fbpx

«Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi»: la ricezione di Hemingway in Italia

L’introduzione di un autore in un Paese straniero non è mai un’operazione neutra. Non si tratta solo del fatto, scontato, che una traduzione, nella sua forzata natura di mediazione, di tramite, di decodifica e ricodifica di un testo, è già, di per se stessa, esegesi. Ma del fatto, meno scontato, che uno scrittore, trascinato in un contesto storico e geografico diverso dal suo di appartenenza, può acquisire significati inattesi, può rivelare aspetti inediti, può caricarsi di sfumature totalmente assenti nell’originale. Lo scrittore straniero, in qualche modo, reagisce al nuovo ambiente. Per questo, la scelta di un testo può assumere un preciso valore programmatico, ed essere giustificata da ragioni immanenti, legate all’attualità. Se traduco Dei delitti e delle pene di Beccaria in un Paese dove la pena di morte è ancora in vigore, il mio intento critico apparirà evidente. Persino una riedizione dell’Eineide virgiliana, con la sua storia di un profugo che scappa dalla guerra e trova una nuova patria oltre il Mediterraneo, può evocare oggi richiami del tutto inaspettati rispetto a duemila anni fa.

È esattamente quello che avviene durante il ventennio fascista con la ricezione italiana di Ernest Hemingway. L’interesse per Hemingway in Italia è abbastanza tardivo, se si pensa che il primo intervento critico – un articolo di Mario Praz apparso su La Stampa nel 1929, intitolato Un giovane narratore americano – risale ad una fase già avanzata della sua carriera letteraria, quando The Sun also Rises e A Farewell to Arms avevano già spopolato tra gli scaffali di mezzo mondo. Interesse non solo, come detto, tardivo, ma anche in linea con certa indulgente bonarietà che la prima generazione di americanisti riserva alla letteratura americana: letta e criticata, ma sempre relegata al ruolo di appendice delle nobili lettere inglesi, senza mai insidiare la millenaria superiorità della tradizione europea. Basta osservare lo sforzo (spesso artificioso) dello stesso Praz di ricondurre l’originalità americana a derivazioni europee. Basta guardare il tiepido entusiasmo di Emilio Cecchi, o il cauto slancio di Carlo Linati, che traduce Il ritorno del soldato già nel 1925 e riceve un biglietto di ringraziamento dallo stesso Hemingway, ma non riesce a immaginare «come possa [la civiltà europea] abbandonare questi suoi preziosi beni nelle mani di Babbitt» (LINATI, 1923) [Ndr. “Babbit” è il tipico americano medio-borghese di provincia per bene del boom economico. Il nome deriva dal titolo di un romanzo del 1922 di Sinclair Lewis, intitolato “Babbit” appunto].

Tra l’altro l’interesse dei letterati italiani per Hemingway si riallacciava ad un elemento puramente accessorio, o comunque esteriore, ossia lo stretto legame biografico dell’autore con la nostra penisola. L’esperienza della guerra – l’arrivo a Schio, la ferita alla gamba a Fossalta di Piave, il ricovero a Milano – si consuma tutta su suolo italiano, e lascia in lui un fantasma da esorcizzare con continui ritorni (almeno sette in totale). Nel 1922 Hemingway è in Italia due volte, in aprile per seguire la Conferenza Economica Internazione di Genova (dove, non essendo molto ferrato in economia, passa il tempo a disegnare caricature di Lloyd George) e in maggio, quando attraversa le Alpi a piedi e torna sui luoghi di guerra (leggenda vuole che abbia defecato sull’esatto punto in cui fu ferito). Nel 1923 fa visita a Ezra Pound a Rapallo, vanno a piedi a Pisa e Siena; poi, dopo una breve sosta a Sirmione, scopre una località di montagna allora sconosciuta, resa glamour dal suo passaggio: Cortina d’Ampezzo. Del 1927 è un breve giro in macchina con l’amico Guy Hickock, con annesso incontro con Giuseppe Bianchi, il prete che lo aveva battezzato in fin di vita al fronte. Nel 1948 e nel 1954 si divide tra Venezia e l’isola di Torcello, mentre in mezzo, nel 1953, inaugura il famosissimo muretto di fronte al Caffè Roma di Alassio.

Ma è proprio quando la situazione politica cambia – e la dittatura fascista si consolida – che cambia l’interesse italiano per Hemingway. Non più saltuario e superficiale, ma serio, strutturato, foriero di nuove suggestioni nel mutato clima generale del paese. Non a caso sono gli anni del mito dell’America, avversata dai fascisti come potenza plutocratica e covo del giudaismo mondiale. «Dominio dei monopoli», «popolo sradicato», «sabba di macchine», «società priva di storia» sono solo alcuni degli epiteti riservati agli USA (ANTONELLI, 2008).
Nel decennio degli anni ’30, «il decennio delle traduzioni» (PAVESE, 1951), l’introduzione in Italia di autori americani come Hemingway diventa quindi molto più di una mera traslazione da una lingua ad un’altra. È un’operazione culturale, una protesta politica, uno slancio ideale, in una suggestione – quella degli Stati Uniti come altrove di libertà e della loro letteratura come vergine adesione alle cose – che si alimentava delle progressive restrizioni, delle reiterate censure, delle asfissianti gabbie della retorica.

Il primo a capire la connessione è Cesare Pavese. «Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi» dice cogliendo il punto (PAVESE, 1945). E nonostante i suoi preferiti siano altri – su tutti il Moby Dick di Melville, ma anche Sinclar Lewis e Sherwood Anderson – riserva sempre grande attenzione alle opere di Hemingway. Ad un suo amico americano, Antonio Chiuminnato, già nel 1930 chiede di inviargli «qualcosa di Ernest Hemingway (Anche il sole sorge, Uomini senza donne, Addio alle armi) o qualsiasi altra cosa di lui sia reperibile», testimoniando le difficoltà nel reperire edizioni italiane («Specialmente dell’ultimo libro si parla molto qui, ma non se ne è vista nessuna edizione») (PAVESE, 1966). Un paio d’anni dopo, prega ancora Chiuminatto di cercare «un’edizione economica di in our time di Hemingway. Sento dirne meraviglie» (PAVESE, 1966). E in quella miniera di lucidi giudizi critici che è Il mestiere di vivere, se ne rintraccia uno, in cui coglie l’originalità della prosa hemingwayana:

Stendhal-Hemingway. Non raccontano il mondo, la società, non dànno il senso di attingere a una larga realtà interpretando a scelta, a volontà – come Balzac, come Tolstoi, come ecc. Hanno una costante di tensione umana che si risolve in situazioni sensorio-ambientali rese con assoluta immediatezza. Altre non ne saprebbero rendere, come invece i suddetti. Su questa costante han costruito un’ideologia, che è poi il loro mestiere di narratori: l’energia, la chiarezza, la non-letteratura.
Flaubert sceglieva un ambiente; loro no.
Dostojevskij costruiva un mondo dialettico; loro no.
Faulkner stilizza atmosfere e mitologizza; loro no.
Lawrence indagava una sfera cosmica e l’insegnava; loro no.
Sono i tipici narratori in prima persona. (PAVESE, 1952)

Al di là di queste scarne notazioni, il merito di Pavese sta nell’aver introdotto all’opera di Hemingway una sua allieva particolarmente dotata. Siamo a Torino, nella primavera del 1935, e Fernanda Pivano è una giovane studentessa del liceo classico D’Azeglio. Tra le versioni da Erodoto, l’antipatia per la professoressa di chimica e l’amicizia con i suoi compagni – tra cui Primo Levi, «sommesso e timidissimo», ma che «si imponeva da gigante con la sua bravura, il suo talento, la sua gentilezza» (PIVANO, 2008) – rimane folgorata dall’arrivo di un supplente di italiano «giovane giovane», un po’ ritroso, con i capelli arruffati, ma con «una bellissima voce che avrebbe fatto invidia a un attore, un po’ atona, un po’ soffocata, sempre sommessa, fascinosa mentre leggeva Dante o Guido Guinizelli e li rendeva chiari come la luce delle stelle». Fa lezione sul Momigliano (manuale inviso al ministero), cita De Sanctis e Croce, e non fa mistero della sua insofferenza per le fanfare in camicia nera. Lui è, appunto, Cesare Pavese, e i suoi studenti lo adorano. Un giorno l’idillio viene interrotto dalla polizia fascista, che lo arresta e lo manda al confino. Fernanda, bocciata all’esame di italiano, lo rivede per caso in piscina tre anni più tardi, nel 1938. Pavese non ricorda la sua vecchia allieva, ma se ne innamora all’istante. L’ammirazione sconfinata di lei, però, non sfocia nella passione amorosa (due volte lui la chiederà in sposa, due volte lei opporà un garbato rifiuto) ma l’intesa intellettuale è ottima, e mentre lei prepara la tesi su P.B. Shelley, Pavese le suggerisce di dirottarsi verso la letteratura americana. Così la Pivano:

Naturalmente gli avevo chiesto che differenza c’era tra le due letterature e lui si era passato la pipa da una parte all’altra della bocca e invece di rispondermi mi aveva lasciato in portineria quattro libri, ognuno avvolto in una carta da pacchi arancione e il titolo scritto in corsivo con la penna stilografica, come usava allora: Farewell to Arms di Ernest Hemingway, Leaves of Grass di Walt Whitman, l’autobiografia di Sherwood Anderson e questo strano libro di poesie, Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters. (PIVANO, 2008)

Un gesto così semplice come portare dei libri poteva costare caro a quei tempi. Proprio quell’anno, il 1938, segna un vigoroso giro di vite nella censura fascista, che si fa più stringente, più puntigliosa, aspirando al controllo sistematico di ogni uscita editoriale. «A datare dal 1° aprile c.a. soltanto questo Ministero potrà autorizzare la diffusione in Italia delle traduzioni straniere» recitano i documenti ufficiali (RUNDLE, 2010). Incurante del pericolo, Fernanda legge i libri d’un fiato e traduce Masters: grazie ad un astuto stratagemma – la raccolta viene spacciata per una devota e improbabilissima Antologia di S. River – il libro esce nel 1943 presso Einaudi. Fernanda, ormai conquistata dalla letteratura americana, lavora ora su Addio alle armi di Ernest Hemingway, altro testo proibitissimo dal fascismo.

Il perché sia proibito è facile da intuire. È un romanzo antimilitarista, antiretorico, e la descrizione della disfatta di Caporetto (a cui tra l’altro Hemingway non assistette, modellandola sulla ritirata greca in Tracia durante la guerra greco-turca del 1922) è considerata lesiva per l’onore delle forze armate italiane. Facile immaginare, dunque, perché Hemingway suscitasse l’entusiasmo degli oppositori. Come è facile immaginare la faccia delle SS naziste quando, durante una retata presso la sede di Einaudi, trovano il contratto di traduzione per Addio alle armi. Commettono però un errore: il contratto è erroneamente intestato a «Fernando Pivano» e le SS arrestano Franco, il fratello di Fernanda. Appena ricevuta la notizia, lei si fionda all’Hotel Nazionale, il quartier generale nazista dietro piazza San Carlo, e riesce, pur tra mille difficoltà, a chiarire l’equivoco. Scagionato il fratello, rimane in carcere per dodici ore, subendo interminabili interrogatori, continue minacce, feroci intimidazioni, in una corrida, così la definirà, «in cui io sono un povero torellino inesperto e loro matadores che da anni passavano la vita a mandare la gente nei lager» (PIVANO, 2008).

L’episodio dovette giungere alle orecchie di Hemingway poiché, una volta finita la guerra, invita la Pivano a raggiungerlo all’hotel Concordia di Cortina, aperto fuori stagione solo per lui. Lei all’inizio pensa ad uno «scherzo di cattivo gusto», poi si precipita sul «trenino da favola ora scomparso delle Dolomiti» (PIVANO, 2017) e lo raggiunge. È il 10 ottobre del 1948:

Quando mi aveva vista lì sulla porta della sala da pranzo, coperta di fuliggine e di polvere e troppo emozionata per entrare, si era alzato e aveva attraversato il salone con le braccia aperte richiudendole su di me in uno hug come quelli di cui avevo letto nei suoi racconti; poi mi aveva preso per mano e accompagnandomi al tavolo mi aveva detto in uno di quei bisbigli coi quali mascherava la sua leggera balbuzie: “Tell me about the Nazi” (PIVANO, 2008).

È l’inizio del sodalizio tra Papa (come lei chiama lui) e Daughter (come lui chiama lei). Lui le parla di Fitzgerald e Gertrude Stein, impilando tutti i ricordi della stagione parigina che riorganizzerà in A Moveable Feast. Lei accumula indelebili memorie, tra luci e ombre: la lunga tavolata del Natale 1948 a villa Aprile, sempre a Cortina; le gite in montagna su una vecchia Buick azzurra; l’«ombra permanente di disperazione» (PIVANO, 2017) al Gritti di Venezia, dove la chiama nel 1954, l’anno del Nobel, per sostenerlo dopo l’incubo di uno sciagurato safari in Congo (con ferite, notti all’adiaccio e ben due incidenti aerei); il solare declino alla Finca Vigia, la casa di Hemingway a Cuba, dove Fernanda lo rivede nel 1956 con «i suoi bermuda sorretti per miracolo sotto lo stomaco teso dal gin» (PIVANO, 2017).
In tutto si conteranno, su Hemingway, una biografia, la curatela dell’opera omnia, cinque edizioni delle opere, quindici prefazioni, quattro traduzioni, innumerevoli pagine critiche.

Altro autore italiano innamorato di Hemingway è Elio Vittorini. Proprio nel 1938 (l’anno dell’incontro tra Pavese e Pivano e, si badi, delle leggi razziali) esce il suo Conversazione in Sicilia, in cui il ritmo cadenzato, le ripetizioni ipnotiche e il dialogo salmodiante scoprono l’inequivocabile riferimento. D’altronde, il suo prende le forme di un panegirico: «Hemingway rimane per me lo Stendhal del nostro secolo» (VITTORINI, 1957). Lo annovera, insieme a William Faulkner e a Thomas Stearns Eliot, tra i «nuovi classici» (VITTORINI, 1942). Scrivendo direttamente a lui – i due intrattengono una corrispondenza – gli confessa senza piaggeria: «Ho letto dodici volte Guerra e pace di Tolstoi ma non ho ancora letto (nemmeno una volta) il suo ultimo capitolo. Idem per Moby Dick che ho letto cinque volte. Coi suoi libri questo mi è successo per Farewell to Arms, […] è uno dei libri coi quali voglio continuare a vivere, e voglio che non finiscano» (CHIRICO, 2002). E quando tutti lo danno per finito, e criticano ferocemente il suo Di là dal fiume e tra gli alberi, Vittorini non esita a scomodare l’arduo confronto con l’Ivan Il’ic di Tolstoi.

L’ammirazione, tra l’altro, è ricambiata. Grazie alla preziosa mediazione dell’editore americano di Vittorini, James Laughlin, quando nel 1949 esce negli Stati Uniti Conversations in Sicily Hemingway accetta di scriverne la prefazione: «Sento un forte senso di vergogna per molte cose che abbiamo fatto in Italia, ed è un piccolo atto di pentimento, cercare di aiutare giovani scrittori italiani in qualsiasi modo possibile» dirà in merito alle ragioni della sua disponibilità (CHIRICO, 2002). E nel testo della prefazione non si dilunga in perifrasi: «Elio Vittorini è uno dei migliori scrittori contemporanei in Italia» esordisce, paragonandolo a pioggia benefica contro le secchezze dell’«Italia e dell’America accademica», con la sua poetica delle cose – mutuata proprio da lui – fatta di «conoscenze, esperienze, vino, pane, olio, sale, aceto, letto, mattinate, notti, giorni, mare, uomini, donne, cani, macchine amate, biciclette, colline e valli, l’apparizione e sparizione dei treni sui binari dritti e a curve, amore, onore e disobbedienza, musica da camera e catini di stanza da letto» (CHIRICO, 2002).

La fascinazione perHemingway, in Italia, nasce dalla capacità dello scrittore americano di essere una voce di protesta politica e letteraria insieme, di declinare la sua netta opposizione al fascismo in un linguaggio secco ed essenziale, così lontano dal linguaggio retorico con cui il fascismo si rappresentava. La sua ostilità non è solo fattiva, pratica, ma è già implicita in una dimensione puramente letteraria, sul mero piano delle scelte espressive, contro lo stile fascista artificioso, ampolloso, carico di enfasi, tutto votato ad una vuota magniloquenza.
Lo stile di Hemingway era l’opposto di un certo ostinato dannunzianesimo, estetizzante e belletrista: D’Annunzio era il massimo punto di fusione tra il languore classicista e lo scoperto sapore reazionario. Tutto ciò si univa a una precedente tradizione letteraria non molto dissimile, che andava dal frammentismo di marca vociana al romanticismo più arrembante, disciolto nelle soffuse melensaggini da libro Cuore.
Tutto in quegli anni sembrava inzuppato di enfasi, di svenevoli struggimenti, di aspre passioni, senza il controcanto di uno stile tagliente e chirurgico, più aderente alla realtà. Il controcanto, se c’era, era semmai un piatto tono crepuscolare, un rimasticato petrarchismo, la medietà sorniona di un Manzoni o il livellamento aureo di un Ariosto, per intenderci, sempre in bilico verso un’atmosfera da «vita provinciale di borghesi o contadini, tendenza ad evitare contrasti netti, rassegnazione cristiana, pittura di genere, ritratti di famiglia» (PRAZ, 1950). Insomma, si oscillava tra fosche pennellate e colori pastello, senza una terza via.

Hemingway rappresentava proprio questa terza via politica e letteraria, e lo testimoniava, agli occhi degli antifascisti, la sua avversione per Benito Mussolini e per Gabriele D’Annunzio, l’idolo politico e l’idolo letterario della cultura fascista.
In realtà, in un primo momento, inviato a Milano dal Toronto Daily Star per un’intervista a Mussolini nel giugno del 1922, l’autore si era unito alle tante voci di cronisti americani che elogiavano il Duce come «un uomo grande, dalla faccia scura, con una fronte alta, una bocca lenta nel sorriso e mani grandi», non certo come «il mostro che è stato dipinto» (CANALI, 2017). L’infatuazione, però, pare già smaltita nel gennaio del 1923, quando assiste ad una conferenza stampa di Mussolini a Losanna (nel mezzo si è consumata la marcia su Roma e la presa del potere). «Mussolini è il più grande bluff d’Europa» esordisce senza eufemismi. Ed esorta: «Provate a prendere una buona foto del signor Mussolini ed esaminatela», ridicolizzando «il cipiglio mussolininano imitato in Italia da ogni fascista diciannovenne», la nevrotica propensione al duello, persino l’abbigliamento («C’è qualcosa che non va, anche sul piano istrionico, in un uomo che porta le ghette bianche con una camicia nera»). Insomma, lo liquida come un vigliacco, un truffatore, un cattivo attore, simile, più che a Napoleone, a Horace Bottomley, il capo degli interventisti inglesi durante la guerra, «un enorme Horace Bottomley italiano, bellicoso, duellista e riuscito». La ferocia della critica si scioglie poi nell’aperta canzonatura, quando il cronista riporta questo aneddoto spassoso:

Mussolini sedeva alla scrivania leggendo un libro. Il suo viso era contratto nel cipiglio famoso. Faceva la parte del dittatore. Essendo un ex giornalista, sapeva benissimo quanti lettori sarebbero stati toccati dai resoconti che gli uomini presenti in quella stanza avrebbero scritto dopo l’intervista che egli s’accingeva a dare. E restava assorto nel suo libro. Mentalmente leggeva già le pagine dei duemila giornali serviti da quei duecento inviati: «Quando entrammo nella stanza, il dittatore in camicia nera non alzò gli occhi dal libro che stava leggendo, talmente intensa era la sua concentrazione…» eccetera eccetera. Per sapere quale fosse il libro che leggeva con avido interesse, gli andai dietro in punta di piedi. Era un dizionario francese-inglese, che teneva capovolto. (HEMINGWAY, 1923)

Mussolini è tacciato come «l’opportunista più astuto della storia moderna» (PIVANO, 2008) e i suoi fascisti come pericolosi delinquenti, con il loro «cinismo da quattro soldi» (HEMINGWAY, 1953) e il loro «gusto dell’illegalità tollerata, del delitto impunito e del diritto a tumultuare quando e dove volevano» (HEMINGWAY, 1922).
Anche per D’Annunzio Hemingway ha un’infatuazione giovanile negli anni della guerra: a Roncade, in provincia di Treviso, accorre ad una commemorazione bellica solo per vedere quell’«uomo straordinario», «divinamente coraggioso» (HEMINGWAY, 1923). Tornato a casa, vuole dedicargli addirittura un romanzo (presto interrotto) e cita spesso Il Fuoco, che piaceva anche a molti altri insospettabili come James Joyce (Il Fuoco, con la sua storia di un amore autunnale nella laguna veneziana, sarà il modello palese del malinconico Di là del fiume e tra gli alberi, in cui non a caso compare proprio il Vate). Ma cambia idea: già nel romanzo veneziano ridimensiona le sue imprese belliche sogghignando che «era passato tra le varie armi dell’esercito come era passato tra le braccia di varie donne», e descrivendo «la sua faccia bianca, bianca come la pancia di una sogliola appena rigirata al mercato» (HEMINGWAY, 1965). Più tardi liquiderà D’Annunzio come un esaltato militarista, fondamentalmente «un coglione» (HUGHES-HALLET, 2013).
Significativa, in questo senso, è una delle sue poesie, intitolata proprio D’Annunzio, quasi spietata nella laconicità del suo giudizio: «Mezzo milione di mangiaspaghetti morti./ E che gusto ci ha provato/ quel figlio di puttana» (HEMINGWAY, 1982).

La prosa di Hemingway, dunque, asciutta ed essenziale, ritmata sulla semplice linearità dei parallelismi e sulla sobrietà delle scelte lessicali, era proprio quello che gli intellettuali italiani antifascisti andavano cercando. Niente arcaismi, niente preziosismi, niente tamerici salmastre e mirti divini. La leggenda vuole che Hemingway abbia seguito per tutta la vita le regole di un manuale che girava al The Kansas City Star: frasi brevi, concetti chiari, aggettivazione ridotta all’osso. «È partita da lì la sua lunga e forse incompiuta ricerca delle right words, versione americana del mot juste che ossessionava Flaubert» (FERRARESI, 2015). Nota è la polemica con William Faulkner, che lo accusava di non aver mai usato una parola che il lettore dovesse andare a cercare sul vocabolario. La risposta, caustica, è una vera e propria dichiarazione di poetica: «Povero Faulkner. Crede davvero che le grandi emozioni derivino dalle grandi parole?» (GNOCCHI, 2014). È una ricerca esasperata del semplice, dell’essenziale, un labor limae puntiglioso di continue riscritture che tende al taglio, alla sottrazione, allo sfoltimento, secondo quello che l’autore definisce il principio dell’iceberg:

Io cerco sempre di scrivere secondo il principio dell’iceberg: i sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi. Tutto quel che conosco è materiale che posso eliminare, lasciare sott’acqua, così il mio iceberg sarà sempre più solido. L’importante è quel che non si vede (HEMINGWAY, 1999).

Bisogna pur ammettere che non sempre gli autori italiani riusciranno ad emulare il minimalismo profondo dell’originale. Emilio Cecchi si lamenta che questo dialogato di Hemingway «oggi ce lo ritroviamo tra i piedi, dovunque» (FALQUI, 1941) e il suo primo seguace, Elio Vittorini, verrà accusato di snaturare la semplicità hemingwayana, risultando «falso, affettato, puerilmente retorico, con lo stesso effetto di assurdità di un’imitazione europea settecentesca di arte cinese, o di una certa pittura giapponese di Napoleone a Sant’Elena coi soldati inglesi vestiti come samurai» (PRAZ, 1950). Secondo Enrico Falqui, «la spontaneità tra di cronaca nera e di ripetizione fonografica» di Hemingway, trascorre, nelle mani di Vittorini, «di continuo nel concettoso, nel simbolico e qua e là nel decorativo» (FALQUI, 1941). Chi non lo accusa apertamente di plagio, lo declassa a mediocre imitatore – affermando, ad esempio, che Uomini e no sta a Per chi suona la campana come Callimaco ad Omero – o gli imputa, come fa Alberto Moravia, il fatto che «nelle pagine più deboli e meno persuasive la derivazione, la maniera, e, insomma, l’artificio, sono visibili» (MORAVIA, 1941).

Tutto questo è sicuramente vero. Ma nel 1941 Vittorini cura l’antologia Americana, che contiene Il ritorno del soldato Krebs tradotto da Linati e Monaca e messicani, la radio e Vita felice di Francis Macomber, per poco tradotti (male) da Vittorini. Vengono esaltati i simboli letterari che «nascono, in Hemingway, senza travaglio uterino; per elisioni, sottintesi e ritorni di immagini: come Minerva nacque dal cervello di Giove» (VITTORINI, 1941), ma ormai siamo oltre la letteratura, e la sovrapposizione con la politica appare inscindibile.
Partecipano in tanti – da Eugenio Montale a Cesare Pavese, fino a Guido Piovene e Alberto Moravia – in uno sforzo corale senza precedenti. La sua pubblicazione, ferocemente osteggiata dalla censura fascista, segna il culmine del mito dell’America, e, per un paradosso solo apparente, l’avvio della sua rottamazione. Con la dissoluzione dell’incubo della dittatura si dissolveva anche il sogno di un Eden di dorata libertà. Hemingway, nel dopoguerra, verrà studiato, tradotto, analizzato – nel 1949 uscirà finalmente la traduzione della Pivano di A Farewell to Arms – fino a diventare un classico. Ma in quella nera stagione della nostra storia, quelle pagine così taglienti e concise, quella guerra alle gonfiature e alle ridondanze, furono molto più di un classico: furono un inno ad evadere dal carcere del totalitarismo, e il piano ideale su cui proiettare le speranze e i desideri di un popolo intero.

Bibliografia

    • LINATI 1932 = Scrittori angloamericani d’oggi di Carlo Linati, Corticelli, Milano, 1932
    • ANTONELLI, 2008 = Pavese, Vittorini e gli americanisti. Il mito dell’America di Claudio Antonelli, Edarc Edizioni, Firenze, 2008
    • PAVESE, 1951 = La letteratura americana e altri saggi di Cesare Pavese, Einaudi, Torino, 1951
    • PAVESE, 1945 = Ritorno all’uomo di Cesare Pavese, L’Unità, 20 maggio 1945
    • PAVESE, 1966 = Cesare Pavese. Vita attraverso le lettere, a cura di Lorenzo Mondo, Einaudi, Torino, 1966
    • PAVESE, 1952 = Il mestiere di vivere di Cesare Pavese, Einaudi, Torino, 1952 (in data 19 marzo 1947)
    • PIVANO, 2008 = Diari 1917-1973 di Fernanda Pivano, Bompiani, Milano, 2008
    • RUNDLE, 2010: Publishing tranlsation in fascist Italy di Cristopher Rundle, Peter Lang, Berna, 2010
    • PIVANO, 2017 = Hemingway di Fernanda Pivano, Bompiani, Milano, 2017
    • VITTORINI, 1957 = Diario in pubblico di Elio Vittorini, Milano, Bompiani, 1957
    • VITTORINI, 1942 = Americana. Raccolta di narratori dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani, 1942
    • CHIRICO, 2002 = Lettera di Vittorini ad Hemingway del 12 marzo 1949, contenuta in Elio Vittorini. Epistolario americano a cura di Gianpiero Chirico, Arnaldo Lombardi Editori, Palermo-Siracusa, 2002
    • PRAZ, 1950: Cronache letterarie anglosassoni di Mario Praz, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1950
    • CANALI, 2017 = La scoperta dell’Italia. Il fascismo raccontato dai corrispondenti americani di Mauro Canali, Marsilio, Venezia, 2017
    • HEMINGWAY, 1923 = Mussolini: il più grande bluff d’Europa di Ernest Hemingway, traduzione di Mussolini, Europe’s Prize Bluffer, More Like Bottomley, The Toronto Daily Star, 27 gennaio 1923, contenuta in Dal nostro inviato Ernest Hemingway, traduzioni di Ettore Capriolo e Giorgio Monicelli, Mondadori, Milano, 1967
    • HEMINGWAY, 1953 = Lettera a Bernard Berenson, 20-22 marzo 1953, in Lettere 1917-1961 di Ernest Hemingway, Mondadori, Milano, 1984
    • HEMINGWAY, 1922 = La conferenza di Genova di Ernest Hemingway, traduzione di Picked sharpshooters patrol Genoa streets, The Toronto Daily Star, 13 aprile 1922, in Dal nostro inviato Ernest Hemingway, cit.
    • HUGHES-HALLET, 2013 = The Pike: Gabriele D’Annunzio, Poet, Seducer ant Preacher of War di Lucy Hughes – Hallet, Fourth Estate, Londra, 2013
    • HEMINGWAY, 1965 = Di là dal fiume e tra gli alberi di Ernest Hemingway, a cura di Fernanda Pivano, Mondadori, Milano, 1965
    • HEMINGWAY, 1982 = 88 poesie di Ernest Hemingway, introduzione e traduzione di Vincenzo Mantovani, Mondadori, 1982
    • FERRARESI, 2015 = Lettere, appunti, fotografie. Un operaio della scrittura di nome Ernest Hemingway di Mattia Ferraresi, il Giornale, 04/10/2015
    • GNOCCHI, 2014 = Nemici di penna di Alessandro Gnocchi, il Giornale, 11/02/2014
    • HEMINGWAY, 1999 = Il principio dell’iceberg, intervista a Ernest Hemingway sull’arte di scrivere e narrare a cura di George Plimpton, contenuta in I quarantanove racconti di Ernest Hemingway, Einaudi, Torino, 1999
    • FALQUI 1941: Conversazione in Sicilia di Enrico Falqui, in “La gazzetta del popolo, 19 giugno 1941
    • MORAVIA, 1941 = Vittorini “Gran Lombardo” di Alberto Moravia, in Documento, n°4, aprile 1941
  • VITTORINI, 1941 = Americana. Raccolta di narratori dalle origini ai nostri giorni, Bompiani, Milano, 1941

Autore: Mario Taccone
Revisione e cura: Alessandro Ardigò, Valentino Valitutti 

Licenza Creative Commons
Quest’opera di RadiciDigitali.eu è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.


Grazie!

Se sei arrivato sin qui a leggere, significa che il progetto RadiciDigitali.eu ti piace.
Ecco, devi sapere che tutti gli autori sono volontari, scrivono e si impegnano per diffondere una cultura e una didattica di qualità, verticale – dalla scuola primaria all’Università – e di respiro europeo.
La gestione del sito e le pubblicazioni cartacee hanno però un costo che, se vuoi, puoi aiutarci a sostenere.

Sostienici >>

Informazioni sull'autore

1 commento su “«Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi»: la ricezione di Hemingway in Italia”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Torna in alto