4. Dal participio passato del Visconte al participio presente del Barone
4.1 Calvino e il Visconte
Al romanzo del Visconte dimezzato, di cui si è parlato nella SECONDA PARTE, Calvino non voleva dare grande rilievo: «In una lettera a Vittorini manifesta perfino il timore che pubblicarlo in volume, anziché in rivista, significhi attribuirgli un’importanza eccessiva» (BARENGHI 2009, p. 23).
Lo scrittore continua a coltivare, infatti, il proposito di tornare al progetto di quel romanzo realistico sull’attualità sociale contemporanea che non era ancora riuscito a compiere. Nel frattempo scrive racconti di vario genere: nello stesso anno del Visconte, compaiono La Formica argentina sulla rivista Botteghe oscure e le prime novelle di Marcovaldo sull’Unità. Gli anni Cinquanta sono quindi caratterizzati da una fervida attività dell’autore sia nel campo editoriale sia in quello letterario (SERRA 2006, pp. 110-123).
4.2 Il Midollo del leone e lo scrittore impegnato
In ambito teorico, inoltre, Calvino partecipa al dibattito intellettuale di quegli anni sulla funzione sociale della letteratura; nel 1955 pubblica ad esempio Il Midollo del leone, un saggio in cui afferma la necessità dell’impegno dello scrittore nella società:
«Noi crediamo che l’impegno politico, il parteggiare, il compromettersi sia, ancor più che dovere, necessità naturale dello scrittore d’oggi […]. Noi siamo tra quelli che credono in una letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una letteratura come educazione, di grado e di qualità insostituibile» (CALVINO 1980, pp. 3-18).
4.3 Una Pietra sopra a un’esperienza conclusa
Quando poi ripubblicherà questo suo intervento nella raccolta Una Pietra sopra del 1980, Calvino prenderà le distanze dalla visione dell’intellettuale impegnato che propugnava nel Midollo:
«È ponendosi come esperienza conclusa che la successione di queste pagine comincia a prendere forma […]. Posso ora raccogliere questi saggi in volume, cioè accettare di rileggerli […]. Per capire il punto in cui mi trovo. Per metterci una pietra sopra» (CALVINO 1980, Introduzione, p. 8).
Negli anni in cui scrive Il Midollo, lo scrittore continua però a nutrire l’ideale di una letteratura militante, che ritiene possa tradursi soltanto in un romanzo a carattere realistico-sociale e non nella dimensione fiabesca del Visconte: «Col senno di poi fa impressione quanto accanitamente Calvino abbia remato contro quel suo piccolo libro» (SERRA 2006, p. 162).
Egli continua quindi a lavorare alla realizzazione del suo “vero” romanzo: nel 1954 esce infatti nei Gettoni Einaudi L’entrata in guerra, una raccolta di racconti a carattere memorialistico, della quale però sarà grandemente insoddisfatto.
4.4 Calvino, “favolista” controvoglia
Da questo momento di stallo, lo scrittore uscirà grazie a un lavoro commissionato da Einaudi, che viene accettato controvoglia, almeno in un primo momento: si tratta della raccolta di un corpus unitario di fiabe italiane, in grado di affiancare quelli pubblicati dalla stessa casa editrice nei primi anni Cinquanta (le Fiabe del focolare dei fratelli Grimm, le Antiche fiabe russe di Afanasjev e le Fiabe di Andersen).
Calvino collabora con l’etnologo Giuseppe Cocchiara per il reperimento del materiale folclorico a partire da raccolte scritte regionali e locali, si dedica alla revisione linguistica e stilistica dei testi e alla stesura delle note di commento.
Le Fiabe italiane compaiono nel 1956 (CALVINO 1956): «Il successo dell’opera consolida l’immagine di un Calvino “favolista” (che diversi critici vedono in contrasto con l’intellettuale impegnato degli interventi teorici)» (RR, I, Cronologia).
4.5 Un tuffo in un mare sconosciuto
Il lavoro sulla fiaba fornisce allo scrittore alcuni spunti essenziali circa le modalità del narrare: anzitutto, la fiaba gli offre un modello di narrazione caratterizzato da «sintesi, essenzialità del disegno, rapidità del ritmo» (BARENGHI 2009, p. 30); inoltre, il corpus nel suo insieme, composto di duecento racconti, si presenta a Calvino come un «repertorio inesauribile di ripetizioni e variazioni», che rivela alcuni meccanismi profondi del narrare (cfr. BARENGHI 2009).
La lezione appresa attraverso questo “tuffo in un mare sconosciuto” agirà profondamente e a lungo sulla sua scrittura, come dimostra l’influsso dell’esperienza delle Fiabe sui procedimenti compositivi che Calvino utilizzerà anche in epoche successive, ad esempio nel Castello dei destini incrociati (1969) o ancora nelle Lezioni americane (1985).
4.6 La svolta del Barone rampante
Negli stessi anni in cui sta lavorando con fervore alla strutturazione delle Fiabe, Calvino compone Il Barone rampante, che viene pubblicato nel 1957, nella collana I Coralli di Einaudi. A cinque anni di distanza, lo scrittore torna quindi alla vena araldica che già aveva sperimentato con il Visconte, ma con una maturità diversa e consapevole.
Secondo Francesca Serra, scrivendo il Barone lo scrittore voleva anzitutto correggere le debolezze del Visconte,
«con la solita sindrome-Sentiero dietro l’angolo, per quella sua alterna voglia d’essere e di non essere […]. Da cui le continue fughe in avanti di Calvino, la sua smania del cambiamento, di libro in libro; e però anche l’attenzione estrema ai giudizi degli altri, l’ambizione di trovare la giusta risposta ai desideri del pubblico e della critica del tempo, di far centro» (SERRA 2006, p. 171).
4.7 La fortuna del Barone
Indubbiamente il Barone fu un best-seller. Anche in questo caso però il giudizio di Calvino sul romanzo era critico; in particolare sulla seconda parte, che giudicava meno riuscita della prima (cfr. SERRA, pp. 174-175). La paura era ancora quella di essere considerato un autore minore, capace solo di scrivere libri divertenti.
Lo dice chiaramente, «nel 1964 a una scuola media entusiasta della sostituzione dei Promessi sposi con il Barone rampante, attenzione perché I Promessi sposi sono sicuramente un libro che resta, “Il Barone rampante mah! non sappiamo ancora quanto resisterà”, deve ancora passarne di tempo per dimostrare di non essere uno dei tanti “libri che lì per lì divertono ma poi sono presto dimenticati”» (SERRA 2006, p. 175). Insomma, deve passarne ancora di tempo prima che il suo Barone diventi un classico.
4.8 Un caso editoriale
Si tratta in ogni caso di un salto di qualità in termini di vendite e notorietà. Paradossalmente, lo abbiamo già detto, in questa fase Calvino considera la vena araldica come una sosta o una deviazione dal percorso principale della sua scrittura. Invece, sarà proprio con il Barone rampante che arriverà la sua consacrazione definitiva da parte della critica e del pubblico: alla morte di Calvino, nel 1985, le edizioni del romanzo saranno 25, 15 quelle degli Antenati, 27 circa le edizioni scolastiche (10 nella collana Libri per ragazzi e 17 in Letture per la scuola media, cfr. SERRA 2006, pp. 171-172).
Di fatto, con la pubblicazione del secondo romanzo araldico, Calvino conquista un mercato «che nessun libro italiano contemporaneo (ma in generale […] del nostro Novecento), poteva sognarsi» (SERRA 2006, p. 173): quello dell’editoria scolastica. E non tanto il mercato editoriale dedicato alla scuola superiore, ma appunto quello della scuola media, il che significa per lo scrittore accedere
«a un serbatoio ancora più appetibile dal punto di vista economico. Con il risultato di moltiplicare la richiesta commerciale, come lo stesso Calvino notava nel 1964, “perché ci sono pochissimi libri italiani – tra cui il Barone rampante – che possono essere adottati dalla scuola media come testi di lettura” [lettera a Mario Muchnik dell’11 giugno 1964]» (SERRA 2006, p. 173).
A posteriori, quella araldica non fu dunque semplicemente una deviazione di percorso, ma una tappa importante nella storia artistica dello scrittore, almeno dal punto di vista quantitativo: il Barone diviene un caso editoriale e trova un suo spazio importante in un filone di mercato piuttosto redditizio e ancora poco frequentato, quello della narrativa per ragazzi.
4.9 Dal participio passato al participio presente: le ragioni di una scelta
Rispetto al Visconte, il secondo antenato presenta uno scarto importante, che mostra una «maggiore maturità espressiva e una più chiara consapevolezza» degli intenti della scrittura (BARENGHI 2009, p. 33). Del resto, le molteplici differenze fra i due romanzi sono evidenti fin dal titolo, in quel passaggio dal participio passato (dimezzato) al participio presente (rampante): se Medardo subisce il dimezzamento, invece Cosimo, il giovane Barone, decide di vivere sugli alberi; la sua è una scelta consapevole, «difesa con stoica fermezza» (BARENGHI 2009, p. 34).
Nella conclusione del Visconte, il giovane narratore rimaneva fra le radici degli alberi a raccontarsi storie; invece nel Barone Cosimo sugli alberi decide di salire, e non per estraniarsi dal mondo – come succede al nipote di Medardo, che neppure si avvede della partenza del suo più caro amico -, ma per viverci attivamente e per guardare le cose in modo nuovo. Nella Nota all’edizione degli Antenati del 1960, Calvino racconta:
«Avevo da tempo un’immagine in testa: un ragazzo che sale su di un albero; sale, e cosa gli succede? Sale, ed entra in un altro mondo; no, sale, e incontra personaggi straordinari; ecco: sale, e d’albero in albero viaggia per giorni e giorni, anzi, non torna più giù, si rifiuta di scendere a terra, passa sugli alberi tutta la vita» (RR, I, pp. 1213-1214).
Il romanzo è ambientato in epoca settecentesca, nell’immaginaria contea di Ombrosa, in Liguria. Cosimo è un protagonista adolescente, che decide inizialmente di salire sugli alberi per ripicca verso il padre, il quale lo vuole costringere a mangiare un piatto di lumache.
4.10 Il gran rifiuto di Cosimo
Come osserva Francesca Serra, la sfera visiva acquisisce anche in questo romanzo un’estrema importanza, perché salire sugli alberi significa per Cosimo acquisire un diverso punto di vista, distante e quindi capace di abbracciare con lo sguardo un orizzonte più vasto (cfr. SERRA 2006, p. 178).
Fu il 15 giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. Era mezzogiorno, e la nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola […]. Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse: “Ho detto che non voglio e non voglio!” – e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vista disubbidienza più grave (BR, p. 9).
Da questo atto di ribellione infantile, prende le mosse il racconto di Biagio, il fratello minore del barone, che lo osserva da terra:
Noi sugli alberi trascorrevamo ore e ore […]. Trovai quindi naturale che il primo pensiero di Cosimo, a quell’ingiusto accanirsi su di lui, fosse stato d’arrampicarsi sull’elce, albero a noi familiare, e che protendendo i rami all’altezza delle finestre della sala, imponeva il suo contegno sdegnoso e offeso alla vista di tutta la famiglia […]. Cosimo salì fino alla forcella d’un grosso ramo dove poteva stare comodo e si sedette lì, a gambe penzoloni, a braccia incrociate con le mani sotto le ascelle, la testa insaccata nelle spalle, il tricorno calcato sulla fronte (RR I, p. 559).
Cosimo ha qui l’aspetto di un ragazzino indispettito e la sua salita sugli alberi sembra una ripicca momentanea, almeno fino alla conclusione del capitolo 1:
Nostro padre si sporse dal davanzale: “Quando sarai stanco di star lì cambierai idea!” – gli gridò. “Non cambierò mai idea” – fece mio fratello, dal ramo. “Ti farò vedere io, appena scendi!” “E io non scenderò più!” – E mantenne la parola (BR, p. 97).
4.11 “Ogni cosa, vista di lassù, era diversa”
A narrare la sua vicenda è appunto il fratello minore, Biagio, che conosce bene l’“ostinazione sovrumana” di Cosimo, la sua determinazione nella scelta di rinuncia e nella fedeltà alla vita arborea:
Cosimo era sull’elce. I rami si sbracciavano, alti ponti sopra la terra. Tirava un lieve vento; c’era sole. Il sole era tra le foglie, e noi per vedere Cosimo dovevamo farci schermo con la mano. Cosimo guardava il mondo dall’albero: ogni cosa, vista di lassù, era diversa, e questo era già un divertimento (BR, p. 100).
Ben presto, come si è detto, quella di salire sugli alberi e non scenderne più diviene dunque per Cosimo una vera e propria scelta di vita: non una scelta di fuga dal mondo, perché, come racconta Calvino nella Nota 1960, questo personaggio non è un misantropo ma «un uomo continuamente dedito al bene del prossimo, inserito nel movimento dei suoi tempi, che vuole partecipare a ogni aspetto della vita attiva» (RR I, p. 1214).
«Sempre però sapendo che per essere con gli altri veramente, la sola via era d’essere separato dagli altri, d’imporre a sé e agli altri quella sua scomoda singolarità e solitudine […], così come è vocazione del poeta, dell’esploratore, del rivoluzionario» (RR, I, p. 1214).
Insomma, il ragazzo diventa un solitario che non sfuggiva la gente. Anzi, si sarebbe detto che solo la gente gli stesse a cuore (RR I, p. 614).
4.12 Allegoria del disimpegno?
Il valore simbolico della scelta stravagante del barone è molteplice: «innanzitutto, vale come presa di distanza dall’ambiente familiare, come affermazione di indipendenza e ribellione istintiva allo stato presente delle cose» (BARENGHI 2009, p. 37). Inoltre, la scelta di vivere sugli alberi e il rifiuto di scendere servono al protagonista per autoaffermarsi attraverso la rinuncia a qualcosa.
In questo periodo, anche Calvino matura una scelta importante: il distacco dalla politica, che avviene nell’agosto del 1957, quando lo scrittore lascia ufficialmente il Partito comunista italiano, in cui militava, per un totale dissenso riguardo alla posizione assunta da Togliatti in merito all’intervento sovietico in Ungheria.
Nel Barone, in effetti, molti aspetti della storia sono la trasposizione fantastica di vicende dell’attualità: soprattutto, come si è detto, «la decisione del protagonista di salire sugli alberi e di non scendere mai più rappresenta una scelta di solitudine […], che senza dubbio trae origine dal profondo disagio dello scrittore verso la politica attiva» (BARENGHI 2009, p. 35).
Però, la valenza della scelta di Cosimo non è univoca: infatti, quando Calvino scriverà – con l’anagramma Tonio Cavilla – la prefazione all’edizione scolastica del 1965 del romanzo, si chiederà se esso «sia davvero un’allegoria del disimpegno, o non (al contrario) dell’impegno» (BARENGHI 2009, p. 34).
Il Barone è peraltro l’unico degli Antenati a rappresentare l’intera vita di un personaggio, dall’infanzia alla morte: man mano che cresce, Cosimo entra in contatto con il pensiero illuminista, partecipa alla Rivoluzione francese mettendosi alla guida dell’insurrezione di Ombrosa, assiste – ormai vecchio e malato – all’esaurirsi dell’impeto rivoluzionario e all’avvento dell’epoca buia della Restaurazione (BARENGHI 2009, p. 38).
4.13 Viola, moderna Angelica
Inoltre, Cosimo si innamora di Viola, «forse la più memorabile figura femminile concepita da Calvino, [che] personifica l’“alterità” femminile, oggetto di desiderio», una sorta di Angelica moderna (BARENGHI 2009, p. 38).
Questo amore non raggiunge il pieno compimento, perché in fondo i due personaggi sono incompatibili e le loro visioni della vita sono inconciliabili: L’ostinazione amorosa di Viola s’incontrava con quella di Cosimo, e talora si scontrava (RR I, p. 715), in un continuo, furioso inseguimento, che porta Cosimo alla pazzia.
Cosimo restò per lungo tempo a vagabondare per i boschi, piangendo, lacero, rifiutando il cibo. […] Poi venne il tempo della violenza distruggitrice: ogni albero, cominciava dalla vetta e, via una foglia via l’altra, rapidissimo lo riduceva bruco come d’inverno […]. Poi risaliva in cima e tutti i ramoscelli li spezzava finché non lasciava che le grosse travature, risaliva ancora, e con un temperino cominciava a staccare la corteccia, e si vedevano le piante scorticate scoprire il bianco con rabbrividente aria ferita. E in tutto questo rovello, non c’era più risentimento contro Viola, ma soltanto rimorso per averla perduta […]. Per alcune settimane si tenne nel bosco, solo come non era mai stato […]. Quando mio fratello tornò a mostrarsi a Ombrosa, era cambiato. Neanch’io potevo farmi illusioni: stavolta Cosimo era proprio diventato matto (RR I, p. 733).
4.14 La recensione di Pavese, un oroscopo preso alla lettera
Il sapore ariostesco nella scrittura di Calvino l’aveva già ravvisato Cesare Pavese nella recensione al Sentiero dei nidi di ragno del 26 ottobre 1947 sull’Unità.
«L’astuzia di Calvino, scoiattolo della penna, è stata questa, di arrampicarsi sulle piante, più per gioco che per paura, e osservare la vita partigiana come una favola di bosco, clamorosa, variopinta, “diversa”. […] C’è qui dentro un sapore ariostesco. Ma l’Ariosto dei nostri tempi si chiama Stevenson, Kipling, Dickens, Nievo, e si traveste volentieri da ragazzo. Quello schietto e geloso abbandono all’incalzare di eventi e catastrofi […], quella schietta e complicata ingenuità dei poemi, può ritrovarsi ai giorni nostri solamente dentro un cuore di fanciullo» (PAVESE 1947).
Questa recensione avrà il valore di un oroscopo per il giovane scrittore, come egli stesso scriverà nella Prefazione del 1964 al Sentiero (CALVINO 1964, p. 18); è come se, dieci anni dopo, Calvino avesse deciso di prendere Pavese alla lettera, «scrivendo il suo romanzo maggiore su un bambino che si fa scoiattolo, s’arrampica sulle piante e non ne scende mai più» (SERRA 2006, p. 171). Anche in questo caso, dunque, dapprima c’è l’immagine e poi il racconto.
4.15 Il mondo di Cosimo e la letteratura
Nell’intrico dei rami degli alberi su cui ormai vive il barone, Calvino rappresenta per analogia l’intreccio dei segni grafici, come un testo sulla pagina bianca: quindi, «il mondo dove vive Cosimo rappresenta metaforicamente la letteratura e la posizione eccentrica dello scrittore rispetto alla società» (ZANGRANDI 2012, p. 10). Questo è in particolare evidente nella conclusione del romanzo, quando il protagonista, ormai vecchio e malato, scompare su una mongolfiera.
Si suppose che il vecchio morente fosse sparito mentre volava in mezzo al golfo. Così scomparve Cosimo, e non ci diede neppure la soddisfazione di vederlo tornare sulla terra da morto. Nella tomba di famiglia c’è una stele che lo ricorda con scritto: “Cosimo Piovasco di Rondò – Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo” (RR I, p. 776).
Chi rimane invece sulla terra – come il nipote di Medardo nel Visconte – è il giovane narratore Biagio:
Ogni tanto scrivendo m’interrompo e vado alla finestra. […] Ombrosa non c’è più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è esistita. Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni […], minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello […], era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole ed è finito (BR, pp. 303-304).
5. Il Cavaliere inesistente, l’ultimo antenato
5.1 I Racconti del 1958: uno spartiacque
La pubblicazione del Cavaliere inesistente, il terzo degli Antenati, avviene nel 1959, due anni dopo quella del Barone rampante. Nel mezzo c’è l’uscita dei Racconti, nel 1958.
A seguito del grande successo di pubblico del secondo romanzo araldico, «che lanciava e canonizzava lo scrittore in modo definitivo» (SERRA 2006, p. 110), Einaudi commissiona a Calvino una raccolta organica della sua produzione narrativa breve fin dagli esordi, da pubblicare nei Supercoralli. Il volume «avrà l’onore del titolo generico, come si concede di solito agli autori che abbiano dietro di sé una carriera ben consolidata e riconoscibile» (SERRA 2006, p. 110). Il 1958 segna quindi uno spartiacque nella carriera di Calvino, che da quel momento inizia a considerarsi uno scrittore professionista.
La raccolta è suddivisa in 4 sezioni: nei titoli compare sempre l’aggettivo “difficile”, che dà l’idea della fatica spesa da Calvino per dare organizzazione logica alla sua narrativa dei decenni precedenti. Permangono nel frattempo i dubbi dello scrittore intorno al successo del filone fiabesco e fantastico, che dal Visconte dimezzato passa attraverso le Fiabe italiane e giunge a compimento con il Barone, dimostrandosi di fatto, nonostante tutti i suoi sforzi, la strada maestra della sua scrittura.
5.2 Il dimidiamento tra realismo e fiaba
Calvino decide di dare una strutturazione ternaria alla quarta parte dei Racconti, la Vita difficile, in cui inserisce, dopo molti dubbi, La formica argentina, La speculazione edilizia e La nuvola di smog. Questa triade di racconti realistici appare poco prima della raccolta degli Antenati, ultimata nel 1959 con il Cavaliere inesistente.
La trilogia realistica però è quasi un’ombra rispetto a quella araldica: i tre racconti della Vita difficile infatti sono dominati dal grigiore del cemento e dello smog, da protagonisti scontenti in lotta con se stessi, da una difficoltosa forma ibrida tra racconto lungo e romanzo breve (SERRA 2006, pp. 126-127). In particolare, il travaglio di Calvino riguarda la Giornata d’uno scrutatore, che inizialmente aveva inserito nella Vita difficile. Dopo l’uscita dei Nostri Antenati, lavora però a una sua pubblicazione autonoma, che avviene nel 1963. Molti la considerano come il sigillo conclusivo della sua produzione d’impronta realistica, che doveva fare da contrappeso alla leggerezza dei racconti fiabeschi.
5.3 Il viaggio a New York e il distacco da Einaudi
«Per disincantare lo scrittore da quest’eterno dimidiamento [tra fiaba e realismo] ci vorrà infine una partenza, che lo porti lontano dall’Italia e dalla sua cronaca» (SERRA 2006, p. 127). Subito dopo la pubblicazione del Cavaliere inesistente, Calvino infatti parte per un viaggio di sei mesi negli Stati Uniti.
L’incontro con New York lo segna particolarmente, tanto da portarlo a progettare la pubblicazione di un libro a partire dai reportage che periodicamente inviava all’Einaudi. Un ottimista in America doveva esserne il titolo: «Quasi a voler tenere unite la città del lavoro collettivo ch’era stata Torino e quella individualista per definizione che lo stava conquistando a un’altra vita» (SERRA 2006, pp. 29-30). Il volume fu però ritirato già in bozze nel 1962.
Sono gli anni di pausa creativa che fanno seguito all’uscita del Cavaliere inesistente, durante i quali Calvino inizia a proiettarsi in una dimensione internazionale e in un altro modo di fare letteratura.
A partire dal 30 giugno 1961, lo scrittore smette infatti di lavorare da Einaudi a tempo pieno per diventare un consulente della casa editrice: «un passo decisivo per chi non aveva mai davvero scelto di “fare lo scrittore”» (SERRA 2006, p. 28). Dopo il viaggio negli U.S.A., come si è detto, Calvino si trasferisce a Roma: è il 1964. Tre anni dopo si sposterà a Parigi, dove rimarrà per tutti gli anni Settanta.
5.4 Un eremita a Parigi: da Vittorini a Queneau
Nel libro omonimo del 1974, Calvino si definisce un Eremita a Parigi:
«Facendo lo scrittore una parte del mio lavoro la posso svolgere in solitudine, non importa dove, in una casa isolata in mezzo alla campagna, o in un’isola, e questa casa di campagna io ce l’ho nel bel mezzo di Parigi» (RR III, p. 105).
Un po’ come Cosimo, Calvino sceglie di ritirarsi in una sorta di isolamento cosmopolita, nella villetta di Square de Châtillon.
In questi anni vedono la luce la Prefazione al Sentiero e le Cosmicomiche: «dopo il 1963 niente di quello che Calvino ha scritto sarà più lontanamente definibile come un romanzo in senso proprio» (SERRA 2006, p. 154). Il Cavaliere inesistente si pone appunto come anello di congiunzione tra Marcovaldo e Qfwfq, il protagonista delle Cosmicomiche.
Inoltre, nel 1966 muore Elio Vittorini, che – soprattutto dopo la perdita di Pavese – era diventato per lo scrittore un punto di riferimento importante, «indissociabile dal senso di comunità operativa e culturale che la casa editrice Einaudi» aveva rappresentato (SERRA 2006, p. 304).
Il 1967 è in effetti anche l’anno in cui Calvino elegge un nuovo padre putativo: Raymond Queneau, animatore a Parigi dell’Ouvroir de littérature potentielle (Oulipo). Calvino traduce i suoi Fiori blu nel 1967 e diviene membro dell’Oulipo nel 1973. La frequentazione assidua dell’Ouvroir negli anni parigini è molto importante per le opere degli anni Settanta: Il Castello dei destini incrociati, Le Città invisibili, Se una Notte d’inverno un viaggiatore
«vanno tutte e tre in qualche modo lette sotto il segno oulipiano […]. L’idea cardine dell’Oulipo, che la letteratura trovasse la sua maggiore libertà nella regola, lo invitata a nozze […] per dare licenza ad antiche [sue] peculiarità, rimotivandole all’interno di una nuova spinta collettiva: prima fra tutte la ricerca di un a priori che giustifichi e modelli la scrittura» (SERRA 2006, p. 308).
5.5 La trilogia: un congegno votato al potenziale
L’idea di motivare la scrittura entro una forma seriale aveva però già preso corpo negli anni precedenti: infatti, come si è già detto nella SECONDA PARTE, nel 1960, un anno dopo l’uscita del Cavaliere inesistente, i tre racconti araldici vengono raccolti da Calvino nella trilogia degli Antenati. Anche in questo caso, l’organizzazione ternaria sembra agire come un principio di costrizione, che libera la scrittura dandole forma. Senz’altro anche questa scelta deriva il suo input fondamentale dalle Fiabe italiane:
«Nella sua opera Calvino pensa sempre al numero tre per dare senso e conclusione a ciò che da solo per qualche motivo gli pare zoppicare […]. E delle tante trilogie pensate, progettate, travestite o accantonate solo questa rimane in piedi», la trilogia degli Antenati (SERRA 2006, p. 156).
La genesi del Cavaliere inesistente è quasi una tappa obbligata in vista del completamento del ciclo. La triade è quindi anzitutto un congegno vuoto da riempire: «la serie come massima forma di virtualità creativa […]. Insomma un congegno votato al potenziale» (SERRA 2006, p. 157).
Siamo agli inizi degli anni Sessanta, che per Calvino sono contrassegnati da un forte sperimentalismo. Nel 1959, rispondendo all’inchiesta Che cosa stanno preparando i nostri scrittori, infatti spiega: «Se scriverò qualcosa adesso ci sarà una tensione verso il futuro, verso l’indecifrabile domani nascosto nel guscio dell’oggi» (Italia domani, 15 marzo 1959; RR, I, p. 1361). E proprio con un’apostrofe al domani si chiude il Cavaliere inesistente:
Dal raccontare al passato, e dal presente che mi prendeva la mano […], ecco, o futuro, sono salita in sella al tuo cavallo. Quali nuovi stendardi mi levi incontro dai pennoni delle torri di città non ancora fondate? Quali fumi di devastazioni dai castelli e dai giardini che amavo? Quali impreviste età dell’oro prepari, tu malpadroneggiato, tu foriero di tesori pagati a caro prezzo, tu mio regno da conquistare, futuro... (CI, p. 126).
5.6 Dall’uomo inesistente all’uomo artificiale
Se la chiusa dell’ultimo antenato volge dunque lo sguardo al futuro, all’inizio invece c’è – anche in questo caso – un’immagine: «un’armatura che cammina e dentro è vuota» (RR I, p. 419). Calvino spiega come da questa visione si sia sviluppato «Agilulfo, il guerriero che non esiste, [che prende] i lineamenti psicologici d’un tipo umano molto diffuso in tutti gli ambienti della nostra società» (RR I, p. 419). Lo scrittore sottolinea infatti che la scelta di ambientare la storia del cavaliere inesistente fra i paladini di Carlo Magno, nel Medioevo fantastico dei poemi cavallereschi, non elimina il suo sapore moderno.
«Quando sarebbe stato possibile dar vita ad Agilulfo, […] se non oggi, nel cuore della più astratta civiltà di massa, in cui la persona umana tanto spesso appare cancellata dietro lo schermo delle funzioni […], dei comportamenti prestabiliti? Chi più simile a un guerriero chiuso nella sua armatura, delle migliaia di uomini chiusi e invisibili nelle proprie automobili che ci sfilano ininterrottamente sotto gli occhi?» (CI, p. vi).
La sparizione del corpo (dimezzato nel Visconte, in bilico tra presenza e assenza nel Barone) è completa nel Cavaliere, inesistente appunto, e ha delle conseguenze sulla stessa concezione del racconto.
«Il Cavaliere rappresenta davvero il libro che compie la trilogia, non soltanto perché è l’ultimo, ma soprattutto perché mette in scena il tipo stesso di narrazione su cui la trilogia si fonda. L’armatura vuota e bianca che va a spasso […] è l’immagine stessa del romanzo che senza contenitore non c’è […]. La sparizione del corpo in carne e ossa del personaggio equivale alla sparizione del vero romanzo realista degli anni Cinquanta, che avrebbe dovuto contenerlo» (SERRA 2006, p. 193).
5.7 Agilulfo/Gurdulù e la vertigine della perdita di sé
Dall’immagine di Agilulfo, Calvino ricava poi «con un procedimento di contrapposizione logica (cioè partendo dall’idea per arrivare all’immagine […]), la formula esistenza priva di coscienza», e crea lo scudiero Gurdulù (RR I, p. 419). Come Don Chisciotte, Agilulfo è caratterizzato da un idealismo ascetico e anacronistico; Gurdulù è il suo Sancho Panza.
«Il suo compito è quello di far vedere cosa succederebbe se un giorno all’alba Agilulfo […] si lasciasse andare, mescolandosi al tutto e al niente. […] Agilulfo e Gurdulù stanno agli estremi di una stessa corda, tesa sulla vertigine della perdita di sé» (SERRA 2006, p. 189). Ma questa antinomia non poteva sviluppare una storia: era solo «l’enunciazione del tema, che doveva essere svolto da altri personaggi in cui l’esserci e il non esserci lottassero all’interno della stessa persona»: che fossero dunque connotati da una instabilità inquieta in grado di provocarne il mutamento (Nota 1960, RR I, p. 419).
5.8 Il giovane in bilico tra “roba sempre più ammaccata
Il sistema dei personaggi si complica quindi, di pari passo con l’accrescersi della problematicità dell’intreccio. In primis Calvino inserisce la coppia Rambaldo/Torrismondo, entrambi giovani, come i narratori dei primi due Antenati (e del Sentiero):
«Chi non sa ancora se c’è o non c’è, è il giovane; quindi un giovane doveva essere il vero protagonista di questa storia. Rambaldo […] cerca le prove d’esserci, come tutti i giovani fanno. […] Mi serviva un altro giovane, Torrismondo, e ne feci la morale dell’assoluto» (Nota 1960, RR I, p. 419).
Proprio Rambaldo e Torrismondo colgono l’assurdità della situazione di stallo che caratterizza la guerra inutile e senza fine tra i paladini di Carlo Magno e i Saraceni; i due giovani devono misurarsi con la difficoltà di trovare un orientamento, con la distanza fra il proprio ideale e la realtà della storia:
«Nel Cavaliere la vita collettiva viene fatta coincidere con una sorta di caos ben radicato, programmato e coltivato accuratamente da chi detiene il potere […]. La guerra senza tempo […] che si combatte tra Cristiani e Infedeli assurge a simbolo negativo dell’intera storia umana, vista come un passarsi di mano in mano “roba sempre più ammaccata”» (MILANINI 1990, p. 52).
5.9 “L’armatura li reggeva impettiti in sella”
L’attacco del capitolo 1 è una dimostrazione esemplare dell’accresciuto pessimismo dello scrittore, che ha ormai abbandonato la militanza politica e si sta lasciando alle spalle anche l’esperienza del lavoro collettivo all’Einaudi. Il romanzo si apre sull’immagine dell’esercito schierato sotto le rosse mura di Parigi per attendere l’arrivo di Carlo Magno:
Nelle armature si bolliva come in pentole tenute a fuoco lento. Non è detto che qualcuno in quell’immobile fila di cavalieri non avesse già perso i sensi o non si fosse assopito, ma l’armatura li reggeva impettiti in sella tutti a un modo (CI, p. 3).
Finalmente il re arriva: Lo scorsero che avanzava, laggiù in fondo […]. Regna e guerreggia, guerreggia e regna, dài e dài, pareva un po’ invecchiato, dall’ultima volta che l’avevano visto quei guerrieri (CI, p. 3). I paladini e Carlomagno che li passa in rassegna sono cancellati dietro lo schermo delle funzioni e dei comportamenti prestabiliti.
– Ecchissiete vòi, paladino di Francia? – ripeteva [Carlomagno], sempre con la stessa cadenza: “Tàtta-tatatài tàta-tàta-tatàta…”. […] Ogni parola, ogni gesto era prevedibile ormai, e così tutto in quella guerra durata da tanti anni, ogni scontro, ogni duello, condotto sempre secondo quelle regole, cosicché si sapeva già oggi per domani chi avrebbe vinto, chi perso (CI, p. 3).
5.10 L’incontro con Agilulfo
Ma qualcosa di inaspettato attende il vecchio re: l’incontro con Agilulfo, il cavaliere che non esiste.
Il re era giunto di fronte a un’armatura tutta bianca; solo una righina nera correva torno torno ai bordi; per il resto era candida, ben tenuta, senza un graffio, ben rifinita in ogni giunto, sormontata sull’elmo da un pennacchio (CI, p. 5).
Poi la mise en abyme dello stemma rivela la particolare presenza del cavaliere senza corpo.
L’elmo era vuoto. Nell’armatura bianca dall’iridescente cimiero non c’era dentro nessuno. “Mah! Mah! Quante se ne vedono! – fece Carlomagno. – E com’è che fate a prestar servizio, se non ci siete?”. “Con la forza di volontà, – disse Agilulfo – e la fede nella nostra santa causa!” “E già, e già, ben detto, è così che si fa il proprio dovere. Be’, per essere uno che non esiste, siete in gamba!” (CI, p. 8).
Poi Carlo Magno si allontana impensierito e il cavaliere a sua volta si addentra nell’accampamento, cercando di trovarsi un ruolo impartendo ordini e facendo rispettare le regole, ma rimanendo sostanzialmente incapace di entrare in rapporto con gli altri (CI, p. 8).
5.11 Qfwfq: l’antenato degli antenati
Agilulfo ci mette di fronte alla letterale dissoluzione del protagonista: «il morbo d’evanescenza che colpisce il personaggio» (SERRA 2006, pp. 159-160) ci conduce a un passo dalle Cosmicomiche. Nel giugno 1966 Calvino infatti le definirà «un libro postumo a una certa idea della letteratura – a una certa pretesa della letteratura – sulla quale non c’era più modo d’andare avanti» (Lettera a Sebastiano Addamo del 23 giugno 1966; SERRA 2006, p. 280).
Si tratta anche di un’elaborazione del lutto per la perdita dell’esperienza della Resistenza, che lo scrittore comincia a metabolizzare con la Prefazione del 1964 al Sentiero (cfr. SECONDA PARTE), in cui il procedimento compositivo è quello delle Cosmicomiche e del più tardo Se una notte d’inverno un viaggiatore: ogni paragrafo infatti è l’inizio di un discorso critico poi interrotto (SERRA 2006, p. 280). Ma Le Cosmicomiche non avrebbero potuto avere origine se non dall’inesistenza del cavaliere.
Infatti Qfwfq, il «protagonista unico e indiscusso dell’opera di Calvino negli anni Sessanta, è prima di tutto una voce […]. In rigorosa coerenza con quanto era rimasto del personaggio negli anni Cinquanta: cioè nulla, se non una voce metallica che usciva da un’armatura disabitata» (SERRA 2006, p. 277). Così Qfwfq «è l’antenato degli antenati», il proto-personaggio che «non è scomparso nel nulla, ma tutt’al più attende nel nulla di apparire, è un essere continuamente in potenza» (SERRA 2006, pp. 275-278).
5.12 Un caso esemplare di letteratura di secondo grado
Il Cavaliere inesistente ha anche un carattere metanarrativo più profondo rispetto al Visconte e al Barone ed è il romanzo più iperletterario della trilogia araldica. Non a caso, Calvino insiste sul fatto che «non è un libro per ragazzi» (Lettera a Mario Muchnick dell’11 giugno 1964; SERRA 2006, p. 194) e, in una lettera a Piero Gelli del 14 luglio 1984, sconsiglia Einaudi dal pubblicarlo in quella veste (SERRA 2006, p. 194), salvo poi cambiare idea poco più tardi, quando rivedrà personalmente le bozze dell’edizione scolastica curata da Claudio Milanini e pubblicata con Garzanti nel 1986 (CALVINO 1986).
L’ambientazione nel Medioevo fantastico dei paladini di Carlo Magno è quella tipica del poema cavalleresco rinascimentale. Siamo quindi davanti a un «caso esemplare di letteratura di secondo grado […], costruita cioè con grande ricorso a materiali preesistenti» (BARENGHI 2009, p. 51): sicuramente ad Ariosto, ma anche a Boiardo e alla tradizione dei cantari cavallereschi. In una lettera datata maggio 1965 a una studentessa, autrice di una tesi su Ariosto e Calvino, lo scrittore osserva:
«Volendo raccontare della storia di un’armatura vuota, era del tutto naturale che mi servissi del décor convenzionale del ciclo carolingio. Per la letteratura italiana l’epopea cavalleresca carolingia è quello che il western è per gli americani […]. Quindi la scelta di un’ambientazione così tradizionale non può esser detta di per sé “ariostesca”» (Lettere, p. 869).
Secondo Gérard Genette, «le climat d’ensemble serait plutôt celui d’un travestissement moderne […] non d’une œuvre singulière, mais du roman chevaleresque en général» (GENETTE 1982, p. 275; trad. it.: l’atmosfera d’insieme sarebbe piuttosto quella di un travestimento moderno non di una singola opera, ma del romanzo cavalleresco in generale).
Semmai, il sapore ariostesco, di cui già parlava Pavese, è da ricercare – come in altre opere di Calvino – nelle pieghe della narrazione, soprattutto a partire da metà del libro, nel capitolo 7, quando tutti i personaggi partono, lasciando il grosso dell’esercito di Carlo Magno per una propria ricerca individuale:
«Agilulfo deve accertare l’autenticità dell’impresa a cui deve il titolo di cavaliere, cioè il salvataggio […] d’una vergine di nome Sofronia che invece Torrismondo presume (a torto) essere sua madre. Bradamante cerca di inseguire Agilulfo, inseguita a sua volta da Rambaldo, mentre Torrismondo parte alla ricerca dei cavalieri del Gral, di uno dei quali è legittimo discendente» (BARENGHI 2009, p. 54).
5.13 Suor Teodora/Bradamante: una giravolta narrativa
Qui si innesta l’altro elemento determinante del libro: il carattere metanarrativo a cui abbiamo già accennato. Se il Visconte e il Barone (come già il Sentiero) avevano per narratore un giovane e adottavano un punto di vista di scorcio, la soluzione del Cavaliere è diversa: fino al capitolo 4, il racconto è «oggettivo e diretto, condotto da una sconosciuta terza persona. […] Ma al momento di mettere in moto la trama», lo scrittore sente il bisogno di identificare il narratore con un personaggio coinvolto nei fatti. «La scelta cade su una monaca, tale Suor Teodora, che […] sbuca fuori dal nulla» (SERRA 2006, pp. 189-190). Forse anche per rispondere alle critiche per questo espediente troppo meccanico, nella Nota 1960 Calvino dice:
«Mi accorgevo, andando avanti, come tutti i personaggi del racconto s’assomigliassero, mossi com’erano dalla stessa trepidazione, e anche la monaca, la penna d’oca, la mia stilografica, io stesso, tutti eravamo la stessa persona […]. Come succede al narratore […], che tutto ciò che pensa gli si trasforma in quel che fa – cioè in racconto -, tradussi quest’idea in un’ultima giravolta narrativa. Cioè feci della monaca narratrice e della guerriera Bradamante la stessa persona» (RR I, 1218-1219).
Così, oltre a risultare appunto accentuato il carattere metanarrativo del racconto, viene portata in primo piano l’oscillazione fra esperienza della vita e scrittura, che era insita fin dagli esordi nella ricerca espressiva di Calvino.
5.14 Il dualismo del narratore (e dello scrittore)
Il personaggio della guerriera Bradamante e della monaca Teodora agisce sdoppiato lungo tutto il filo della narrazione, riprendendo quell’idea del dimidiamento che era già del Visconte. Solo nell’ultimo capitolo il lettore ricostruisce l’unità del personaggio narrante.
Come nota Starobinski, peraltro, «suor Teodora è la figura alla quale Calvino ha delegato (per oggettivarla e per liberarsene) la propria parte di scrittore» (RR I, p. xvii). Nel caso del Cavaliere, dunque, alla costruzione del sistema di personaggi per antinomie contrapposte, tipica dei primi due Antenati, si sostituisce un dualismo che è soprattutto «interno ai singoli» (MILANINI 1990, p. 58), soggetto a un continuo processo di diffrazione, che investe in primis il narratore e, attraverso il suo punto di vista, anche la materia narrata.
Proprio a Suor Teodora sono demandate, a partire dal capitolo 4, una serie di riflessioni che toccano temi centrali per Calvino: «il nesso tra percezione sensibile e immaginazione, […] le difficoltà dello scrivere e la povertà della scrittura rispetto all’esistenza reale […], l’affinità tra costruzione di un intreccio e disegno di una mappa […], fino all’aspirazione a mutare la carta su cui si sta scrivendo nella materia stessa di cui si parla» (BARENGHI 2009, pp. 52-53). Scrive Suor Teodora:
Per raccontare come vorrei, bisognerebbe che questa pagina bianca divenisse irta di rupi rossicce, si sfaldasse in una sabbietta spessa, ciottolosa […]. Ogni cosa si muove sulla liscia pagina senza che nulla cambi sulla sua superficie, come in fondo tutto si muove e nulla cambia nella rugosa crosta del mondo, perché c’è solo una distesa della medesima materia, proprio come il foglio su cui scrivo (CI, p. 95).
5.15 Mondo scritto e mondo non scritto: dove finisce la scrittura
Soltanto a partire dalla conclusione è possibile percorrere a ritroso la storia di Suor Teodora/Bradamante, e ricostruire la dicotomia fra il mondo non scritto e la sua rappresentazione nella scrittura:
«Io credo nell’esistenza di un mondo non scritto e che la letteratura viva nella sfida di questo non scritto con cui deve continuamente misurarsi, cercando di raggiungerlo, di catturarlo, in una caccia, in un inseguimento che non avrà mai fine» (CALVINO 2002).
Perché la fine dell’inseguimento determina anche la fine del racconto. Suor Teodora, infatti, nella chiusa del romanzo, si congeda dal libro e lo abbandona per fuggire con il suo Rambaldo, il contrappeso appassionato dell’impassibile Agilulfo; proprio a lui il cavaliere inesistente lascia in eredità la sua armatura prima di dissolversi dal racconto, che «termina quando vien meno lo scarto tra l’attività della scrittura e la “vita reale”» (RR I, p. xvii). La storia finisce quando Bradamante e Suor Teodora sono tornate ad essere una sola persona agli occhi dello scrittore e del lettore.
Sì, libro. Suor Teodora che narrava questa storia e la guerriera Bradamante siamo la stessa donna. Un po’ galoppo per i campi da guerra tra duelli e amori, un po’ mi chiudo nei conventi, meditando e vergando le storie occorsemi, per cercare di capirle. […] Ora ardo per il giovane e appassionato Rambaldo. Per questo la mia penna s’era messa a correre. Incontro a lui, correva; sapeva che non avrebbe tardato ad arrivare. La pagina ha il suo bene solo quando la volti e c’è la vita dietro che la spinge e scompiglia tutti i fogli del libro (CI, pp. 124-125).
BIBLIOGRAFIA
In tutte le sezioni di questo contributo l’edizione di riferimento delle opere di Calvino è citata con le seguenti abbreviazioni:
- RR = Italo Calvino, Romanzi e racconti, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, 3 voll., Milano, Mondadori, 1991-1994.
- Saggi = Italo Calvino, Saggi, Milano, Mondadori, 1995.
- Lettere = Italo Calvino, Lettere 1940-1985, Milano, Mondadori, 2000.
- BARENGHI 2009 = Mario Barenghi, Calvino, Bologna, Il Mulino, 2009.
- BR = Italo Calvino, Il Barone rampante, Milano, Mondadori, 2007 (1a ed.: Torino, Einaudi, 1957; 1a ed. scolastica: Torino, Einaudi, 1965; 2a ed. scolastica: Torino, Einaudi Scuola, 2000, a c. di Claudio Milanini).
- CALVINO 1956 = Italo Calvino, Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare e trascritte dai vari dialetti da Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1956, 2 voll.
- CALVINO 1964 = Italo Calvino, Il Sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964 (1a ed. 1947).
- CALVINO 1980 = Italo Calvino, Una Pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980 (poi Milano, Mondadori, 1995).
- CALVINO 1986 = Il Cavaliere inesistente. Presentazione, note ed esercizi a cura di Claudio Milanini, Milano, Garzanti, 1992 (1a ed.: Milano, Garzanti, 1986).
- CALVINO 2002 = Italo Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, Milano, Mondadori, 2002.
- CI = Italo Calvino, Il Cavaliere inesistente, Milano, Mondadori, 2007 (1a ed.: Torino, Einaudi, 1959).
- GENETTE 1982 = Gérard Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris, Seuil, 1982.
- MILANINI 1990 = Claudio Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, Milano, Garzanti, 1990.
- PAVESE 1947 = Cesare Pavese, recensione a Il Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1947, L’Unità, 26 ottobre 1947.
- SERRA 2006 = Francesca Serra, Calvino, Roma, Salerno, 2006.
- ZANGRANDI 2012 = Silvia Zangrandi, Segni visivi e percorsi linguistici in I nostri antenati di Italo Calvino, in Sinestesie, 8, 2012, pp. 1-14.
Fine della Terza Parte.
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Autore: Serena Lunardi
Revisione e cura: Alessandro Ardigò, Arianna Sardella
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