Qual è la linea di demarcazione che divide cultura e natura? A quali esigenze simboliche e culturali risponde la relazione con l’animale?
Quella che si vuole proporre non è una riflessione sulla funzione degli animali nella letteratura di Kafka né, tanto meno, sul ruolo degli animali kafkiani nella letteratura. Ciò che si vuole suggerire è, invece, l‘analisi di un precipuo tema, universale ma fin troppo spesso misconosciuto, ovvero la relazione fra l’uomo e l’animale, partendo da un frammento di storia letteraria – in particolare dal racconto Una relazione per un’Accademia – di un autore che ha fatto del rapporto con gli animali una delle cifre più illuminanti e suggestive del proprio pensiero.
Illustri signori dell’Accademia! Mi avete fatto l’onore di invitarmi a presentare all’Accademia una relazione sulla mia trascorsa vita di scimmia. (K., 266)
Così inizia Una relazione per un’Accademia: in media res absurda. Come spesso succede, Kafka non prepara il lettore all’assurdo, al folle, al contraddittorio, all’incoerente: lo getta all’interno. Anzi, vi si getta egli stesso. Questo è il suo modo per saggiare la realtà, un modo irragionevole e scientifico: il suo scrivere è il risultato di un esperimento. Crea una condizione artificiale, vi pone all’interno un soggetto e ne registra i comportamenti. Tuttavia non vi è verifica finale, lo scrittore non tira le somme, non emette mai un giudizio. Al contrario, procede fino ad insinuarsi nelle falde più profonde dell’essere umano, ne assorbe le torbidità, le rimescola senza mai mondarle.

Come ebbe a dire Primo Levi (LEVI 2016, pp. 1096-98; pp. 1532-33), che tradusse Il processo per l’editore Einaudi, sobbarcandosi un lavoro che gli costerà – per sua stessa ammissione – una profonda sofferenza quasi fisica, in Kafka non vi è mai un movimento verticale di filtraggio della realtà. A Kafka non interessa restituirla al lettore distillata e dipanata da incoerenze, contraddizioni, follie e assurdità. L’autore boemo vi naviga dentro, sotterraneamente, ne assorbe batteri e funghi e, per tal via, li restituisce al lettore.
In Una relazione per un’Accademia (che peraltro è uno dei pochi racconti dato alle stampe quando l’autore era ancora in vita: nel 1917 sulla rivista Der. Jude. Eine Monatsschrift) Kafka pesca dal proprio giardino zoologico una scimmia e la mette in scena sulla cattedra di un’aula accademica. La forza selvaggia, la bestialità, il verso disarticolato si fanno d’un tratto comprensibili e, ancor di più, degni dell’ascoltabilità di una platea di docenti e professori. Pietro il Rosso, questo è il nome che riceverà la scimmia dopo la sua cattura, è là dove la cultura viene elaborata e selezionata. Questo è un dato che non deve sfuggire, si tratta di un ribaltamento di prospettive, nonché di uno sconvolgimento della gerarchia dei saperi. Ciò a cui la scimmia è stata chiamata è stendere un resoconto sulla sua vita animale. Il selvatico, l’animale, la bestia, ciò che per antonomasia è al di fuori dell’ambito del logos, può narrare la propria storia ed essere udito.




Il compito, per la scimmia, non è tuttavia semplice, lo ammette immediatamente lo stesso Pietro il Rosso:
Quasi cinque anni mi separano dalla mia vita di scimmia, un periodo forse breve se misurato sul calendario, infinitamente lungo però a passarlo al galoppo, come ho fatto io, accompagnato a tratti da persone eccellenti, da consigli, applausi e musica orchestrale, in fondo però solo, perché ogni accompagnamento si teneva, per restare nell’immagine, ben lontano dalla barriera. (K., 266)
Cos’è questa “barriera”? È il principio ontologico e epistemologico su cui si è basata l’intera cultura occidentale. È l’opposizione fra uomo e animale, o, se si preferisce, fra umano e non umano, fra cultura e natura. Non occorre rivangare le classificazioni aristoteliche per rendersi conto di quanto determinante sia stata questa distinzione nella costruzione del pensiero. Tanto da divenire un assunto assodato, basilare, su cui non si dovrebbe più necessitare di mettere parola.
Eppure, questa dicotomia è stata messa in discussione nella seconda parte del ‘900 e dovrebbe essere maggiormente indagata. Nella prefazione alla seconda edizione di Le strutture elementari della parentela, Levi-Strauss parla di una “linea di demarcazione” fra natura e cultura “tenue e tortuosa” (LEVI-STRAUSS 1967, pp. 19-20). E si domanda se, lungi dall’essere un dato immutabile, aprioristico, indubitabile, non sia invece un costrutto culturale, “una creazione artificiale della cultura umana” (Ivi, p. 20). Un’“opera difensiva” (Ivi) – aggiunge – costruita dall’uomo per rivendicare il proprio primato, la propria sistemazione all’apice del reame. Già in un precedente discorso, redatto alcuni anni prima per commemorare l’illuminista francese Rousseau, denunciava il “ciclo maledetto” (LEVI-STRAUSS 1978, pp. 45-46) inaugurato dall’uomo con la separazione radicale dal regno animale. Ciclo che sarebbe poi stato ulteriormente ristretto, emarginando e rendendo subalterni ampi strati di uomini.




Pietro il Rosso accetta questa barriera e si rende conto che per la sua stessa sopravvivenza è necessario che, facendola propria, la valichi.
Questa evoluzione non sarebbe stata possibile, se fossi rimasto ostinatamente attaccato alla mia origine, ai ricordi della gioventù. Proprio la rinuncia ad ogni ostinazione costituiva il precetto informatore che mi ero imposto: io, scimmia libera, mi sottoposi al giogo. (K., 266)
Intessendolo di quel particolare umorismo icastico, che è cifra della scrittura, Kafka rivela cosa possa essere il passaggio dallo stato di natura, libero, al mondo della cultura. Cultura che aveva, come ultimo esito, la creazione del mondo borghese, da cui il bistrattato impiegato di una compagnia assicurativa, Kafka appunto, si sentiva ampiamente aggiogato.
La via scelta da Kafka è sottile, e lo rivela il tono ironico con cui la scimmia ricorda alla sua platea la comune origine biologica:
A essere franco – e anche se scelgo volentieri delle metafore per esprimermi in proposito – a dirla chiara insomma: la vostra origine scimmiesca, signori miei, ammesso che qualcosa di simile sia esistito nel vostro passato, non può essere per voi più remota di quanto non sia per me la mia. Al tallone però, chiunque cammini su questa terra, ne avverte il solletico: tanto il piccolo scimpanzé come il grande Achille. (K., 267)
Vi è un medesimo sostrato materiale con cui deve confrontarsi tanto l’apice della cultura che l’andatura prona della scimmia. Lo schietto dato fisico, corporeo, naturale. È questa la condizione tangibile e triviale che nessun pensiero può scartare, né decostruire, né inglobare in sé. Eppure è proprio della condizione dell’uomo l’avere assunto la posizione eretta. Condizione che alla scimmia è preclusa. Vi è tuttavia qualcosa di bizzarro nello sviluppo di questa condizione. Nota Edgar Morin che i primi ominidi non erano altro che i topi del mesozoico (MORIN 1974, pp. 57-66). Erano coloro che avevano perso la battaglia per il controllo della foresta ed erano stati cacciati nella savana, dove le fonti di sopravvivenza erano molto più scarse. Fu quindi per meglio adattarsi e agire in questo nuovo ambiente, in cui occorreva percorrere lunghe distanze per procacciarsi il cibo, che il primate sviluppò l’andatura eretta. Sollevandosi, acquisì maggior forza e precisione nella presa della mano, la mano liberò la mascella da diverse costrizioni meccaniche, la liberazione della mascella portò ad un aumento della volumetria della scatola cranica.
Un gioco di rimandi vitale e coerente con l’opera dell’autore praghese, se dalle scimmie si è passati ai topi (basti pensare all’ultimo racconto di Kafka, Giuseppina la cantante ossia il popoli dei topi) e dai topi ad altri animali abituati a sopravvivere negli interstizi delle società, ovvero gli scarafaggi di cui non vi è bisogno di citare l’importanza nell’opera kafkiana.




Nella metafora del tallone che prova solletico poggiandosi a terra, Kafka ribadisce uno dei suoi topoi: il corpo, appunto. Il corpo come grumo inscindibile di simbolicità e materialità. Il 1917, anno in cui pubblica Una relazione, è anche l’anno in cui si manifestano i primi sintomi della tubercolosi. Nell’estate di quell’anno, un forte sbocco di sangue gli preannuncia la mortale malattia che lo tormenterà fino al 3 giugno 1924, quando, in un sanatorio presso Vienna, spirerà.
“Se da una parte egli interpreta l’evento [lo sbocco di sangue] come un castigo per la colpa commessa nei confronti del padre e di Felice [la donna con cui aveva rotto il fidanzamento], dall’altra lo avverte come una liberazione che può scioglierlo da ogni vincolo mondano” (GUGLIELMINO, GROSSER 1989, p. 136).
Il rapporto con il proprio corpo, per Kafka, è irretito in quello che gli studiosi della scuola di Palo Alto chiamano double bind (BATESON 1977). Tale concetto prevede un soggetto incessantemente sottoposto a messaggi contrastanti e vincolanti: nel caso specifico di Kafka, la malattia come castigo e liberazione. Un nodo contrastivo e non scioglibile. Kafka sentiva il proprio corpo annichilirlo, devastarlo, emarginarlo dal consorzio umano e allo stesso tempo questa condizione era la via d’uscita dalla società borghese, dagli eventi mondani del ceto medio borghese da cui si sentiva oppresso e che percepiva come estraneo.
Vi è di più: “Kafka sentiva un animale dentro di sé”, nota magistralmente Pietro Citati, in un passo che, data la sua poesia, è doveroso riportare integralmente:
avvertiva in sé un coleottero o un maggiolino in letargo: una talpa che scavava gallerie nel terreno: un topo che fuggiva appena arrivava l’uomo un serpe strisciante: un verme schiacciato da un piede umano: un pipistrello che svolazza: un insetto parassitario, che si nutriva del proprio sangue: una bestia silvestre, che giaceva disperata in un fosso lurido o nella tana: una cornacchia grigia come la cenere, con le ali atrofizzate: un cane, che digrignava i denti contro chi lo disturbava o abbaiava correndo nervosamente attorno ad una statua: un animale doppio, che aveva il corpo dell’agnello, la testa e gli artigli del gatto, il pelo morbido e gli occhi selvaggi e fiammeggianti di entrambi. (CITATI 2000, p. 59)
Quel che Kafka avverte nei confronti dell’animale è orrore; orrore che trapela nelle sue parole. Eppure è convinto della necessità di scendere nelle viscere del proprio corpo, in quell’astrusità brulicante e sconosciuta che alberga sotto pelle per comprendere il senso della proprio esistenza.
Poi avrebbe compreso il senso delle sue sensazioni. L’animale che lo abitava, coleottero o tasso o talpa, non era altri che la sua anima e il suo corpo di scrittore, che si chiudeva tutte le notti e gli inverni nella cantina obbedendo alla voce dell’ispirazione, come certi animali passano l’inverno in letargo nelle loro tane notturne. (Ivi)
Dalla sue tane notturne, i bugigattoli in cui si confina per scrivere, elabora storie minime ed eterne. Le claustrofobiche stanze di Niklasstrasse, Zarau, della pensione Ottoburg di Merano appaiono allora la gabbia in cui viene rinchiuso Pietro il Rosso dopo la sua cattura: “troppo bassa per stare ritti, troppo stretta per stare seduti” (K., 268). Persino nell’atto fisico di scrivere Kafka pare ficcarsi in una situazione senza uscita, come se già volesse dire a sé stesso, mentre prende in mano carta e penna: “Non c’è scampo”.
Inoltre, non volendo in un primo momento, probabilmente, vedere nessuno e desiderando stare al buio, stavo rivolto verso la cassa, mentre dietro, le sbarre delle inferiate mi segavano la carne. (K., 269)
A quest’altezza le vie intraprese dall’uomo Kafka e dalla scimmia Pietro il Rosso si compenetrano.
Non avevo una via d’uscita, ma dovevo procurarmela, perché non avrei potuto vivere senza. A star contro la parete della cassa – sarei certamente crepato. Ma le scimmie per Hagenbeck devono stare contro la cassa – ebbene, allora smisi di essere una scimmia. Un ragionamento chiaro e bello, che devo in qualche modo avere tirato fuori con la pancia, perché le scimmie pensano con la pancia. (K., 270)
“Ragionare con la pancia” è un detto comune che significa lasciar spazio alla propria emotività, ma anche lasciare che siano le viscere, la parte più bestiale, a ragionare. Tuttavia vi è una profonda differenza fra l’uomo Kafka e la scimmia Pietro il Rosso. Se il primo decide, come si è detto, di rinunciare al contatto con il mondo esterno e di scendere ulteriormente nella propria oscurità, confinandosi in un universo senza uscita, il secondo elabora una propria occasione di scampo. Sarà l’altro da sé, il mondo degli uomini che in quel momento lo osserva dall’esterno della gabbia in cui l’animale è rinchiuso, a fornirgli una via d’uscita. Se per Kafka il problema è come scovare un’“entrata, o un lato, un corridoio, un’adiacenza, ecc.” (DELEUZE, GUATTARI 1996, p. 15), per la scimmia è come trovare un’uscita.
Se l’intera opera di Kafka sembra un sacrificio dell’uomo incivilito, della cultura millenaria, della società europea, per liberare l’animale che ha di dentro, al contrario Pietro il Rosso deve sacrificare la propria animalità, il proprio essere libero e viscerale, per trovare salvezza nel mondo acculturato e civilizzato. Se ne La metamorfosi Gregor Samsa capiva che la condizione animalesca era l’unica che gli si attanagliasse, la scimmia comprende che solo nell’assunzione della condizione umana risiederà il suo futuro. Così come lo scarafaggio Gregor Samsa viene ucciso dalla propria famiglia, Pietro il Rosso sopprime la propria origine per essere accettato dalla grande famiglia degli uomini.
Ecco, però, che nuovamente Kafka rimescola le carte:
Temo non si comprenda bene cosa intenda per via d’uscita. Uso le parole nel senso più comune e più completo. E di proposito non dico libertà. Non voglio parlare del grandioso senso di libertà che si irradia in ogni direzione. Quand’ero scimmia forse lo conoscevo e ho conosciuto uomini che vi anelavano. Quanto a me però, non ho mai aspirato alla libertà allora, né oggi tra parentesi: troppo spesso gli uomini si ingannano fra loro con la libertà. E, come la libertà si può contare fra i sentimenti più sublimi, anche la relativa illusione è fra le più sublimi. Ho spesso visto lavorare nei varietà, prima di entrare a mia volta in scena, una qualche coppia di acrobati, su in alto, al trapezio. Volteggiavano, si dondolavano, si gettavano di slancio l’uno nelle braccia dell’altro o uno reggeva l’altro per i capelli coi denti. Anche quella è la libertà degli uomini, pensavo, movimento degno d’un essere libero. Oh irrisione della sacra natura! Nessun edificio reggerebbe alle sghignazzate del mondo delle scimmie dinnanzi a quello spettacolo. (K., 270)
Non vi è libertà nel consorzio umano, non vi è libertà se non nell’imitazione puerile dei volteggi compiuti dalle scimmie. Inoltre, ciò a cui aspira Pietro il Rosso non è la libertà in quanto fuga. Capisce che se anche fosse riuscito nell’impresa, lo avrebbero ripreso e rinchiuso in una gabbia ancor peggiore. Per aspirare alla propria libertà, Pietro il Rosso realizza che non vi è altra soluzione che gettarsi fra le spire dei pitoni che stavano nella gabbia a lui dirimpetto, o buttarsi in mare, aspettando d’affogare (K., 272). La libertà, mutuando un’intuizione di Gunther Anders, è una “prigione negativa” (ANDERS 2006, p. 62). “Il vivente è un prigioniero negativo: non chiuso dentro, ma chiuso fuori” (Ivi, p. 60). Vi è sempre l’immagine del soffocamento: non di chi vive dentro la gabbia, ma di chi sta al di fuori di essa. Lo straniamento sociale si vanifica entrando nella gabbia che sta fuori. O, usando altri termini, la via di scampo si tramuta in fuoriuscita dalle sbarre per irrompere in una prigione. Questo è il dilemma vertiginoso kafkiano.
Ciò che la scimmia cerca, sulla nave che lo sta portando in Europa, in compagnia dei marinai, è la “calma”(K., 271). Che significato dare a questo termine nell’economia del racconto kafkiano? La “calma” di cui narra Pietro il Rosso è quella che si acquista sopportando i “passi pesanti, che echeggiavano nel mio dormiveglia”; gli scherzi “volgari ma cordiali”; il loro “riso” a cui “si univa sempre una tosse che sembrava minacciosa ma non significava nulla”; l’indifferenza dei loro sputi; le loro continue lamentele sulle “mie pulci” che sembrava “saltassero addosso a loro” (K., 271); l’avvicinarsi della pipa accesa in un punto della pelle che Pietro il Rosso non poteva raggiungere finché la pelliccia non cominciava a bruciare, “ma allora smorzava egli stesso [il marinaio] la fiamma colla sua mano enorme e buona” (K., 274).
La calma che si acquista in compagnia di quella gente, mi trattenne più d’ogni altra cosa da ogni tentativo di fuga. (K., 271)
Di primo acchito, in questo contesto “calma” sembra essere sinonimo di “docilità”, essere disposto ad apprendere, a farsi guidare, ma anche a piegarsi ed a cedere. Di “corpi docili” ha parlato Foucault (FOUCAULT 1976) riferendosi alle pratiche di potere e sapere sorte nella modernità. Dal ‘700 in poi, l’integrazione dell’individuo nel corpo sociale non è più frutto della violenta sottomissione all’autorità, ma si realizza attraverso l’acquisizione e l’introiezione di una disciplina sociale. Così Pietro il Rosso, nel suo percorso dalla nave al palco dei varietà alla cattedra universitaria, compirà una progressiva acquisizione dei meccanismi funzionali al dato contesto umano. Attraverso questa acquisizione, non forzata, ma agita e voluta, Pietro il Rosso, usando un termine fumoso dell’abecedario filosofico, si soggettivizza.




Bisogna fermarsi ulteriormente su questo momento del racconto, centrale nel pensiero kafkiano. Deleuze e Guattari mettono in luce come esso esemplifichi quel rapporto binario che attraversa l’intera poetica del praghese: “testa bassa-testa alta” (DELEUZE, GUATTARI 1996, pp. 11 e succ.). Ossia, Pietro il rosso racchiuso nella gabbia, forzato dalle sbarre a rimanere con il collo piegato e Pietro il Rosso che rialza la testa e guarda negli occhi i marinai. Ma questa struttura dicotomica non è da interpretarsi come un’alternanza fra sudditanza e ribellione. I due autori francesi citano proprio Una relazione per evidenziare che
la testa che si risolleva non ha […] una propria e formale validità, essa è soltanto ormai una sostanza deformabile, trascinata e trasportata […] non si tratta del movimento verticale ben formato in direzione del cielo o avanti, non si tratta di sfondare il tetto ma di filare “a capofitto”, non importa dove, anche da fermi, intensamente; non si tratta di libertà contrapposta a sottomissione ma solo di una linea di fuga, anzi di una semplice via d’uscita, “ a destra, a sinistra, purché fosse” (K., 270) la meno significante possibile (Ivi, p. 13).
La via d’uscita, per Pietro il Rosso, come detto, è allora l’acquisizione dei modelli sociali che gli vengono proposti anzitutto sulla nave: sputare, fumare la pipa e, con enorme fatica, bere acquavite. L’odore dell’alcol disgusta Pietro il Rosso e solo il metodico esempio fornitogli ogni sera da un marinaio lo condurrà al successo.
Ciò a cui Pietro il Rosso si sottopone è un apprendimento per imitazione: la scimmia “non ragion[a], ma osserv[a] con tutta calma” (R, 272), imita i comportamenti “che già non si distingue dal mio modello” (K., 274), e viene rinforzato quanto adotta comportamenti funzionali “se poi premevo il pollice nel fornello della pipa, tutta la sottocoperta giubilava” (K., 273). Deleuze e Guattari ammoniscono il lettore a non farsi ingannare da questo apprendimento. Pur potendo sembrare una progressiva antropizzazione della scimmia, in quanto l’apprendimento imitativo risponde all’adattamento progressivo di conformità sociale, è invece deterritorializzante (DELEUZE, GUATTARI 1996, p. 25). Ennesimo termine criptico, di difficile sintesi. Introdotto per la prima volta nel 1972, con esso gli autori designano un movimento di uscita, figurato o simbolico, da un ambito dato e abituale per emigrare in qualcosa di sconosciuto. Deleuze riprende il concetto nel 1977 nel testo Conversazioni, scritto con Claire Parnet, nel capitolo Sulla superiorità della letteratura anglo-americana, Deleuze descrive la deterritorializzazione compiuta dalla letteratura insistendo su due verbi. Il primo è fuggire, ovvero “uscire dal solco”, tracciare una “linea di fuga” specificando che non è un’evasione nell’immaginario e nella fantasia, ma al contrario è produzione di realtà. L’altro verbo su cui si sofferma è tradire, cioè propriamente spostarsi, divenire-altro. Kafka sembra porsi come esempio principe, in quanto autore della Metamorfosi e di una serie di racconti in cui presenta quelli che i due filosofi chiamano divenire-animale senza che tra l’umano e l’animale raccontati vi sia mai un rapporto di semplice mimesi, senza che l’animale protagonista sia un mero simbolo in sostituzione di qualcos’altro.
Quel che accade è al contrario un incontro dove ciascuno spinge l’altro, lo coinvolge nella propria linea di fuga, in una deterritorializzazione coniugata (DELEUZE, PARNET 2006, p. 51).
Per tal via, è lecito ipotizzare che non vi sia un completo adattamento ai comportamenti umani ma che, adottando tali comportamenti, la scimmia vi insinui qualcosa di animalesco. Pietro il Rosso non sostituisce la propria bestialità con l’umanità, ma opera una transizione in cui la propria parte animale approda al mondo umano. La suggestione di Deleuze e Guattari avverte del fatto che il pensiero si possa basare non tanto su monadi definite e identitarie su cui impalcare costrutti e riflessioni, quanto su identità continuamente stratificate, in fuga, alla deriva, incapaci di afferrarsi.
Il risultato è un sovvertimento dei codici antropocentrici.
Divenire animale [o, diventare uomo per l’animale] significa appunto fare il movimento, tracciare la linea di fuga in tutta la sua positività, varcare una soglia, arrivare a un continuum di intensità che valgono ormai solo per se stesse, trovare un mondo di intensità pure, in cui tutte le forme si dissolvono, e con loro tutte le significazioni, significanti e significati, a vantaggio d’una materia non formata, di flussi deterritorializzati, di segni asignificanti (DELEUZE, GUATTARI 1996, p. 23).
Una volta sbarcato e venduto, Pietro il Rosso sarà oggetto di altri processi di ammaestramento che lo porteranno ad essere sempre più umano; questo processo avverrà tuttavia ad un caro prezzo per gli ammaestratori, che finiranno irrimediabilmente ricoverati in case di salute. La tramutazione della scimmia in uomo si realizza con uno sconfinamento che lascia l’uomo ferito, intaccato nella propria struttura ontologica di uomo.
Consumai però molti maestri, alcuni perfino contemporaneamente. (K., 276)
L’obolo da pagare per avere costretto la scimmia ad abbandonare la propria natura è la consunzione. Vi è qualcosa dell’umano che viene meno, si corrode, deperisce, fino ad impazzire. Cosa possono significare queste poche righe? Vi è un ammonimento di Kafka a non sovvertire l’ordine gerarchico naturale? Tutt’altro, la radice della follia è racchiusa nelle viscere dell’uomo quanto della scimmia. Il tentativo di abbandonare il proprio essere viscerale e elevarsi è destinato al fallimento. La cultura, che si pensava distaccata e innalzata sopra la natura e che pretendeva di uniformare ad sé questo singolo essere animale, scopre che il successo del proprio progetto si realizza al solo patto di impazzire.
Dal canto suo, Pietro il Rosso perde la propria natura selvaggia: la via di scampo, come detto, è rinchiudersi nella “prigione negativa”: raggiunge “il grado di cultura media di un europeo” (K., 276). Mette i pantaloni, porta il vino in tavola, dondola sulla sedia, si infila le mani in tasca, guarda fuori dalla finestra. E se, a sera, gli fa piacere trattenersi con una scimpanzé mezza addomesticata, di giorno la rigetta
perché ha negli occhi lo sguardo spiritato degli animali ammaestrati; io solo me ne accorgo e non lo posso sopportare. (K., 277)
Salendo in cattedra, in definitiva, Pietro il Rosso non produce un sapere, ma si fa oggetto di un sapere. Espone la propria esistenza perché possa essere scrutata, compresa, assorbita e rielaborata dal sapere ufficiale. È il trionfo, almeno per chi ora scrive, di un umanesimo costruito come rigetto di ogni alterità.
Si realizza, fra Pietro il Rosso e mondo umano, ciò che in musica viene definito uno “uno scambio enarmonico”:
nel corso della storia, un oggetto o una persona, che debbono la loro esistenza ad una determinata metafora, assumano una diversa sfumatura metaforica; il «diesis» in un certo qual modo diventa improvvisamente «bemolle». Ma, dato che, ciononostante, la persona o l’oggetto mantengono per tutta la storia una certa identità con sé stesi, il loro «significato globale» diviene incomprensibile (ANDERS 2006, p. 72).
Questa è la cifra di Kafka, il mescolamento e il rimescolamento dei batteri nelle faglie più profonde. In questo senso, Una relazione non definisce nuove prospettive in cui pensare il rapporto natura/cultura, ma le avviluppa, ne fa emergere le incoerenze, dà fiato alle aporie. Lo stesso Pietro il Rosso non ha alcuna cognizione da diffondere, né chiede alcun giudizio umano a cui essere sottoposto.
Anche a voi, illustri signori dell’Accademia, non ho fatto che una relazione. (K., 277)
Conclude laconicamente.
D’altronde questo è Kafka.
BIBLIOGRAFIA.
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- DELEUZE, PARNET 2006 = Deleuze G., Parnet C., Conversazioni (1977), Milano: Ombre corte 2006.
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- FOUCAULT 1976 = Foucault M., Sorvegliare e punire. La nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 1976.
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- MORIN 1994 = Morin E., Il paradigma perduto (1973), Feltrinelli, Milano 1994.
Autore: Federico Redaelli
Revisione e cura: Arianna Sardella, Alessandro Ardigò
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