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Gli “Antenati” di Italo Calvino: spunti per una pedagogia dell’immaginazione (QUARTA PARTE)

6. Ecchissiamo noi? Ritorno al punto di partenza
6.1 Metafora e immaginazione
Il cavaliere inesistente si è dissolto; Suor Teodora e Bradamante sono tornate a essere una sola persona: il racconto dei nostri Antenati è finito (cfr. TERZA PARTE). Potremmo seguire lo scrittore a Parigi, e Qfwfq – il protagonista delle Cosmicomiche – nelle sue avventure, ma ora è tempo di tornare al punto di partenza e di chiederci prima di tutto come proporre a scuola la lettura della trilogia araldica. L’itinerario compiuto da Calvino in questo suo “laboratorio”  evidenzia che abbiamo a che fare con un caso complesso (ovviamente non avremmo ricavato un’impressione molto diversa se avessimo sottoposto alla stessa attenzione altri grandi classici della nostra letteratura come Dante, Ariosto o Leopardi…).

Il primo spunto in questo senso viene da Calvino stesso. Nelle sue chiose ai tre romanzi, spesso lo scrittore sottolinea che è l’immagine a dare l’avvio al racconto. Per proporne a scuola la lettura, si potrebbe partire da qui: dallo stare dentro la logica del racconto, e prima ancora dentro al significato letterale della metafora che ne è alla base.
Questo vuol dire prima di tutto immaginare la figura del visconte tagliato in due, quella del barone che sale sugli alberi e non scende più, infine l’armatura vuota che cammina. Nell’elaborazione di ciascuno dei tre romanzi, infatti, «il trucco consiste nel dare corpo alla figura e concretizzarla», nel prendere sul serio la metafora da cui si è originata e prolungarla (SERRA 2006, p. 158).

6.2 Metamorfosi, mito e letteralità del racconto
Secondo Francesca Serra, il procedimento narrativo che è alla base dell’elaborazione degli Antenati ha dei rapporti profondi con la narrazione mitica e ha il suo più illustre predecessore nelle Metamorfosi di Ovidio (SERRA 2006, p. 158).

Nella lezione americana sulla Leggerezza, Calvino insiste sull’importanza di attenersi al significato letterale del mito perché ogni interpretazione lo impoverisce e lo soffoca:

«Coi miti non bisogna aver fretta; è meglio […] fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini. La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori» (Saggi I, p. 632).

Anche nel caso degli Antenati, il significato letterale viene prima di qualsiasi interpretazione che esca dalla logica di autogenerazione del racconto: «Una volta stabilita l’immagine di partenza […], la trama si srotola in modo quasi autonomo e inevitabile, secondo un principio di sviluppo interno al racconto che risulta attivato dalla stessa logica di quell’immagine» (SERRA 2006, pp. 158-159).

6.3 Le immagini visivamente indimenticabili
Il rapporto tra sfera visiva e scrittura è del resto, come si è detto nella SECONDA PARTE, un tema portante della riflessione calviniana. Lo dimostra la lezione americana sulla Visibilità, nella quale lo scrittore spiega come da un’immagine mentale originaria si crei una rete di analogie che la parola scritta traduce, acquisendo via via più importanza rispetto alla visione da cui aveva tratto ispirazione all’inizio.

Suscitare un simile processo immaginativo in classe potrebbe essere quindi un modo interessante per entrare nell’universo narrativo degli Antenati senza fornire griglie interpretative preconfezionate. Sulla validità di questo approccio alla lettura, Calvino si sofferma anche nella prefazione all’edizione scolastica del Barone rampante del 1965:

«Il Barone rampante ha un’imprevedibile fratellanza con libri pieni di significato e di dottrina […] ma che i ragazzi fanno propri attraverso […] le immagini visivamente indimenticabili […]. L’Autore ci dice molte cose […] ma alla fine di essenziale resta solo l’immagine che egli ci ha proposto: l’uomo che vive sugli alberi» (CALVINO 1965, p. VI).

6.4 Il linguaggio di Calvino
Quasi naturalmente, l’attenzione si sposta dall’immagine al linguaggio: per Calvino, questo “spostamento” è implicito nello stesso procedimento di scrittura (cfr. SECONDA PARTE), ma qualcosa di analogo può avvenire anche grazie alla lettura di uno degli Antenati o dell’intera trilogia.

I percorsi didattici anche in questo caso possono essere molteplici: si può ragionare sul modo con cui lo scrittore usa le similitudini, sul rapporto fra senso letterale e figurato, sul lessico minuzioso, in cui è importantissima la modulazione dei sinonimi e degli antonimi. Soprattutto, bisogna prestare attenzione all’uso dell’aggettivo, «forse il miracolo supremo» della scrittura di Calvino (MENGALDO 1988, p. 219).

Potremmo allora riflettere su quanto la lettura contribuisca alla creazione di buone competenze linguistiche. Se consideriamo la nostra povertà di linguaggio, che non affligge solo gli studenti (basti sfogliare le pagine di un giornale o di un social network), risulta evidente che l’avvicinamento a un universo linguistico lussureggiante come quello di Calvino è un balsamo estremamente benefico, ma anche che rappresenta in certi casi un’impresa molto difficoltosa. Non vogliamo però addentrarci in un argomento tanto complesso, che necessita senza dubbio di una riflessione approfondita e merita uno studio a sé.

Preferiamo seguire una linea d’indagine diversa e ragionare sugli effetti benefici che la lettura di un classico (nel caso specifico, degli Antenati) può esercitare su un aspetto molto importante per la formazione dell’individuo: quello immaginativo.

Il segno linguistico infatti «rimanda a immagini che si collocano altrove rispetto alla pagina e cioè nello spazio mentale di ciascuno, uno spazio metaforico e invisibile» (ZANGRANDI 2012, p. 11). Proprio per questo leggere un classico a scuola è una sfida difficile: basti pensare alla realtà plurilingue delle classi, alla presenza di bisogni educativi speciali (che è sempre più la regola e non l’eccezione), ai tempi ristretti di una lezione, eccetera.

Talvolta la constatazione di questa complessità induce il docente a rinunciare alla lettura integrale dei libri in classe, soprattutto se non sono immediatamente attinenti all’esperienza reale e quotidiana degli studenti o al contesto storico che si sta studiando: a farne le spese è in primis il filone della letteratura fantastica, di cui gli Antenati sono una delle pietre miliari.

6.5 Ecchissiamo noi?
Stando a quanto osserva Calvino, l’antidoto alla rinuncia a leggere però esiste, e risiede proprio nella visibilità del racconto. L’immagine “visivamente indimenticabile” degli Antenati che abbiamo evocato all’inizio arriverebbe direttamente al punto essenziale, anche se non si potessero arrivare a comprendere con immediatezza il linguaggio del testo e le sue implicazioni di forme e significati. Secondo Milanini, infatti, Medardo, Cosimo e Agilulfo veicolano messaggi universali:

«Chi non si è mai sentito dimidiato, alienato e represso? Chi non ha mai amato un’imprendibile Viola? Chi non ha mai avuto l’impressione di comportarsi […] a mo’ di automa?» (MILANINI 1990, p. 60).

Se si attiva la capacità di “pensare per immagini”, allora anche la rete di significati connessa ai segni linguistici arriva al suo destinatario; e la domanda di Carlomagno ai paladini (Ecchissiete voi?) diventa il riflesso di una domanda che il testo rivolge a ciascun lettore: Ecchissiamo noi? (MILANINI 1990, p. 60).

Bisogna dunque procedere dall’immagine per giungere – in un secondo momento – alla lettura e poi all’interpretazione del testo: questo è il possibile percorso di lettura di cui stiamo ragionando, che facilmente si può prestare a una “didattica capovolta”, o (comunque lo si voglia definire) a un modo di leggere in classe che permetta agli studenti di andare per primi alla ricerca del campo di analogie e della rete di significati suscitati dall’immagine di partenza; magari anche con risultati fuorvianti, che possono poi diventare spunto per una riflessione più strutturata.

Il docente dovrebbe in sostanza rimanere un passo indietro, non guidare lo studente a un’interpretazione predefinita: dovrebbe semmai lasciare libero il campo al processo immaginativo e critico. Una griglia interpretativa preconcetta potrebbe agire come cortina fumogena anziché come guida alla lettura (cfr. PRIMA PARTE). Ovviamente, questo significa per il docente rinunciare, almeno in un primo momento, a fornire dettagli e chiavi interpretative importanti, quasi imprescindibili.

6.6 Rimanere un passo indietro
Del resto, secondo Calvino, il libro comincia la sua vera vita «nell’imprevedibile gioco d’interrogazioni e risposte suscitate nel lettore» (RR I, p. 1219). Lo scrittore riconosce quindi che la lettura è un’azione per sua natura dialogica.

Questo non significa però che egli non dia importanza all’interpretazione del testo da parte dei lettori: anzi, proprio da questa attenzione nasce la necessità dell’autoesegesi come ritorno critico sul già scritto. Nell’intervista agli studenti di Pesaro dell’11 maggio 1983 Calvino osserva di aver voluto scrivere il Visconte dimezzato per divertire se stesso e gli altri, ma aggiunge: «Bado a che una storia non finisca per essere interpretata in modo contrario a come la penso io» (PES, p. 9), affermando così l’importanza da attribuire al significato.

Con questo approccio, il docente può tirare le fila del discorso in un secondo momento, senza rinunciare a introdurre degli spunti interpretativi sulla base delle indicazioni dello scrittore o di studi critici significativi.

Il grado di approfondimento dell’analisi può variare a seconda delle classi, dell’età degli studenti, delle singole situazioni. Lo ricorda Claudio Giunta a proposito della didattica universitaria:

«È difficile che un pubblico variegato come quello che si trova nella stessa aula al primo anno di Lettere – ragazzi che hanno fatto bene il liceo e ragazzi che l’hanno fatto male, ragazzi con un’istruzione tecnica o professionale che quasi non hanno studiato le discipline umanistiche, ragazzi che sono nati in Africa o nei Balcani e che hanno difficoltà sia nella lettura sia nella scrittura – possa trarre profitto dalla medesima lezione» (GIUNTA 2017, p. 260).

E se questo è vero in un’aula universitaria, lo è ancora di più in una classe di scuola superiore o media. Mai dimenticare quindi gli aspetti pratici della didattica, che solo un docente nella specifica situazione è in grado di valutare.

6.7 Il privilegio del primo incontro col libro
Certamente, l’idea che l’insegnante debba rimanere un passo indietro non significa promuovere quella che Emanuele Zinato chiama una «didattica ludico-spontaneista», che anzi non condividiamo perché promuove «l’equiparazione della letteratura a ogni altra forma di intrattenimento» e vede lo studente «come cliente, lavoratore liquido o imprenditore di se stesso, atomo isolato in un un mondo concepito come shopping mall» (ZINATO 2018). In questo modo si finisce per fare della letteratura un surrogato di immagini prefabbricate, non certo uno stimolo a pensare criticamente.

Va tuttavia il più possibile preservato, per ogni lettore, il privilegio del “primo incontro” col libro perché, come dice Calvino, in gioventù

«l’incontro col mondo, e coi classici come parte del mondo, vale proprio in quanto primo incontro. […] La gioventù comunica alla lettura come a ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità si apprezzano […] molti dettagli e livelli di significato in più» (CALVINO 1981).

Proprio per questo le due letture, quella dello studente e quella del docente, non dovrebbero sovrapporsi fin da subito; ciò non toglie che, ad un certo punto, esse debbano necessariamente dialogare.

In qualche caso può essere uno studente a illuminare un passo di un libro che il docente conosce e crede di aver capito una volta per tutte. Questo può avvenire solo se non si dà per scontato il significato del testo, perché solo allora lo si può guardare da un nuovo punto di vista, come Cosimo guarda il mondo in un’ottica nuova una volta salito sugli alberi.

Il più delle volte però avviene il contrario: è il docente ad allontanare distorsioni e forzature del racconto, aiutando lo studente a costruire un’interpretazione coerente con la logica interna del testo e non “campata per aria”, anche mediante il ricorso alle letture che ci hanno preceduto, quindi alla bibliografia critica del caso o allo studio del contesto in cui il libro è stato scritto.

6.8 Un’interessante inversione di rotta
La fase dell’interpretazione del testo può essere ad esempio accompagnata da un ritorno mediato all’immagine iniziale seguendo un procedimento inverso rispetto a quello delineato sopra (dall’immagine visiva/mentale al testo scritto).

Immaginiamo, una volta letto uno dei romanzi (o l’intera trilogia), di tornare alla figura, o meglio al repertorio di figure che la parola scritta ha creato intorno a sé, all’iconografia degli Antenati, alla loro fortuna in ambito artistico, testimoniata dalle illustrazioni che corredano i capitoli di questo contributo (da Pablo Picasso a Paul Klee, da Emanuele Luzzati a Roger Olmos, eccetera).

Prendiamo ad esempio l’antenato meno semplice e (a detta di Calvino) anche meno adatto ai ragazzi: il Cavaliere inesistente. Nel 1971 il regista Pino Zac ne ha tratto un film a tecnica mista.

Il tentativo di Zac è ardito perché punta alla resa cinematografica dei contenuti di un romanzo che presenta, come si è detto nella TERZA PARTE, complesse interazioni tra diversi livelli di significato e una costante diffrazione del punto di vista. Mediante la tecnica mista, Zac utilizza da un lato personaggi in carne ed ossa, tutti peraltro interpretati da due attori soltanto, a segnalare la loro somiglianza, su cui insisteva lo stesso Calvino nella Nota del 1960; dall’altro, impiega l’animazione da cartone animato, quindi bidimensionale, in cui è molto importante anche la dimensione teatrale del palcoscenico (ARGIOLAS 2012, p. 8).

Nel film infatti i personaggi principali sono tutti rappresentati da attori. Fanno eccezione Gurdulù e Agilulfo. Il primo è un cartone animato, che tende a fondersi con lo scenario circostante perché non sa di esistere; il secondo è un automa, un’armatura vuota nel senso letterale del termine, gestita durante le riprese «tramite il ricorso all’animazione passo a uno (stop-motion o frame by frame)» (ARGIOLAS 2012, p. 8), che ha una forte valenza straniante ma rende benissimo l’immagine centrale del romanzo, quella da cui la storia ha avuto inizio.

Si tratta appunto di un tentativo sperimentale: decostruendolo in aula, si ha la possibilità di vedere i diversi espedienti narrativi utilizzati da Calvino per scrivere il romanzo e se ne identificano bene i piani di lettura senza alcun bisogno di ricorrere alla dissezione del testo.

6.9 Il futuro dell’immaginazione nella civiltà delle immagini
Impostando a partire da questi spunti la lettura degli Antenati, evidentemente si mette in primo piano il dialogo fra testo e immagine (mentale o concretamente visibile). Il tema del rapporto tra i due linguaggi è in effetti uno degli assi portanti della trilogia e anche una delle chiavi interpretative più agili in prospettiva didattica. Inoltre ha dei risvolti interessanti sul piano pedagogico.

Nella lezione sulla Visibilità, Calvino riflette a lungo sul “futuro dell’immaginazione individuale nella civiltà delle immagini” e si chiede:

«Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate?» (CALVINO 1993, p. 92).

Già nel 1985 lo scrittore presagiva uno scenario in cui la memoria visiva non sarebbe stata più limitata al patrimonio di esperienze dirette o a un repertorio d’immagini riflesse dalla cultura: infatti, diceva, «siamo bombardati da una tale quantità di immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto alla televisione» (CALVINO 1993, p. 92). Attualmente, potremmo aggiungere anche ciò che vediamo su Internet, su Instagram o su Facebook, canali che di fatto appartengono in maniera del tutto naturale all’orizzonte conoscitivo di un ragazzo di oggi e di chiunque di noi.

«La memoria è stata ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo» (CALVINO 1993, p. 92).

Poiché l’immaginazione per Calvino è legata in modo intrinseco al processo di conoscenza, a essere a rischio è anche la formazione del pensiero critico.

6.10 Un promemoria per il nuovo millennio
Da qui deriva, per lo scrittore, l’urgenza di proporre la visibilità fra i promemoria per il nuovo millennio, fra i «valori da salvare per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri neri su una pagina bianca, di pensare per immagini» (CALVINO 1993, p. 92). Ossia, di leggere la letteratura, perché il medesimo ragionamento si applica evidentemente alla Commedia di Dante o all’Infinito di Leopardi.

La povertà del linguaggio cui abbiamo accennato sopra è chiaramente correlata a un impoverimento di più vasta portata, che concerne anche (e forse prima di tutto) la capacità d’immaginazione e di pensiero. Calvino avverte infatti che l’immaginazione non è il luogo dell’evasione dal reale: è anzi «il repertorio […] dell’ipotetico, di ciò che non è stato né forse sarà ma avrebbe potuto essere»; dal suo punto di vista, «attingere a questo golfo della molteplicità potenziale [è] indispensabile per ogni forma di conoscenza» (CALVINO 1993, p. 92).

Senza immaginazione non si dà comprensione critica del mondo: infatti, «la mente del poeta e in qualche momento decisivo quella dello scienziato funzionano secondo un procedimento d’associazioni d’immagini che è il sistema più veloce di collegare tra le infinite forme del possibile e dell’impossibile» (CALVINO 1993, p. 93). Le Cosmicomiche ne sono una dimostrazione esemplare (e al contempo surreale). Nel 1985, lo scrittore auspicava quindi

«una possibile pedagogia dell’immaginazione che abitui a controllare la propria visione del mondo senza soffocarla e senza d’altra parte lasciarla cadere in un confuso, labile fantasticare, ma permettendo che si cristallizzi in una forma ben definita, […], “icastica”» (CALVINO 1993, p. 95).

Una pedagogia da esercitare solo su se stessi, beninteso, ma che si fonda anche sull’immaginario indiretto offerto dalla cultura e dalla letteratura.

6.11 “E se non fosse la buona battaglia?” Un dibattito aperto
Tuttavia, come abbiamo detto, è Calvino stesso a chiedersi se ancora «sarà possibile la letteratura fantastica nel Duemila, in una crescente inflazione d’immagini» pronte all’uso (CALVINO 1993, p. 95).

Per concludere, proviamo a spostare quella sua domanda sul piano pedagogico: che spazio e che priorità si dà o si dovrebbe dare, oggi, alla didattica di questa letteratura? Il dibattito è quanto mai aperto, come dimostra fra l’altro la vivacità delle discussioni che in vari ambiti sono in corso sul futuro dell’istruzione umanistica.

Facciamo qualche esempio. E se non fosse la buona battaglia? è il titolo provocatorio di un libro di Claudio Giunta, uscito nel 2017; lo studioso traccia un panorama davvero poco confortante della scuola e dell’università in Italia e nell’epilogo osserva: «A scuola, il tempo e lo spazio riservato alle discipline umanistiche tradizionali non sono stati erosi soltanto da discipline considerate più strategiche, come l’inglese e la matematica, ma da tutta una serie di iniziative extra-curricolari», fra cui ad esempio l’alternanza scuola-lavoro (GIUNTA 2017, p. 231). Questo però non ha minimamente modificato la scansione dei programmi, la cui impostazione risale all’Ottocento, «un’epoca nella quale […] alla scuola superiore accedeva una frazione minima dei cittadini italiani» (GIUNTA 2017, p. 232).

Anziché innovare, osserva Giunta, si è preferito esautorare l’istituzione scolastica, attraverso «la gragnuola dei ‘progetti’, delle attività extrascolastiche svolte all’interno del tempo-scuola, rendendola nei fatti impossibile» (GIUNTA 2017, p. 232). Da qui nasce la demoralizzazione degli insegnanti, che peraltro «percepiscono una sconnessione ormai troppo profonda tra ciò che si trova nei libri di testo e gli interessi di ragazzi soggetti a tutt’altre forme di comunicazione e dediti a tutt’altri consumi culturali» (GIUNTA 2017, p. 232).

6.12 Una visione (forse troppo) apocalittica
La percezione di questa distanza tra ciò che s’insegna e il presente fa sì, secondo lo studioso, che molti docenti

«si sentano chiamati non a insegnare una disciplina meglio che possono, ma a combattere una battaglia […]. Ma oltre a essere scentrata come analisi del presente, una posizione simile porta a confondere l’acculturazione con l’edificazione morale, le lezioni con le prediche» (GIUNTA 2017, pp. 234-235).

Questo scollamento dal presente si accompagna, nel libro di Giunta, alla descrizione di un’attualità in cui la cultura umanistica è sull’orlo del collasso, in particolare in Italia: una nazione «in cui i ragazzi cominciano a leggere meno dei coetanei europei al termine della scuola superiore, la quale perciò, lungi dal riuscire a trasmettere l’interesse per i libri, mostra di avere su molti un effetto dissuasivo» (GIUNTA 2017, p. 235); un paese in cui anche gli adulti leggono meno; in cui «l’istruzione retorica somministrata anche e soprattutto al liceo classico […] produce un’oratoria che oscilla tra l’ampolloso e lo sciatto» (GIUNTA 2017, p. 235). Ovviamente, secondo Giunta, «tutto questo non assomiglia a un primato culturale che valga la pena di difendere e di lasciare intatto» (GIUNTA 2017, p. 236).

La situazione non è migliore a suo avviso in campo accademico:

le facoltà umanistiche «sono sempre meno attrattive per gli studenti migliori, e non solo perché sono meno competitive sul mercato del lavoro, ma anche perché vengono percepite come troppo facili, troppo legate a un repertorio di conoscenze scolastiche che nelle altre facoltà può essere presupposto o ignorato» (GIUNTA 2017, p. 236).

Del resto, l’università stessa è «sempre più un apparato di produzione seriale e di controllo […]: si compilano interminabili dossier per ricevere finanziamenti e borse di studio; […] la reputazione si costruisce attraverso criteri pseudo-oggettivi come il numero delle pubblicazioni e il quotation index» (GIUNTA 2017, p. 237). In questa frenesia e nell’iperspecialismo indotto dagli stessi criteri di valutazione, si perde la «possibilità di solitudine e contemplazione [che ha] permesso agli studiosi del passato di scrivere i libri a cui siamo più affezionati» (GIUNTA 2017, pp. 262-263).

Questo, ovviamente, non è colpa della letteratura né della critica, bensì del sistema dell’istruzione e della ricerca, quindi delle condizioni in cui la buona battaglia in difesa delle humanities viene condotta a scuola e nelle università. E la colpa in particolare, secondo lo studioso, sarebbe da attribuire alla congiuntura socio-economica di questi decenni e, in piccola parte, anche alle decisioni prese in tema d’istruzione (GIUNTA 2017, pp. 265-266).

6.13Non cercate intellettuali all’università (e nemmeno a scuola)”
Il dibattito intorno alla questione, peraltro, non è sempre confinato agli specialisti. Ad esempio Enrico Mauro, ricercatore in diritto amministrativo – dunque apparentemente non implicato in modo diretto nella battaglia di cui parla Giunta -, ribadisce l’impossibilità di trovare intellettuali nella scuola e nelle università di oggi.

«Mi raccomando, non cercate intellettuali all’università (e nemmeno a scuola) […]. I ricercatori-docenti hanno altro da fare: hanno da pubblicare serialmente articoli […]; hanno da compilare registri, rapporti, bacheche, moduli di ogni tipo […]; non hanno più tempo per leggere, figuriamoci se ne hanno per pensare o, addirittura, per combattere battaglie culturali e sociali slegate dagli infiniti, stupidissimi adempimenti burocratici in cui galleggiano con l’acqua alla gola» (MAURO 2017).

Un ritratto che assomiglia molto a quello dei paladini di Francia schierati sotto le rosse mura di Parigi, che si reggono impettiti in sella tutti a un modo (cfr. TERZA PARTE, capitolo 5). Una provocazione su cui vorremmo riflettere, in chiusura del nostro itinerario: com’è possibile pensare veramente a una didattica della lettura, a scuola come all’università, se il docente per primo non ha tempo di leggere, essendo impegnato «verso scalate e classifiche di efficienza che poco hanno da spartire con l’elaborazione e la diffusione della conoscenza» (MAURO 2017)?

6.14 Un paradiso perduto?
Chiunque lavori a scuola o all’università sa bene che queste polemiche non sono un vano lamento, ma rispecchiano una realtà a cui bisognerebbe porre rimedio, prima che il morbo d’evanescenza di Agilulfo colpisca definitivamente un universo culturale importante, pur nelle sue molte imperfezioni.

Quello di Mauro, e per sua stessa ammissione anche di Giunta, è però il vagheggiamento di un paradiso perduto o comunque progressivamente scomparso, soprattutto nel corso dell’ultimo mezzo secolo: quell’otium umanistico in cui l’intellettuale poteva proseguire indisturbato la sua ideale conversazione con i predecessori, leggere libri, dedicarsi alla docenza, scrivere studi di ampio respiro senza la pressione della valutazione incombente e della burocrazia dilagante.

6.15 “La biblioteca del conte Monaldo è esplosa”
Quell’isolamento (forse non propriamente indisturbato) era ad esempio la condizione in cui si formò il giovane Leopardi nel paterno ostello, per riprendere un’immagine che proprio Calvino richiama alla memoria nel suo intervento del 1981 sui classici, al fine di sottolineare come invece l’attività del leggere nell’epoca a lui contemporanea fosse in contraddizione con un ritmo di vita «che non conosce i tempi lunghi, il respiro dell’otium» (CALVINO 1981). Dei classici si avverte ormai solo un rimbombo lontano sovrastato dal rumore, dice Calvino. Un rimbombo che attualmente, a quarant’anni di distanza dal suo saggio, si è ulteriormente affievolito.

«Oggi un’educazione classica come quella del giovane Leopardi è impensabile, e soprattutto la biblioteca del conte Monaldo è esplosa», aggiunge Calvino, al punto che è impossibile stabilire un canone di classici univoco e universale (CALVINO 1981). Inoltre, lo scrittore afferma di non poter immaginare se stesso e i propri colleghi come intellettuali interamente dediti alla lettura e allo studio, «senza aver da fare recensioni dell’ultima ristampa, né pubblicazioni per il concorso della cattedra, né lavori editoriali con contratto a scadenza ravvicinata» (CALVINO 1981). Sembra quindi che nell’ultimo mezzo secolo la condizione del lavoro intellettuale non sia così radicalmente cambiata.

C’è però un altro aspetto interessante. Secondo Calvino, l’atteggiamento della persona beatamente immersa nello studio solitario e silenzioso, completamente disconnessa dall’attualità, non è quello più proficuo e giusto per apprezzare i classici:

«L’attualità può essere banale e mortificante, ma è pur sempre un punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro. Per poter leggere i classici si deve pur stabilire “da dove” li stai leggendo […]. E questo non presume necessariamente una equilibrata calma interiore: può essere anche il frutto d’un nervosismo impaziente, d’una insoddisfazione sbuffante» (CALVINO 1981).

Il laboratorio dello scrittore negli anni Cinquanta, così intimamente legato al gruppo einaudiano, ci si presenta appunto come un luogo aperto, e non come una torre d’avorio chiusa in un mondo senza tempo (cfr. SECONDA PARTE). Anche nel periodo trascorso a Parigi, Calvino vive in una sorta di isolamento cosmopolita, come abbiamo visto, e non nel totale distacco dal mondo (Calvino 1994, p. 192; cfr. TERZA PARTE, capitolo 5).

6.16 Un’azione di guerriglia: fare “come se”
Ripercorrere queste riflessioni e la stessa biografia dello scrittore ci impone allora di riflettere su una domanda ulteriore: se l’attualità più incompatibile fa da padrona, se il discorso dei classici è ormai flebile e la biblioteca di Monaldo è esplosa, può esserci ancora un modo per far sì che la scuola e l’università siano luoghi di formazione e di dibattito intellettuale? Secondo lo scrittore, in primo luogo è importante leggere, ostinarsi a leggere, e mantenere la massima apertura possibile verso le novità:

«Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici; e direi che essa dovrebbe comprendere per metà libri che abbiamo letto e che hanno contato per noi, e per metà libri che ci proponiamo di leggere […]. Lasciando una sezione di posti vuoti per le sorprese, per le scoperte occasionali» (CALVINO 1981).

Inoltre si potrebbe aggiungere: non rimane che mettere da parte le previsioni apocalittiche (i piagnistei, come li chiama Giunta) e rivendicare il ruolo intellettuale del docente, riaffidandogli quel mandato educativo che gli è stato revocato. Bisogna «fare “come se” quel mandato fosse ancora attivo» (ZINATO 2018). E per fare “come se” bisogna ricorrere a quel pensare per immagini che auspicava Calvino. Non stiamo quindi considerando soltanto una metodologia didattica, quanto piuttosto una forma mentis, che dovrebbe appartenere in primo luogo al docente, e in genere all’intellettuale.

6.17 La lezione di Cosimo
Proprio per tali motivi, secondo Zinato (in polemica con la posizione di Giunta),

«per frammenti o per schegge, [l’esperienza interpretativa della letteratura] va praticata in quanti più luoghi educativi sia possibile, nei modi della guerriglia e controcorrente rispetto alle disposizioni e ai linguaggi […] della didattica dominante» (ZINATO 2018).

Questo non per trasformare le lezioni in prediche: Calvino ribadisce a più riprese che il primo scopo della lettura di un testo dovrebbe essere il divertimento. Inventarci ciascuno una biblioteca ideale dei nostri classici, come suggerisce lo scrittore, può contribuire allo svecchiamento del settore umanistico, o se non altro al divertimento di ciascuno di noi e, di conseguenza, possibilmente anche degli studenti.

Del resto, il divertimento, osserva ancora Calvino, è una cosa seria. In senso etimologico, divertire deriva dal verbo latino DIVERTĔRE, ‘volgere altrove’, lo sguardo prima di tutto. Questo porta facilmente a pensare a Cosimo, il barone rampante, quando sale sugli alberi: Cosimo guardava il mondo dall’albero: ogni cosa, vista di lassù, era diversa, e questo era già un divertimento (BR, p. 100). Prolungare dunque (fino a includere noi stessi) la metafora cardine del Barone rampante, che Umberto Eco definisce, più che una fiaba, «un grande conte philosophique» (ECO 2013).

Portando l’attenzione sulla figura del giovane barone e sulla sua scelta ribelle non s’intende certo suggerire l’idea di una fuga dal mondo: come sappiamo, infatti, gli alberi «non sono per Cosimo una torre d’avorio» (ECO 2013), ma un luogo privilegiato di osservazione per partecipare attivamente e criticamente alla vita sociale in cui è immerso, pur tenendosene alla giusta distanza. Ancora Eco ricorda:

«In una di quelle assemblee studentesche ultrapoliticizzate del 1968, quando mi fu chiesto di definire il ruolo dell’intellettuale, proposi il romanzo di Calvino come il solo testo affidabile e […] dissi che il primo dovere dell’intellettuale impegnato era quello di vivere sugli alberi» (ECO 2013).

Cosimo infatti, secondo Eco, invita a «guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica» (ECO 2013), a trovare un modo del tutto personale per sfuggire, con leggerezza e ostinazione, all’evanescente perfezione del cavaliere/burocrate Agilulfo.

Nella lezione sulla Leggerezza, Calvino aggiunge: «le immagini […] che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro» (CALVINO 1993). Così può forse ancora avvenire con la lettura dei nostri classici, con le immagini visivamente indimenticabili dei nostri Antenati. Leggere equivale allora a salire sugli alberi: è un antidoto divertente al rumore assordante dell’attualità e alla tentazione di evadere in inutili fughe alla ricerca di paradisi perduti, ammesso che siano davvero esistiti.

BIBLIOGRAFIA

In tutte le sezioni di questo contributo l’edizione di riferimento delle opere di Calvino è citata con le seguenti abbreviazioni:

  • RR = Italo Calvino, Romanzi e racconti, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, 3 voll., Milano, Mondadori, 1991-1994.
  • Saggi = Italo Calvino, Saggi, Milano, Mondadori, 1995.
  • Lettere = Italo Calvino, Lettere 1940-1985, Milano, Mondadori, 2000.
  • ARGIOLAS 2012 = Pier Paolo Argiolas, L’animazione di un’armatura. Il Cavaliere inesistente di Calvino e di Pino Zac, in Between II, n. 4 (novembre-dicembre 2012), pp. 1-19.
  • CALVINO 1965 = Italo Calvino, Il Barone rampante, prefazione e note di T. Cavilla, Torino, Einaudi, 1965.
  • CALVINO 1981 = Italo Calvino, Italiani, vi esorto ai classici, in L’Espresso, 28 giugno 1981, pp. 58-68 (poi in Italo Calvino, Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1995. L’intervento è consultabile online all’indirizzo https://www.sbt.ti.ch/all/evento/2836.pdf).
  • CALVINO 1984 = Italo Calvino, Collezione di sabbia, Milano, Garzanti, 1984.
  • CALVINO 1993 = Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988; Milano, Mondadori, 1993.
  • CALVINO 1994 = Italo Calvino, Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Milano, Mondadori, 1994.
  • ECO 2013 = Umberto Eco, “Il Barone rampante” di Italo Calvino letto da Umberto Eco, in Il Sole 24 ore, 26 maggio 2013 (https://www.eccellenzeitaliane.it).
  • GIUNTA 2017 = Claudio Giunta, E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica, Bologna, Il Mulino, 2017.
  • MAURO 2017 = Enrico Mauro, Non cercate intellettuali all’università (e nemmeno a scuola), in Leccenews24, 3 dicembre 2017 (https://www.leccenews24.it/attualita).
  • MENGALDO 1988 = Pier Vincenzo Mengaldo, La lingua dello scrittore, in Italo Calvino. Atti del convegno internazionale (Firenze, 26-28 febbraio 1987), a cura di G. Falaschi, Milano, Garzanti, 1988, pp. 203-224.
  • MILANINI 1990 = Claudio Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, Milano, Garzanti, 1990.
  • PES 1987 = Il gusto dei contemporanei. Quaderno numero 3. Italo Calvino, Pesaro, Banca popolare pesarese, 1987 (intervista con gli studenti di Pesaro dell’11 maggio 1983).
  • SERRA 2006 = Francesca Serra, Calvino, Roma, Salerno, 2006.
  • ZANGRANDI 2006 = Silvia Zangrandi, Segni visivi e percorsi linguistici in I nostri antenati di Italo Calvino, in Sinestesie, 8, 2012, pp. 1-14.
  • ZINATO 2018 = Emanuele Zinato, Pro o contro il libro di Claudio Giunta? Buone e cattive battaglie per la didattica della letteratura, in La letteratura e noi, 10 gennaio 2018 (https://www.laletteraturaenoi.it).

Fine della Quarta Parte.
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Autore: Serena Lunardi
Revisione e cura: Alessandro Ardigò, Arianna Sardella 

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