
L’intervista
Questa intervista a Federica Ravera risale al luglio 2018, quando era in fase di lavorazione il suo documentario, intitolato “albero, nostro“, nato per ricordare l’Albero degli zoccoli a quarant’anni dalla consacrazione con la Palma d’Oro al Festival di Cannes del 1978 [RAVERA 2018].
Federica Ravera è una filmmaker e montatrice che per molti anni ha collaborato con il maestro Ermanno Olmi alla realizzazione dei suoi lavori; l’estate scorsa mi ha proposto un’intervista sulla lingua dell’Albero degli zoccoli, o meglio sui dialetti, che sono uno dei linguaggi essenziali nel film. Questa richiesta mi ha colto alla sprovvista per varie ragioni: non sono una linguista di professione; nella mia famiglia il dialetto non si è mai parlato; non provengo dalle zone in cui è stato girato il film… ma il mio incontro con la regista ha dato vita, proprio per questi motivi, a situazioni divertenti e interessanti. Le riprese del documentario di Ravera infatti sono avvenute nella frazione trevigliese di Castel Cerreto, tanto cara a Olmi, in cui il dialetto dell’Albero è tuttora una realtà viva. L’intervista che segue testimonia il work in progress di Federica Ravera ed è un omaggio a quella nostra chiacchierata nella calura estiva, al lavoro che sta dietro al documentario, alla poesia dell’Albero degli zoccoli e al maestro Ermanno Olmi.
Il documentario albero, nostro di Federica Ravera è inserito nel DVD dell’Albero degli zoccoli restaurato e uscito a dicembre 2018 ed è reperibile a questo link.
1. La frazione di Castel Cerreto
Quando si arriva a Castel Cerreto si ha l’impressione di trovarsi, come d’improvviso, in una piccola oasi nella bassa pianura bergamasca. O almeno così è parso a me, che ci sono arrivata in un afoso e caldissimo pomeriggio di luglio, di quelli che solo la pianura Padana sa regalare. Il Cerreto si trova quattro chilometri a nord di Treviglio ed è una frazione di questo comune: è come un’isola, dentro a un’area ormai prevalentemente disboscata, cementificata e industrializzata. Sono qui per intervistare Federica Ravera durante le riprese di albero, nostro.
Mentre aspetto l’arrivo della regista, seduta all’ombra, mi guardo intorno. Non è la prima volta che vengo qui: per chi, come me, abita nella pianura urbana circostante, Castel Cerreto regala la sensazione di bere un bicchiere d’acqua fresca quando si ha la gola secca. Federica sta realizzando un documentario sull’Albero degli zoccoli, proprio nell’anno in cui ricorre il quarantesimo anniversario della Palma d’oro al Festival di Cannes (1978): un’impresa ardua, se è vero che «L’Albero degli zoccoli rimane il più straordinario poema che il cinema abbia mai dedicato alla civiltà contadina» (CERUTI 2018). Un’opera dal valore universale, che però racconta la storia di persone e di luoghi particolari: ad esempio del posto in cui mi trovo seduta ad aspettarla.




Si sa, il tempo passa e l’uomo trasforma le cose secondo i propri bisogni, a propria immagine e somiglianza. Questo è particolarmente evidente qui: arrivare a Castel Cerreto da Treviglio, lungo la via Pontirolo, è un po’ come tornare a un tempo che non c’è più, respirare qualcosa dell’aria che la bassa pianura bergamasca doveva avere prima del boom edilizio e industriale degli anni Sessanta. Lo stesso nome, Cerreto (Serìt, nel dialetto di questa propaggine occidentale della provincia), conserva memoria della presenza di un bosco di cerri, che doveva sorgere nelle vicinanze del paese e che oggi non c’è praticamente più; del resto, la maggior parte delle aree boschive che ricoprivano una buona fetta della pianura Padana sono scomparse. In questo territorio fa eccezione ormai solo la Valle del Lupo, nella frazione di Badalasco, che fa parte del Parco naturale della Gera d’Adda, tra il fiume e la ferrovia che collega Bergamo a Treviglio. È difficile immaginare come fosse un tempo quel bosco, tanto esteso e selvaggio da essere abitato dai lupi: oggi infatti è ridotto a un piccolo lembo di terra.




Il centro del Serìt è tutto qui: la piazza con la casa dei conti Piazzoni, la chiesetta con il torrione, un paio di bar, alcune grandi cascine, piuttosto antiche, ancora abitate e utilizzate. Intorno, i campi e le rogge. Forse la cosa più bella è che non si tratta affatto di un borgo fantasma, di una sorta di reliquia immobile del passato. Al contrario, a Castel Cerreto abita una vivace comunità di circa 400 persone, con un senso d’identità molto forte e saldo.
Tutto, intorno a me, parla di Ermanno Olmi: gli odori, il silenzio, le zanzare, il cicaleccio delle persone sedute al bar. A questi posti il regista era molto legato, da sempre. Nelle cascine che si trovano nei dintorni sono state girate alcune scene dell’Albero degli zoccoli. Intorno, aleggiano le storie che gli raccontava la nonna trevigliese, e come per miracolo si ritrova il respiro lento della campagna di tanti anni fa, eterno come il ciclo delle stagioni, della semina e del raccolto. Quel ritmo semplice che nel film è diventato poesia universale, di tutti.
Mentre bevo acqua e menta per combattere la calura estiva, Federica Ravera arriva su una minuscola bicicletta, con una grossa telecamera e svariate attrezzature. Ci conosciamo già da diversi anni e quindi, per fortuna, non abbiamo bisogno di convenevoli. Ordiniamo un’altra acqua e menta e, mentre lei sistema i suoi strumenti, iniziamo a parlare del progetto a cui sta lavorando: il documentario sull’Albero degli Zoccoli. Il punto di partenza della nostra chiacchierata è il dialetto, sono le varietà dialettali che gli attori parlano nel film. Il discorso si allarga presto: parliamo di cinema e di documentari, ovviamente, e dell’importanza dello sguardo, e di molte altre cose.
2. albero, nostro
Serena Lunardi (SL): Federica, si può dire che tu ti sei formata alla scuola di Ermanno Olmi.
Federica Ravera (FR): Ho collaborato con Ermanno Olmi da quando avevo circa vent’anni e ho iniziato con lui questo mestiere. Per me è stata una scuola. Ho lavorato direttamente sul campo: è stata una formazione da bottega, sia sul fare sia sul pensare.
SL: Com’è nata l’idea di un documentario sull’Albero degli Zoccoli? Cosa vi proponete di raccontare?
FR: L’idea è nata l’anno scorso, nel 2017, in vista delle celebrazioni per i quarant’anni del premio di Cannes del 2018. I comuni che hanno aderito, Palosco e tutti quelli che sono stati coinvolti nel film [Mornico, Calcinate, Martinengo, Cividate e Cortenuova, ndr.], si sono riuniti in un’associazione temporanea per creare una serie di appuntamenti e di eventi lungo il 2018 che ricordassero l’Albero degli zoccoli. Si sono quindi individuate delle tematiche (ad esempio il dialetto, il ruolo della donna, la religione), attorno a cui ogni incontro ruota. Tra i vari progetti, si è pensato anche di fare un documentario con scopo didattico, ricalcando le tematiche proposte durante i seminari. Il comune capofila è Mornico al Serio; a occuparsi del progetto è stato il consigliere Marco Redolfi, che ha contattato la famiglia Olmi già l’anno scorso, spiegando tutta la progettualità e chiedendo il permesso di utilizzare le immagini del film. Redolfi ha proposto l’idea a Elisabetta [la figlia di Olmi, ndr.] e lei poi l’ha proposta a me. Quando, da ormai un anno, mi è stato affidato questo incarico, è iniziata la ricerca dei fondi per la realizzazione del progetto, che è finanziato dalla Provincia di Bergamo insieme ai Comuni.
SL: Per realizzare questo lavoro, torni nei luoghi che Olmi ha raccontato?
FR: Quello che sto facendo è raccogliere tutte le testimonianze delle persone che hanno lavorato al film e che sono ancora vive: sono attori / non attori. Li intervisto, chiedo loro di condividere i propri ricordi. Quelli che nel film erano bambini, adesso sono persone adulte. I vecchi sono quasi tutti morti, tranne la vedova Runc [Teresa Brescianini, ndr.], che è una figura abbastanza importante ed è molto bella anche nella realtà: incarna proprio ciò che rappresenta nel film. Riprenderò anche i luoghi del film, però in realtà di quei luoghi non c’è più niente. Ad esempio della cascina Roggia Sale, a Palosco, [in cui trascorre la vita delle quattro famiglie contadine protagoniste, ndr.] praticamente non è rimasto più nulla: è stato tutto ricostruito in chiave moderna, tanto che non si riconosce più niente dell’ambientazione dell’Albero degli zoccoli.
SL: Però già quando Olmi aveva girato il film quella cascina era semiabbandonata, non era più abitata.
FR: Inizialmente Ermanno aveva individuato una cascina, ma non era convinto del tutto. Poi, nei giorni in cui era in queste zone, per fare sopralluoghi oppure cercare gli attori, si è perso, e nella nebbia, pare… Lo so, è un po’ romantico! [ride, ndr.] Insomma, s’è perso nelle campagne e in una vietta strana ha visto questa cascina abbandonata; non ci viveva nessuno, ed era quella lì: era perfetta. Ha chiesto i permessi, l’ha riadattata e fatta sistemare: lo scenografo, qualche tempo prima di iniziare a girare il film, ha fatto riportare gli animali, di modo che tutto sembrasse che fosse lì già da molto tempo.
SL: Ti capita di scoprire cose nuove sul film mentre realizzi il documentario?
FR: Questo documentario non è solo un’occasione professionale per me: più vado avanti, più mi rendo conto che è un’occasione per conoscere sia Ermanno Olmi, attraverso i ricordi delle persone, sia un mondo che io in un certo senso non conoscevo, che è il mondo dell’Albero degli zoccoli. Questo documentario si sta sviluppando attraverso il rimando che una persona mi dà rispetto a una cosa, a un aspetto del film. Quindi è una specie di ping-pong. Se una persona che intervisto mi parla di una cosa, quella cosa diventa l’oggetto dell’intervista successiva, e allora vado a cercare chi è il soggetto principale. Questa per me è una ricerca, è un modo per imparare.
SL: Che tipo di difficoltà o di problemi devi fronteggiare?
FR: Il problema che mi pongo è di non cadere nella retorica dei bei tempi andati, di trovare un modo per cui, quando gli studenti vedranno questo documentario, non si annoino… Il problema principale è che stiamo parlando dell’Albero degli zoccoli: quindi si annoieranno di sicuro! [ride, ndr.] Il film ha un suo tempo, parla di cose talmente lontane che forse un paio di scene potrebbero incuriosirli… Però sono tre ore di film! C’è anche una lentezza…
SL: I ragazzi non sono abituati alla lentezza.
FR: Non sono abituati, ed è anche questo un tema del documentario. Ieri ho intervistato Franco Piavoli, che è un regista molto amico di Ermanno. Piavoli ha ottant’anni e ha fatto dei lavori bellissimi sulla natura, sulla contemplazione… È un poeta. Ragionavamo insieme sul fatto che nell’Albero degli Zoccoli il soggetto principale è il tempo, non sono i contadini. I contadini sono il tempo: quel modo di vivere, quel modo di fare rappresenta il tempo. Il tempo che scorre nel film è molto diverso dal tempo che scorre adesso. Questo già determina una difficoltà di comprensione. Bisogna allora trovare una chiave per cui i ragazzi che guarderanno il documentario non si perdano. E non è facile, perché non si può neanche stare dietro alle loro regole. Non è detto che le loro regole siano giuste: il fatto che non sappiano più concentrarsi, ad esempio, non è detto che sia giusto. Quindi bisogna trovare un trucco. Bisogna saperli incuriosire. Il problema principale è trovare un modo perché si divertano, si coinvolgano.
SL: Quale potrebbe essere un modo per avvicinare i ragazzi all’Albero degli zoccoli?
FR: Nel caso del documentario, una cosa che può aiutare è il montaggio, che determina il tempo. Può essere un tempo lungo, un tempo stretto, oppure un tempo fatto di una serie di rimandi continui che risolvono delle piccole questioni e allo stesso tempo ne aprono delle altre. Bisogna creare una specie di suspence… Perché i ragazzi sono curiosi. A ottobre dell’anno scorso abbiamo presentato il progetto con il presidente della Provincia, Matteo Rossi: avevamo davanti una scolaresca. Quando ho preso la parola, ho detto agli studenti che in fondo certe cose non cambiano: con i cellulari, questi ragazzi scrivono le stesse frasi d’amore del fidanzatino dell’Albero degli Zoccoli che chiede un bacino alla ragazzina. I sentimenti sono invariati: in fondo, i ragazzi di oggi provano le stesse cose che provavano i ragazzi nell’Ottocento.
SL: La differenza quindi sta solo nel fatto che, anziché scrivere una lettera con la penna d’oca, usano il cellulare?
FR: Dentro a questo sistema di comunicazione ci sono altre complicazioni, ma noi non dobbiamo guardare a quello: dobbiamo pensare che dentro a quel modo di comunicare diverso c’è lo stesso sentimento d’affetto che avevamo noi o che altri ragazzi avevano duecento anni fa. L’amore, la voglia di conoscersi, il timore, la paura di non essere perfetti, sono uguali. Perché giudicare i mezzi con cui i ragazzi comunicano? Il mio pensiero rivolto a loro parte da qui: con il documentario non voglio educarli o fare loro la paternale, ma coinvolgerli in prima persona, farli sentire attivi e importanti, responsabilizzarli.
SL: Per la scelta della musica dell’Albero degli zoccoli, Olmi ha avuto molte perplessità. Alla fine ha scelto Bach.
FR: Sì, diceva che nessuna musica che provava funzionava. In questo caso, aveva probabilmente prima girato senza pensare alla musica e dopo l’ha provata già sul montaggio, su scene già create e disposte una di seguito all’altra. Ci sono dei registi che fanno diversamente. Ad esempio Ėjzenštejn: lui era un maestro del montaggio, oltre che della regìa. Nella preparazione di Aleksandr Nevskij [1938, ndr.], aveva creato una musica ancor prima di avere delle immagini, che venivano girate successivamente. Aveva addirittura creato un diagramma audio-visivo in cui c’era la musica; sotto c’era un diagramma di picchi sonori, che lui ha trasformato in picchi d’immagine, e si vedono le inquadrature con cui aveva tradotto quelle note. Di solito invece si fa il contrario: la musica segue l’immagine.
SL: Come lavorava invece Olmi in preparazione di un film? Scriveva le sceneggiature?
FR: Ermanno non scriveva sceneggiature: erano tutti canovacci, almeno da un certo momento in poi. Mi è capitato di vederne alcuni, ma non descrivevano quasi nulla, davano solo indicazioni generiche. I particolari venivano decisi in seguito. Di solito, al contrario, nelle sceneggiature si scrive ogni minimo particolare: alcuni vedono già quello che riprenderanno. Lui non entrava così tanto nel dettaglio, quando scriveva: si lasciava libero. Quello che era importante, lo scriveva come appunto personale. A volte lo cambiava. Ad esempio è capitato così con Torneranno i prati [2014, ndr.]. Avevamo girato moltissimo, tutto ad Asiago. Poi, una domenica mattina, Ermanno ci ha chiamati per andare da lui. Era seduto nel suo studio e ci ha detto: “C’è un problema. Non ho ben capito a che punto siamo arrivati”. Abbiamo iniziato a giocare a spostare la sceneggiatura. Ci diceva: “Questo l’abbiamo girato?”. “Sì, l’abbiamo girato”. “Allora, proviamo a spostarlo più giù, proviamo a spostarlo più su…”. Praticamente, abbiamo riscritto la sceneggiatura con quello che lui aveva già girato. Spostava i tasselli come voleva, finché non ha trovato il punto a cui voleva arrivare. Pensa che stavamo ancora girando, quindi in realtà per lui il film era una continua trasformazione: la sceneggiatura non era fissa. Faceva già montaggio mentre riprendeva e poi rimontava il tutto. Gli spostamenti li faceva sulla sceneggiatura scritta, sul canovaccio.
SL: Ho letto che forse il film del Sergente nella neve, di cui invece è rimasta solo la sceneggiatura [OLMI-RIGONI STERN 2008, ndr.], non si è mai realizzato perché Olmi aveva delle difficoltà ad andare in Russia, non avendo la tessera del P.C.I.
FR: Aveva il problema contrario di Tarkovskij, che non poteva venire in Italia o andare a Cannes! Tarkovskij ha mandato a Cannes il film Andrej Rublëv [1966, arrivato a Cannes nel 1969, dopo un lungo braccio di ferro con il regime sovietico, ndr.] quasi di nascosto; poi ha vinto il premio internazionale della critica. Ermanno era considerato un outsider cattolico dalla critica militante della sinistra italiana: non aveva la tessera del P.C.I., era visto malissimo. L’Albero degli zoccoli era odiato: i contadini non si ribellavano, vivevano in questa fede infinita… Negli anni Settanta, in Italia l’intellettuale doveva per forza essere di sinistra. Se non dicevi cose di sinistra, se non rappresentavi l’operaio o il contadino che si ribella dall’oppressione, eri criticato. In Ermanno l’aspetto religioso è molto forte. Lui si definiva uno che cercava di capire la fede, un ricercatore. La sua fede era sicuramente cattolica, così come lo è stata la sua formazione da parte della famiglia, soprattutto della nonna di Treviglio. Però non era praticante in senso dogmatico: si poneva mille domande nei confronti di Dio, della Chiesa. In Centochiodi [2007, ndr.], inchioda i libri per privilegiare il rapporto con le persone. Anche quel film ha suscitato molte polemiche, però il messaggio non era un invito ad inchiodare la cultura, ma a sottolineare che non ci si deve fissare troppo sul dogma, sul libro, con il rischio di perdere di vista i rapporti umani, che sono la cosa più importante.
SL: Centochiodi doveva essere il suo ultimo film, giusto? Poi è tornato a girare solo documentari?
FR: Sì, lui aveva detto che sarebbe stato l’ultimo. Dopo ha fatto dei documentari, Terra madre, Rupi del vino [2009, ndr.], però poi è tornato a girare altri due film: Il villaggio di cartone nel 2011 e Torneranno i prati nel 2014. Fare un film è complicato: ci sono in ballo tanti soldi, tanta gente, una troupe da trenta a cinquanta persone. Servono le assicurazioni, bisogna risolvere tanti problemi. Per realizzare un documentario, prendi una banda di squinternati [ride, ndr.], vai in Valtellina, riprendi i vigneti, scrivi un canovaccio con quello che vuoi riprendere, ed è presto fatto. Un film prevede che si scriva la sceneggiatura, che la si mandi alla RAI perché venga letta, che sia approvato il finanziamento… È un mondo completamente diverso. Forse voleva smettere di fare film e riprendere con i documentari per essere più libero. Il documentario ti rende più libero.
SL: Hai collaborato con il tuo maestro alla realizzazione sia di film sia di documentari. Tu personalmente cosa preferisci?
FR: Mi manca Ermanno [ride, ndr.]. Preferisco che sia ancora vivo. Mi manca.




SL: In un’intervista hai spiegato che il progetto è quello di raccogliere i «semini di memoria che il maestro Olmi ha seminato per offrire uno strumento didattico da usare a scuola» [RAVERA 2017]. Ma com’è possibile rileggere in chiave attuale il mondo dell’Albero degli zoccoli, se già si stava perdendo quando Olmi ha girato il film, nel 1977?
FR: Questo è un punto molto difficile, però sono convinta di una cosa: l’unico strumento perché L’Albero degli zoccoli venga compreso oggi, da tutti, è coinvolgere gli immigrati. L’idea mi è nata dall’esperienza del documentario Terra Madre [2009, ndr.], legato a un progetto di Carlo Petrini [ideatore di Slow food e del Meeting mondiale delle Comunità, che dal 2004 per la prima volta si è affiancato al Salone del Gusto di Torino, ndr.]. Petrini ha portato a Torino contadini di tutto il mondo, pagando loro il viaggio, facendoli uscire per la prima volta dal loro villaggio e dalla loro nazione. Li ha fatti incontrare tutti in una grande struttura, dove erano protetti: nessun altro poteva entrare se non loro. Noi abbiamo ripreso questa realtà. La cosa che ci colpiva era che, nonostante parlassero lingue diverse durante gli incontri che facevano, e nonostante fossero persone che non conoscevano nessuna delle lingue principali di comunicazione, poiché parlavano solamente i loro dialetti puri, si capivano benissimo con i gesti o con una fotografia. Anche il metodo con cui venivano trattati gli animali, che fosse stato nella Norvegia più estrema o nell’Africa più profonda, era simile: la pecora aveva comunque più o meno delle esigenze simili, quindi queste persone avevano un retroterra comune. Questa è la cosa che aveva colpito tutti noi che seguivamo il progetto. Il lavoro su Terra Madre mi ha fatto pensare che un modo per far capire oggi qual era la condizione di vita rappresentata nel film passa appunto attraverso la comunicazione con chi è immigrato qui: guardare in classi multiculturali l’Albero degli zoccoli ripeterebbe una situazione simile a quella di Terra Madre. Tutti, dentro a quei gesti, dentro al film, potrebbero avere l’occasione di scoprire che c’è qualcosa che gli appartiene, che provengano dalla pianura bergamasca o da altre zone del mondo. Se non i ragazzi, i loro genitori. Questo potrebbe essere un gioco semplice per far capire a tutti che ci sono delle radici comuni, per cui anche chi ti sembra molto lontano da te, anche chi parla una lingua diversa dalla tua, ha tuttavia le proprie parole per identificare le medesime realtà, che appartengono quindi a lui così come a te.
SL: Allora si può scoprire che abbiamo un bagaglio culturale in comune?
FR: Sì, e questo bagaglio è nelle cose semplici. Allora anche il ragazzino italiano, che non sa più il dialetto, può a sua volta scoprire che anche noi una volta avevamo una lingua, il dialetto appunto, che descriveva quella stessa cosa. Tutto passa attraverso la lingua: attraverso questo dialogo multiculturale, anche i ragazzini nati nei paesi in cui è stato girato il film, ma che non lo riconoscono più nei posti dove abitano, nello stile di vita che c’è, possono riscoprire le proprie radici. La globalizzazione non è omologazione, ma appartenenza a una cultura comune, antica, che è dell’uomo e della terra. Mi piacerebbe che tutti i ragazzi trovassero nel film, a partire dal film, qualcosa che corrisponde a loro. Molto di quel bagaglio semplice di conoscenze ormai è sparito, non esiste più niente di quel mondo: anche il modo con cui si coltiva è cambiato. Ci sono delle scene, nel film, che fotografano realtà scomparse dalla memoria collettiva, ad esempio quando il nonno riesce a far germogliare i pomodori prima di tutti perché sa il trucco della cacca delle galline: ecco, quella conoscenza lì si è persa. Non solo si perdono delle cose, ma si perde anche un sapere. Fino a che si coltivava così, finché c’era quel tale dialetto che definiva quel mondo, tutto questo è esistito. Adesso sta scomparendo, o forse già non c’è più. Se ci guardiamo indietro, si tratta di millenni di cultura umana, di storia.
Inutile dire che anche il Cerreto, dove ci troviamo a chiacchierare, è un’oasi a rischio. Basti pensare che è in progetto la costruzione di un’autostrada per collegare Treviglio a Bergamo: una bretella di raccordo dovrebbe passare proprio tra la frazione della Geromina e Castel Cerreto. Il progetto prevede la deviazione in tubazioni di cemento delle Rogge Vailata e Vignola, con la perdita conseguente di un altro pezzo di vita rurale in questa pianura, già martoriata dal cemento. Addio fughe dalla città e bicchieri di acqua fresca! A tutela di questo patrimonio sono sorte però delle iniziative interessanti: ad esempio, la Cooperativa agricola Castel Cerreto, che ha sede alla Cascina Pèlesa, una delle più antiche in quest’area; la costruzione risale infatti al XVI secolo, quando era una chiesa con annesso monastero. Alcuni agricoltori della zona hanno creato qui un’azienda ortofrutticola, con l’obiettivo di lanciare «una sfida all’agricoltura industriale», proponendo «una produzione biologica, stagionale e di prossimità». L’intento è quello di «proteggere e valorizzare le qualità ambientali del territorio, […] con la collaborazione degli abitanti del luogo» (CCC 2018). Un’altra boccata di aria fresca: ce n’è davvero bisogno, in mezzo a tanto cemento, con tutta quest’afa.
Il primo agosto, l’associazione culturale di Treviglio Nuvole in viaggio ha organizzato nell’aia della cascina Pèlesa la proiezione dell’Albero degli zoccoli: questa iniziativa si pone a chiusura di Fuori il cinema, un ciclo di serate a ingresso gratuito, in cascina, con proiezioni di film e annesso aperitivo a base di prodotti locali. Il maestro Olmi ne sarebbe stato contento.
SL: Abbiamo divagato, torniamo all’intervista. Olmi è stato documentarista prima ancora che regista di film; tu hai collaborato con lui negli ultimi vent’anni. Come si fa un documentario?
FR: Ti dico delle cose che mi sono state insegnate da Ermanno. Qualunque cosa passa attraverso lo sguardo: quindi qualunque cosa tu faccia, qualunque mestiere, devi allenare lo sguardo. E per saper guardare, bisogna saper attendere e osservare cosa ti passa davanti. È una forma di contemplazione. Quando impari a guardare, quando alleni questo metodo di guardare le cose, di guardarle veramente, scopri che ci sono situazioni che si ripetono. In realtà, tutti si muovono nello stesso modo. Se guardiamo delle persone che sono sedute attorno a un tavolo, io so già – ma anche tu lo sai – che tra poco qualcuno si alzerà per ordinare un caffè, e lo possiamo capire perché magari vediamo dei segnali a quel tavolo. Oppure, se ci sono delle carte sul tavolo, è probabile che quelle persone giocheranno una partita a scopa. Sono tutta una serie di dettagli che già raccontano quello che sta per succedere, e c’è un tempo dentro al quale succede. Questo tempo è molto umano: l’essere umano ha tutto un modo per fare le cose, ha dei ritmi. A furia di guardare, di ascoltare, impari i ritmi degli esseri umani, dell’umanità, di come si muove, di come si comporta. Però è una storia vecchia: già Anton Cechov diceva che, se in un romanzo o sul palco di un teatro compare una pistola, prima o poi spara. Ecco: bisogna saper guardare le cose come accadono. Questo è il primo passo per imparare poi a riprendere.
SL: Tu e il tuo maestro appartenete a due generazioni diverse: ci sono differenze fra quello che hai imparato da lui e il modo in cui lo applichi nei tuoi lavori?
FR: La differenza principale fra documentare ieri e oggi l’ha vissuta anche Ermanno. Anche se apparteneva a un’altra generazione, era un artista vero. Quindi era più giovane di me. Quando hai di fronte persone così, non c’entra niente l’età. La differenza più grossa rispetto a ieri è la purezza che non c’è più e la malizia che trovi nello sguardo delle persone. Adesso tutti sanno cos’è una telecamera e purtroppo la telecamera è per molti la televisione. Allora bisogna trovare un altro modo di avvicinarsi alle cose. Bisogna rispettarle per avvicinarsi, non tradirle. L’inquinamento mentale rende più difficile fare i documentari.
SL: In effetti, poco fa le persone sedute al bar ti hanno visto mentre riprendevi e pensavano che fossi una specie di inviata di qualche canale televisivo. Come ti comporti in questo tipo di situazioni?
FR: La mia telecamera non ha niente a che fare con quella della televisione e non voglio mentire alle persone che incontro: se mento, tradisco queste persone. Se tu tradisci queste persone oggi, le hai tradite per sempre e quindi non si fideranno più di te. Quella poca fiducia che c’è, per chi vuole girare un documentario o fare determinati lavori, è una perdita enorme di possibilità di avvicinarsi alla realtà. Non bisogna inquinare il proprio campo d’azione. Fare un documentario vuol dire riprendere la realtà che ti si para davanti così com’è, però quella realtà così com’è, oggi, non è più pura, è già filtrata. Allora devi superare quel pregiudizio, devi rapportarti con le persone, entrare in relazione, metterle a loro agio, e poi riprendere. Io ho imparato da Ermanno. Per avvicinarsi alle cose e non essere come la televisione, bisogna spendersi umanamente, bisogna avere la fiducia e dare fiducia. Serve tanto tempo.SL: Hai iniziato a lavorare con Olmi quando eri molto giovane. Come sei entrata in contatto con lui?
FR: Ermanno già da diversi anni aveva fondato una scuola di cinema [Ipotesi cinema, nata nel 1982 a Bassano del Grappa, ndr.]: con i pochi soldi della RAI, produceva un po’ di cose. La scuola ha poi chiuso a Bassano e ha riaperto a Bologna dopo alcuni anni [nel 2002, presso la Cineteca del Comune, ndr.]. Io ho scoperto questa scuola e sono andata a Bologna: avevo vent’anni. Mi piaceva molto perché non era una vera scuola: non c’era il professore, non dovevi studiare, ma imparare a fare delle cose, un po’ da autodidatta. Quindi sono rimasta lì, insieme ad altri, e poi Ermanno mi ha chiamato a lavorare con lui. Il primo film è stato Ticket, nel 2005, con Abbas Kiarostami e Ken Loach. Non dovevo fare niente: dovevo stare seduta di fianco a lui. Basta. Dovevo vedere cosa faceva lui. Secondo me, mi ha fatto provare questa esperienza per vedere se sapevo stare sul set, ferma, senza dare fastidio. Per stare sul set devi essere portato, perché è una cosa molto complessa. Da allora, ho iniziato a lavorare con lui.
SL: Mi sai dire un’esperienza che ti è rimasta impressa più di altre dei vari progetti a cui hai collaborato con Olmi?
FR: In generale, la cosa che mi porto dietro riguarda sempre lo sguardo e il saper guardare le cose. Nel senso che è incredibile ciò che ti accade davanti agli occhi e che non vedi. Quindi, quando ti fermi a cercare di vedere, è incredibile quello che vedi. E diventa ancora più incredibile se lo riesci a riprendere con la telecamera e poi lo riguardi, lo monti… Quello che mi porto di Ermanno è che lui quel metodo di sguardo, quel modo di vedere la realtà, lo riportava direttamente nei film, per cui era tutto reale. Anche quando si giravano film di finzione e si preparavano gli attori, lui faceva in modo che ci fosse già un’atmosfera. Tutta la troupe doveva avere un modo di stare sul set, che era sì un silenzio, ma un silenzio di attenzione. Era come quando sta per scoccare una freccia dall’arco. Devi catturare quel silenzio, quella tensione, quella concentrazione. Quando tutti insieme sono concentrati, poi stranamente tu guardi una scena e dici: “Ma io l’ho visto veramente! È accaduto, non è una recita…”. Quella capacità, che Ermanno aveva, proveniva da questo modo di guardare, di fare le cose. Non ricordo un’esperienza in particolare, ma in generale questa sensazione, che ho vissuto lavorando con lui.
Sta arrivando la sera. La morsa del caldo sta lasciando la presa, lentamente. Io e Federica finiamo la nostra chiacchierata e lasciamo il tavolo del bar, dove siamo sedute da ore. Nel frattempo, chi stava guardando la partita è uscito e si gode l’aria della sera. Inizia una partita a calcio improvvisata, nella piazza, sotto lo sguardo austero del torrione e della casa dei conti Piazzoni. La contessa pare ci guardi dalla finestra. Forse anche lo sguardo di Ermanno Olmi è su di noi: ci inquadra. Piazza di Castel Cerreto. Sera. Serena sorseggia acqua, Federica sistema la sua attrezzatura. Riprendiamo le biciclette: si torna in città.




Bibliografia
- CCC 2018 = Cooperativa agricola Castel Cerreto, la nostra filosofia, www.castelcerreto.com (data ultima consultazione: 8 gennaio 2019).
- CERUTI 2018 = Mauro Ceruti, Ha insegnato a vedere. Grazie, maestro Olmi, in L’Eco di Bergamo, 8 maggio 2018, https://www.ecodibergamo.it/stories/Editoriale/ha-insegnato-a-vederegrazie-maestro-olmi_1278181_11/.
- OLMI – RIGONI STERN 2008 = Ermanno Olmi, Mario Rigoni Stern, Il Sergente nella neve. La sceneggiatura, a cura di Gian Piero Brunetta, Torino, Einaudi, 2008.
- RAVERA 2017 = Federica Ravera, intervista del 12 ottobre 2017, a cura di Redazione Orobie. https://www.youtube.com/watch?v=OR8fogvX0AA
- RAVERA 2018 = albero, nostro, di Federica Ravera, 2018 (distribuito insieme all’Albero degli zoccoli restaurato da Ermanno Olmi in DVD Blu-ray).
Fine dell’articolo
Autore: Serena Lunardi
Revisione e cura: Arianna Sardella, Alessandro Ardigò
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