eius propositum, admovente stimulos avaritia et sua et eorum, qui tunc in regia versabantur, novos hiatus aperientium, et, siqua humanitatis fuisset mentio rara, hanc appellantium tarditatem: qui cruentis adulationibus institutum hominis, mortem in acie linguae portantis, ad partem pessimam depravantes, omnia turbine intempestivo perflabant, eversum ire funditus domus opulentissimas festinantes.]
AM XXIX, 1, 19
Nel 364 le truppe avevano acclamato imperatore Valentiniano, il quale, su richiesta pressante dei soldati, aveva scelto di non governare da solo, ma di lasciare l’Oriente a una persona di fiducia. La scelta cadde su suo fratello Valente; la designazione del fratello fu immediata, poiché Valentiniano fu acclamato dalle truppe nel mese di febbraio 364, e nel marzo dello stesso anno si scelse come collega il fratello, “quale docile esecutore dei suoi ordini”, afferma pungente Ammiano (AM, XXVI, 4, 3).
Valentiniano venne acclamato dalle truppe perché era un militare puro, di professione (era ufficiale della guardia), in grado di mettere in primo piano la difesa dei confini e il contenimento dei popoli stranieri, lasciando invece in secondo piano la questione religiosa (Giuliano l’Apostata, l’imperatore che voleva riportare il paganesimo nell’impero romano, era morto l’anno prima, nel 363 dC. – vedi PRIMA PARTE par. 1)
In effetti sotto di Valentiniano aumentarono i reclutamenti e vennero fortificate entrambe le sponde del Reno (AM XXX, 8, 6).
Tuttavia, la scelta più importante e più gravida di conseguenze di Valentiniano fu l’effettiva spartizione dell’impero con il fratello Valente: le truppe vennero divise realmente fra i due imperatori, così come fu diviso il tesoro. Si leggano queste osservazioni dello storico Remondon:
La spartizione dell’impero tra i figli di Costantino era accidentale. L’Unità è ristabilita ma a partire dal 350 ed è mantenuta da Costanzo, da Giuliano e da Gioviano.[…] L’Unità ideologica imperiale è salvaguardata: L’Unità costituzionale sussiste: uno degli augusti riceve l’investitura dall’altro e l’attività legislativa è esercitata in comune […]
La spartizione del 364 costituisce una novità. Fino ad allora, il bisogno di decentralizzare aveva condotto a regionalizzare l’amministrazione tramite la scappatoia delle prefetture del pretorio, in modo che l’impero tendeva a divenire una federazione di circoscrizioni prefettizie, ciascuna in possesso di una propria vita e animata da uno o due prefetti che agivano come vice-imperatori. […] nel 364 lo stesso potere imperiale è regionalizzato: Valentiniano e Valente si sono realmente spartiti l’esercito, i funzionari e le risorse. […] nel 377 il ministro Merobaude si oppone al fatto che Graziano invii soccorsi a Valente. (REMONDON p.140)
L’allontanamento fra Occidente e Oriente è tanto rapido quanto irreversibile. Valentiniano muore nel 375 e lascia l’Occidente a suo figlio Graziano. Nel 377, nell’anno della battaglia di Ad Salices, Graziano vuole andare, con il suo esercito, in aiuto all’Oriente. Tale spedizione gli viene però impedita dal ministro Merobaude, che la ritiene uno spreco di denaro e uomini (Cfr. REMONDON p.140). “Gli augusti rischiano di rinchiudersi ciascuno nella sua parte di impero, di divenire prigionieri di egoismi che crescono con il crescere dei pericoli” (ibidem).
8.6 Per tutto l’orbe romano sembrava che le buccine suonassero a guerra
La disfatta di Adrianopoli segnò un punto di non ritorno. Fu un punto di non ritorno nel processo di allontanamento fra Occidente e Oriente, nella “falla” che si era creata nei confini – ormai aperti dai popoli barbarici e mai più richiusi – e nell’ambito del diritto, poiché, dopo tale battaglia, gli imperatori romani dovettero “ufficializzare”, cioè legalizzare, all’interno del proprio territorio una nazione compatta, oltretutto libera di non rispondere alla legge romana. Ammiano apre l’ultima parte della sua opera di storia, che non a caso chiude su Adrianopoli, dicendo che in quegli anni era come se le buccine, cioè i lunghi tubi di bronzo, ricurvi, usati dai romani per segnalare le manovre militari, stordissero tutta la Terra con il loro suono di guerra.
Dopo Ad Salices, entrambi gli imperatori, Valente e Graziano (che era il figlio succeduto a Valentiniano nel 375, come detto poco sopra) si misero in marcia con i propri eserciti per respingere una volta per tutte i Goti.
Ammiano afferma, irrimediabilmente affranto, che Valente, per non spartire gli onori con il nipote Graziano, e male informato sia dalle spie sia dagli adulatori, decide di attaccare i Goti da solo, nei pressi di Adrianopoli (AM XXXI, 12, 7). Ammiano ritorna incessantemente sul tema dell’adulazione della corte all’uomo di potere, quasi come se ritenesse essere questa la causa vera della rovina di Roma; torna a battere ripetutamente questo tasto, poiché, a suo parere, se adulato, l’imperatore non poteva avere chiara la situazione e non poteva quindi decidere il meglio.
La mattina del 9 agosto 378 l’esercito di Valente depositò le salmerie e i bagagli fuori dalle mura di Adrianopoli e si mise a inseguire velocemente la colonna di Goti, per attaccare battaglia:
I due schieramenti, scontratisi come navi rostrate e respingendosi a vicenda, fluttuavano con reciproco movimento simili a onde.
Il fianco sinistro si avvicinò addirittura ai carri, pronto a spingersi oltre se qualcuno gli avesse portato aiuto, ma, abbandonato dalla rimanente cavalleria ed incalzato da una moltitudine di nemici, fu sopraffatto e distrutto come se una diga potente si fosse abbattuta su di lui. I fanti rimasero scoperti in gruppi così stipati gli uni sugli altri, che difficilmente potevano sguainare le spade o tirare indietro le braccia. Né a causa della polvere, che s’era levata, si poteva vedere il cielo che risuonava di orrende urla. Perciò i dardi, che da ogni parte scagliavano la morte, cadevano su sicuri bersagli con effetto fatale perché non si potevano prevedere né era possibile alcuna difesa. […]
Si poteva vedere un barbaro, superbo per la sua ferocia e con le gote contratte in un urlo di dolore, il quale, essendogli stato tagliato un garretto o amputata la destra da un colpo di spada o ferito un fianco, volgeva minacciosamente gli occhi feroci ormai prossimo alla morte. A causa della strage reciproca di combattenti i corpi erano disseminati per terra ed i campi erano ricoperti di cadaveri. Diffondevano un profondo terrore i gemiti dei morenti e di quanti erano stati colpiti da profonde ferite. […] Siccome il terreno, coperto da rivi di sangue, era sdrucciolevole, tentavano in tutti i modi di vendere cara la propria pelle e si opponevano con tale energia ai nemici che incalzavano, che caddero colpiti dai dardi dei propri compagni. Insomma, tutto era insozzato di nero sangue e, dovunque si volgesse lo sguardo, si incontravano mucchi di uccisi e si calpestavano senza alcun riguardo i corpi privi di vita.[2. deinde conlisae in modum rostratarum navium acies trudentesque se vicissim, undarum specie motibus sunt reciprocis iactitatae. Et quia sinistrum cornu ad usque plaustra ipsa accessit, ultra., siqui tulissent suppetias, processurum: a reliquo equitatu desertum, multitudine hostili urgente sicut ruina aggeris magni oppressum atque deiectum est: steterunt inprotecti pedites, ita concatervatis manipulis ut vix mucronem exerere aut ma,nus reducere quisquam posset. nec iam obiectu pulveris caelum patere potuit ad prospectum, clamoribus resultans horrificis. qua causa tela undique mortem vibrantia destinata cadebant et noxia, quod nec provideri poterant nec caveri.
3. verum ubi effusi inmensis agminibus barbari iumenta conterebant et viros, et neque ad receptum confertis ordinibus laxari usquam poterat locus, et evadendi copiam constipatio densior adimebat: nostri quoque ultimo cadendi contemptu occursantes receptis gladiis obtruncabant, et mutuis securium ictibus galeae perfringebantur atque loricae.
4. videreque licebat celsum ferocia barbarum, genis stridore constrictis, succiso poplite aut abscisa ferro dextera vel confosso latere inter ipsa quoque mortis confinia minaciter circumferentem oculos truces: ruinaque confligentium mutua humo corporibus stratis campi peremptis impleti sunt, et morientium gemitus profundisque vulneribus transfixorum cum timore audiebantur ingenti.
5. in hoc tanto tamque confusae rei tumultu exhausti labore et periculis pedites cum deinceps neque vires illis neque mentes suppeterent ad consilium, diffractis hastarum plerisque conlisione adsidua, gladiis contenti destrictis in confertas hostium turmas mergebant se, salutis inmemores, circumspectantes ademptum esse omne evadendi suffugium.
6. et quia humus rivis operta sanguineis gressus labiles evertebat, conabantur modis omnibus vitam inpendere non inultam: adeo magno animorum robore oppositi incumbentibus, ut etiam telis quidam propriis interirent. atra denique cruoris facie omnia conturbante et, quocumque se inflexerant oculi, acervis caesorum adgestis, exanimata cadavera sine parsimonia calcabantur.]
AMM, XXXI, 13, 2-6
Tragica è anche la fine dell’imperatore, che nessuno trovò dopo quel tragico 9 agosto 378. Ammiano riporta due versioni della morte di Valente: nella prima dice sia morto colpito da una freccia mentre batteva in ritirata e che nessuno trovò il suo cadavere perché, il giorno dopo, il campo di battaglia era pieno di nemici barbari intenti a depredare i cadaveri dei caduti, quindi nessun romano osò avvicinarsi. La seconda versione invece vuole che l’imperatore fosse morto bruciato in una casa della zona nella quale si nascondeva, casa bruciata nel corso di una razzia dai barbari, che non sapevano che dentro ci fosse proprio Valente. Giordane invece, più sintetico, riporta soltanto la seconda versione della morte, mentre della battaglia non dice nulla, a parte che fu “durissima” (GE, XXV, 138).
L’Oriente si trovò così, dopo il 9 agosto 378, senza più né un esercito né un imperatore.
Graziano, imperatore d’Occidente, che stava arrivando con il suo esercito per aiutare il frettoloso ed invidioso zio Valente, appresa la sconfitta sul campo, pensò bene di tornarsene in Occidente con il suo esercito, per mettere in salvo almeno quello.
8.7 Cattolici e non
Ammiano, storico pagano, ex militare, si strugge dal dolore e dall’odio per la negligenza e la corruzione dei suoi concittadini. Come detto nella PRIMA PARTE (par. 2.4) i pagani sentivano ancora il mito imperiale, «il mondo fatto una città sola, ed una patria unica per le diverse genti»; la situazione attuale era pertanto inaccettabile e straziante. Per essi l’Impero al declino era «un infermo che bisognava guarire a tutti i costi». Queste riflessioni dello storico Santo Mazzarino si ritrovano anche nel racconto di Ammiano.
Diversa, invece, e diametralmente opposta, è l’interpretazione che ne danno i cristiani Giordane e Paolo Orosio, intrisa di quello che oggi chiameremmo fanatismo religioso, fanatismo che li porta ad accettare gli eventi del presente come giudizi e punizioni imperscrutabili di Dio. Secondo Giordane, infatti:
Non altrimenti che per il giudizio di Dio egli [l’imperatore Valente] fu arso nel fuoco da coloro che lui stesso, mentre chiedevano di apprendere la vera fede, aveva fatto cadere nell’eresia, trasformando il fuoco della carità nel fuoco della Gehenna.
[138. Quod conperiens in Antiochia Valens imperator mox armato exercitu in Thraciarum partes egreditur; ubi lacrimabile bello commisso vincentibus Gothis in quodam praedio iuxta Adrianopolim saucius ipse refugiens ignorantibusque, quod imperator in tam vili casula delitisceret, Gothis, ignemque, ut adsolet saeviente inimico, supposito, cum regali pompa crematus est, haut secus quam dei prorsus iudicio, ut ab ipsis igni conbureretur, quos ipse vera fide petentibus in perfidia declinasset ignemque caritatis ad gehennae ignem detorsisset.]
GETICA, XXVI, 138
Per “vera fede” Giordane intende il cattolicesimo, cioè il cristianesimo approvato dal Concilio di Nicea, mentre per “eresia” intende l’arianesimo (i Goti erano in parte ariani e in parte pagani).
Paolo Orosio è sostanzialmente della medesima opinione, ma il suo giudizio è ancora più duro e intriso di moralismo rispetto a quello di Giordane. Orosio non si fa nessuna remora a giustificare il corso degli eventi, e a subordinarli a una “superiore” e imminente vittoria del Cristianesimo cattolico. La morte di Valente, ariano, per Orosio diventa – biblicamente – una sorta di rogo sacro, un ineccepibile giudizio di Dio:
Lo stesso imperatore, che ferito da una freccia e volto in fuga si teneva nascosto in una casupola di una fattoria dove era stato trasportato con fatica, catturato dai nemici inseguitori fu bruciato sopra un rogo e, affinché fosse di più terribile esempio la testimonianza della sua punizione e dell’indignazione divina, privato anche della sepoltura comune.
Si consoli, ma di questo solo, la misera pervicacia dei gentili [ndr. pagani], che così grandi sventure piombate tutte insieme sui tempi e sui re cristiani obbligarono lo Stato a piegarsi sotto il loro peso: sconvolte le province, distrutto l’esercito, arso l’imperatore. Veramente ciò accresce il nostro dolore, ed è tanto più penoso quanto più nuovo [ndr. nella concezione antica, la tradizione è da ammirare, le novità invece da fuggire, in quanto deteriori]. Ma che giova questo alla consolazione dei pagani, se apertamente riconoscono che in questi fatti è stato punito il persecutore delle chiese? Un solo Dio ci ha dato una sola fede, ha diffuso una sola Chiesa su tutta la terra: a questa guarda, questa ama, questa difende; sotto qualsiasi nome uno si celi, se non le si associa, è estraneo, se la combatte, è nemico. Si consolino i gentili quanto vogliono per i supplizi inflitti ai giudei e agli eretici; purché ammettano che c’è un solo Dio e questo Dio non accetta le persone senza giudicarle: ne dà conferma la morte di Valente.
I Goti prima avevano chiesto supplici a mezzo di ambasciatori che fossero mandati loro dei vescovi dai quali potessero apprendere i principi della fede cristiana. L’imperatore Valente con esecrabile disonestà inviò loro maestri di dottrina ariana. I Goti si attennero ai primi rudimenti di fede ricevuti. Così, per giusto giudizio di Dio essi incendiarono vivo colui per colpa del quale, anche da morti, arderanno in conseguenza dell’errore.[15ipse imperator cum sagitta saucius uersusque in fugam aegre in cuiusdam uillulae casam deportatus lateret, ab insequentibus hostibus deprehensus, subiecto igne consumptus est et, quo magis testimonium punitionis eius et diuinae indignationis terribili posteris esset exemplo, etiam communi caruit sepultura.
16 Consoletur se, sed in hoc solo, peruicacia miseriaque gentilium, quia temporibus et regibus Christianis tantae simul congestae clades pressam reipublicae onerauere ceruicem: euersae prouinciae, deletus exercitus, imperator incensus. magnum reuera hoc est ad nostrum dolorem magisque miserum quo magis nouum. 17 sed quid hoc ad consolationem proficit paganorum, qui palam peruident et in his quoque persecutorem ecclesiarum fuisse punitum ? unus Deus unam fidem tradidit, unam ecclesiam toto orbe diffudit: hanc aspicit, hanc diligit, hanc defendit; quolibet se quisquis nomine tegat, si huic non sociatur, alienus, si hanc inpugnat, inimicus est. 18 consolentur se gentiles, in quantum uolunt, Iudaeorum haereticorumque suppliciis, tantum et unum Deum esse et eundem personarum acceptorem non esse uel ex hac potissimum Valentis extincti probatione fateantur. 19 Gothi antea per legatos supplices poposcerunt, ut illis episcopi, a quibus regulam Christianae fidei discerent, mitterentur. Valens imperator exitiabili prauitate doctores Arriani dogmatis misit. Gothi primae fidei rudimento quod accepere tenuerunt. itaque iusto iudicio Dei ipsi eum uiuum incenderunt, qui propter eum etiam mortui uitio erroris arsuri sunt.]
OROSIUS, HAP, VII, 33, 15-19
Fine della Quarta Parte.
Nella Quinta Parte, l’ultima, in uscita dopo l’estate, si esamineranno più nel dettaglio gli aspetti peculiari del V secolo e si tracceranno alcuni percorsi di riflessione nell’ottica di una attualizzazione della presente materia storica.
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Autore: Alessandro Ardigò
Revisione e cura: Arianna Sardella, Serena Lunardi
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