1. Introduzione
Il cinema si è sempre ispirato alla letteratura. Il pubblico, di fronte alla traduzione del testo in immagini, indulge in sterili speculazioni su paralleli e differenze, granitiche fedeltà e libere riletture, scivolando nell’eterna diatriba tra libro e film. Sempre meglio il libro, dice la vulgata comune, un po’ per favore di antico lignaggio, un po’ per ostentazione erudita, un po’ per marcare la distesa profondità garantita dalla lettura. Nei casi migliori, però, letteratura e cinema si sovrappongono, si completano, scambiandosi le suggestioni di un reciproco arricchimento. Si pensi all’estetica futurista celebrata in Thais di Anton Giulio Bragaglia (1916), o al cinema surrealista di Luis Buñuel e Terry Gilliam.
D’altronde Pasolini è diventato il filtro con cui leggiamo il Decameron, e l’estenuato immobilismo de Il Gattopardo non si può districare dalle languide atmosfere di Luchino Visconti. Certo ci sono autori che meglio si prestano all’operazione, specie gli autori di genere. Non si contano gli adattamenti dalle tragedie di Shakespeare, come quelli dai gialli di Agatha Christie e Arthur Conan Doyle. Altre opere, invece, sembrano troppo complesse per essere ridotte sullo schermo: è difficile pensare ad un film sulla Commedia di Dante o l’Ulysses di Joyce, e quando un tentativo viene fatto, come nel caso dei multiformi Fight Club di Chuck Palahniuk e American Psycho di Bret Easton Ellis, la deriva della banalizzazione è garantita.
Lo studio comparato di cinema e letteratura, quindi, deve trascendere il mero catalogo delle varianti di racconto. Perché entrambi, il libro e il film, non sono solo racconto, ma anche stile, linguaggio, trafila di intenzioni d’autore e contaminazioni esterne; e soprattutto perché il passaggio di mezzo impone uno scarto che prescinde dal contenuto veicolato, uno scarto, detto sociolinguisticamente, diamesico. Passare dalla pagina allo schermo, in una parola, condiziona il messaggio. Ed è proprio qui, nelle pieghe e nei modi di questo condizionamento, che si annida il nostro interesse:
È interessante capire […] come cambia, ad esempio, tutta la questione del punto di vista nel passaggio dalla scrittura alla ripresa, quali equivalenti della prima o della terza persona letteraria sono rinvenibili nella narrazione per inquadrature propria del cinema, quale sia sul piano letterario l’equivalente del montaggio filmico o del primo piano, quale funzione svolga la voce fuori campo [MANZOLI, 2003].
2. Perché Kubrick
Stanley Kubrick è forse il regista più affascinante della storia del cinema. Intelligentissimo, schivo, metodico fino al morboso, molti sono gli ingredienti della sua leggenda: l’ostinata reclusione dal mondo; la fobia degli spostamenti, per cui «evita qualsiasi viaggio che vada oltre i trenta chilometri» [GIUSTI, 1997]; il maniacale perfezionismo. Così racconta il suo amico Steven Spielberg:
Io sono un regista veloce, mentre Stanley era molto lento e metodico. Era uno che pensava a lungo alle cose. Ogni tanto mi diceva «ti farò sapere», e poi non lo sentivo per una settimana. Quando mi telefonava, una settimana dopo, ci aveva davvero pensato su per sette giorni, e mi teneva al telefono per tre ore per discuterne nei minimi dettagli [BIZIO, 1999].
Fascino alimentato dall’atipicità, per un americano, della sua vocazione europea, in questo essenzialmente letteraria. Non che abbia mai pubblicato una riga, o che accordi grande fiducia alla parola:
Ci sono certe aree del pensiero e della realtà […] che sono chiaramente inaccessibili alle parole. La musica può accedere a queste aree. La pittura può penetrarle. Forme di espressione non verbali possono farlo. Ma le parole sono una camicia di forza terribile [KUBRICK, 1968].
La sua letterarietà, di certo non appariscente, si concretizza però ad un livello larvale già dal suo percorso scolastico, scialbo ma illuminato dall’istrionico professore di letteratura, Aaron Traister, che infiamma la classe recitando l’Amleto. Egli assicura che, nonostante i voti non propriamente eccelsi, «da ragazzino Kubrick aveva sempre avuto notevoli ambizioni letterarie» e si era appassionato all’«idea della letteratura in una chiave non accademica ma più umana».
Anche più tardi Stanley «se ne andava in giro con un libro di versioni ridotte dei classici della letteratura. Fermava le persone al 1600 di Broadway e domandava: “Dostoevskij, che ne pensa?”» [LOBRUTTO, 1999]. Non a caso, l’avvio di ogni nuovo progetto è la lettura indiscriminata di decine di titoli, spesso casuali, alla ricerca dello spunto giusto:
Viene da rabbrividire quando si pensa a quanti sono i libri che, specialmente in un momento come questo, si dovrebbero leggere e invece non si riuscirà mai a leggere. Per questo motivo cerco di evitare qualunque tipo di lettura sistematica e preferisco un approccio non finalizzato, che dipenda cioè dalla fortuna e dal caso nella stessa misura che dalle mie intenzioni. Alcuni degli articoli più interessanti vengono fuori proprio sul retro delle pagine che avevo strappato per qualche altro motivo [CHIMENT, 1999].
«È come cercare qualcuno per innamorarsi» sostiene, «non vi è granché da fare se non guardarsi attorno con gli occhi bene aperti» [CHIMENT, 1999]. Eccetto i primi due – Paura e desiderio (1953) e Il bacio dell’assassino (1955) – tutti i film di Kubrick sono tratti da opere letterarie: Clean Break di Lionel White per Rapina a mano armata (1956); il romanzo di Humphrey Cobb per Orizzonti di Gloria (1957); quello di Howard Fost per Spartacus (1960); il capolavoro di Vladimir Nabokov per Lolita (1962); Red Alert di Peter George per Il dottor Stranamore (1964). E ancora: Barry Lyndon (1975) è basato sul romanzo picaresco Le memorie di Barry Lyndon di William Makepeace Thackeray, mentre Full Metal Jacket (1987) nasce dalla lettura di Nato per uccidere dell’ex-marine Gustav Hasford.
In tutti questi casi non parliamo di una semplice trasposizione, ma di un’opera di ricreazione, di appropriazione autoriale dell’originale, che diventa cosa irrimediabilmente altra nelle mani del regista. Il dottor Stranamore, ad esempio, ribalta completamente l’allarmismo apocalittico nel nero cinismo dello humor, e così fa Spartacus, che scioglie le sue rigidezze epiche, o Lolita, a cui lo stesso Nabokov riconosce innovazioni deliziose e pertinenti. Il rapporto magmatico con gli originali si traduce in un rapporto altrettanto complesso con gli autori. Come accadde per i quattro massimi capolavori che analizzeremo.
3. Kubrick e Clarke oltre le stelle
Nel 1964 Kubrick sta leggendo i principali autori di fantascienza, quando il suo amico Roger Caras lo incalza: «Perché perdere tempo? Perché non cominciare semplicemente dal migliore: Arthur C. Clarke?» [LOBRUTTO, 1999]. Sono gli anni d’oro della corsa allo spazio e della science fiction, che si smarca dagli abusati stereotipi su alieni verdi e guerre spaziali e si configura come un genere dinamico, innovativo, basato su un linguaggio peculiare (si pensi all’abbondanza del lessico tecnico-scientifico) e sul tema filosoficamente rilevante della moltiplicazione dei mondi possibili. Clarke è, insieme ad Asimov, Bradbury e Dick, uno degli autori più prolifici e apprezzati del genere. Kubrick esita, convinto che sia «un matto che vive su un albero da qualche parte in India» [LOBRUTTO, 1999]. In realtà Clarke vive da inglesissimo borghese a Ceylon, e non appena contattato si dichiara «spaventosamente interessato» a collaborare e a trasferirsi a New York.
Già in aprile è al Chelsea Hotel, dove soggiornano anche Arthur Miller, Allen Ginsberg e William Burroughs, che poche camere più in là sta completando Il pasto nudo. Visto il carattere autoritario di entrambi, l’incontro con Kubrick avrebbe potuto essere rovinoso. L’unione, invece, si rivela felice:
Ma Clarke e Kubrick formarono una coppia perfetta. Erano entrambi solitari di natura. Entrambi possedevano una vena di omoerotismo […]. Entrambi erano ostinati e presuntuosi – il soprannome di Clarke era «Ego» – e Caras giustamente presagì che i due avrebbero lavorato meglio insieme che con qualsiasi altro partner più debole [BAXTER, 1999].
I primi approcci si muovono attorno al racconto di Clarke La sentinella e al suo misterioso oggetto alieno, «una struttura scintillante, di forma quasi piramidale, alta il doppio di un uomo, incastonata nella roccia come una gigantesca gemma dalle mille sfaccettature». [CLARKE, 1990]. Nel film la piramide diventa l’ermetico monolito nero, che genera un segnale radio verso Giove seguito dalla missione Discovery One. Ma per il resto «il racconto assomiglia al film come una ghianda potrebbe assomigliare ad una quercia adulta» [CLARKE, 1990]. Grande spazio ha, nel film, il tema dell’intelligenza artificiale e dei suoi pericoli, incarnati dall’infallibile computer HAL 9000. Egli guida la missione, ma pur di non ammettere un errore assassina parte dell’equipaggio, prima di essere disinnescato dal comandante Bowman. Anche la struttura circolare del film, che si apre sugli ominidi africani di quattro milioni di anni fa e si chiude con la rinascita dell’uomo in un enorme feto cosmico, moltiplica i piani di senso, alludendo alla riflessione teologica e all’eterno ritorno di Nietzsche (non a caso le immagini finali sono accompagnate dal Così parlò Zarathustra di Strauss).
La straripante complessità dei temi – che conferisce alla pellicola una struttura traballante e una coesione logica sfilacciata – trova la sua tenuta in un minuzioso lavoro di stile, votato alla pulizia formale e alla perfezione visiva delle simmetrie. «C’è qualcuno che può dirmi di cosa diavolo parla?» chiede l’attore Rock Hudson la sera della prima [SHOARD, 2010], senza capire che Kubrick propone «un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio» [MEREGHETTI, 2003]. Non a caso divenne il manifesto psichedelico della cultura hippie, assecondando l’idea di Clarke per cui «se qualcuno capisce il film alla prima visione, allora abbiamo fallito nel nostro intento» [CLARKE, 2012].
L’ambiziosità di contenuto e forma dilata i tempi. Si parla di duemilaquattrocento ore di lavoro, novecento volte la durata del film, in un viluppo sfiancante di notti insonni, discussioni torrenziali, consulenze tecniche, ripensamenti. Clarke è sfinito dalla meticolosità ingegneristica dei modelli di astronave, dall’accurata elaborazione degli effetti speciali, dalla difficoltà nell’individuazione delle location. E i due decidono allora di «scrivere insieme un romanzo, come base per la sceneggiatura» [BAXTER, 1999]. Di fatto Clarke, che in pochi mesi ha già completato il testo, viene esautorato dal progetto del film :
Clarke si trascinava tristemente nello studio come un pesce fuor d’acqua a un matrimonio, con un sacco di tempo a disposizione per chiacchierare [BAXTER, 1999].
A questo punto torna a Ceylon e aspetta solo l’assenso di Kubrick alla pubblicazione, ma «ogni volta che era sicuro che la sceneggiatura e il libro fossero a posto, Kubrick lo chiamava per aggiungere del dialogo o una nuova scena» [BAXTER, 1999]. Due anni dopo appariva evidente, vista l’insulsa banalità delle correzioni, l’intenzionale attendismo di Kubrick, che infatti approvò l’uscita del libro solo nel maggio del 1968, contestualmente all’uscita di 2001: Odissea nello spazio (questo il titolo definitivo). Si capì sin dalla prima scena che
Clarke era sempre più irrilevante. Probabilmente Kubrick avrebbe potuto girare il film usando solo un trattamento, dato che la maggior parte di ciò che scrisse Clarke venne tagliato durante gli ultimi giorni di montaggio [BAXTER, 1999].
Ma una fusione così perfetta tra parola e immagine, una elaborazione così affiatata di un doppio prodotto artistico, è un’esperienza unica. I due canali si completano – le integrazioni del libro, di fatto, spiegano gli enigmi del film – e soprattutto moltiplicano i punti di vista, le sfumature di senso, le possibilità di interpretazione, contribuendo al multiforme e sfuggente fascino che la storia emana.
4. Kubrick e Burgess per Arancia meccanica
Un altro rapporto decisivo fu quello tra Kubrick e lo scrittore inglese Anthony Burgess, che nel 1962 aveva pubblicato un’opera destinata a rivoluzionare l’immaginario popolare: A Clockwork Orange, conosciuto in Italia come Arancia meccanica. È un libro atipico, originalissimo, brutale nel raccontare le storie ultraviolente di Alex e dei suoi amici, le loro notti di pestaggi, ruberie, stupri di massa, risse tra bande rivali, in una girandola orgiastica di violenza, droghe mescaline e sinfonie di Beethoven.
L’esibizione della violenza ha sempre eclissato il cuore profondamente filosofico del testo, che tratta temi come la tensione tra istinto e istituzione, la politica, l’attrito tra generazioni, i metodi coercitivi, l’influenza dei mass media. Sullo sfondo si delinea il tema centrale, la riflessione sul libero arbitrio incarnata dalla celeberrima ‘cura Ludovico’: Alex, tradito dai compagni e condannato a quattordici anni di carcere, si sottopone ad una terribile terapia dell’avversione, che curi la sua tendenza al male. Tornato libero e incapace di reagire, subisce, in una sorta di incubo a ritroso, la vendetta delle sue vittime, fino al reinserimento coatto nella società. Per Burgess, infatti, il fulcro del romanzo è lo «scontro tra una libertà individuale senza freni e la pressione dello Stato moderno» [LUIT, 1974] e anche per Kubrick è «necessario che l’uomo possa scegliere tra bene e male e che ci sia il caso in cui egli scelga il male» [STRICK e HOUSTON, 1972]. Sono gli interrogativi che esplicita nel romanzo il personaggio del cappellano:
Che cos’è che Dio vuole? Dio vuole il bene o la scelta del bene? Un uomo che sceglie il male è forse in qualche modo migliore di un uomo cui è stato imposto il bene? [BURGESS, 1969]
Se il nucleo viene mantenuto, il problema più delicato che si trova ad affrontare Kubrick è l’impossibilità di riprodurre la tecnica compositiva dell’autore: il mondo distorto di Arancia meccanica è espresso, nel libro, con un linguaggio distorto, inventato di sana pianta dal poliglotta Burgess. E’ il Nadsat, scoppiettante fusione di inglese e russo venata di influssi tedeschi, neologismi, giochi onomatopeici, slang giovanile, voci dialettali. E’ un impasto composito, onnivoro, spesso, nei suoi scoperti esiti comici, molto vicino al grammelot teatrale, in cui la sintassi e il lessico comuni sono sistematicamente sovvertiti. E allora la serata dei drughi (gli amici) consiste nell’importunare una devotchka (giovane donna) e bere moloko (latte). Uno stralcio, a titolo di esempio, sul celeberrimo Korova Milk Bar:
Non avevano la licenza per i liquori, ma non c’era ancora una legge contro l’aggiunta di quelle trucche nuove che si sbattevano dentro il vecchio mommo, così lo potevi glutare con la sintemesc o la drenacrom o il vellocet o un paio d’altre robette che ti davano un quindici minuti tranquilli tranquilli di cinebrivido stando ad ammirare Zio e Tutti gli Angeli e i Santi nella tua scarpa sinistra con le luci che ti scoppiavano dappertutto dentro il planetario [BURGESS, 1969].
Burgess, da vero virtuoso, sfrutta tutti i meccanismi di formazione delle parole – prestito, composizione, abbreviazione, omofonia – e plasma un codice che è un tutt’uno con il senso dell’opera: la beffarda corrosione delle norme sociali non poteva esprimersi secondo le norme comunemente accettate della lingua, in una differenziazione semiotica che è anche differenziazione sociale e generazionale. Il tentativo di trasporre il testo sullo schermo, compiuto per primo da Andy Warhol col suo Vinyl del 1965 (strambo, sperimentale, un’inquadratura fissa in bianco e nero con sonoro disturbato) rischiava proprio di perdere tutto questo, senza cui rimane la vuota estetizzazione del gesto violento. Ma all’uscita nelle sale del film di Kubrick (1971) fu subito chiaro che il regista ce l’aveva fatta: aveva traslato lo straniamento ironico, nel testo tutto risolto sul piano della lingua, sul piano dell’estetica. «Ho cercato di trovare una specie di equivalente cinematografico dello stile letterario di Burgess» dichiarerà [CHIMENT, 1999], e lo stesso Burgess nota che «il regista enfatizzava l’aspetto visivo mentre io ero stato particolarmente attento a convertire in sonorità – nello specifico, i suoni di una lingua inventata – i cliché della confusione e del delitto» [BURGESS, 1993].
Così, nel film, la dissonanza del linguaggio è resa dalla dissonanza di fattori specificamente cinematografici. A partire dalla musica, sempre deliziosamente fuori contesto: celebre lo stravolgimento di Singin’ in the Rain, per cui il vitalismo sognante di Gene Kelly si tramuta in un pestaggio a passo di danza, reso ancora più inquietante dalla stridente allegria del motivetto. Tutto il film è sintonizzato sulla sfasatura del paradossale e del grottesco: il cromatismo acido delle scenografie; l’eccentricità dei costumi, con quel memorabile bianco che gioca con l’ambiguità dei suoi rimandi a purezza e candore; la disturbante antropomorfizzazione degli arredamenti, ispirati alle sculture di Allen Jones; persino i dettagli minimi, come la citazione dei dischi psichedelici Magical Mistery Tour dei Beatles e Atom Heart Mother Suite dei Pink Floyd. Così viene riprodotto l’espressionismo straniante del libro, che «subisce l’influenza dei racconti di fate e dei miti più che delle narrazioni di tipo realistico», funzionando «su una sorta di livello psico-simbolico simile a quello dei sogni» [CHIMENT, 1999]. La capacità di ricreazione di uno stile viene riconosciuta dallo stesso Burgess:
Sono riuscito a guardare il film come una totale ricostruzione del mio romanzo, e non come una semplice interpretazione; non è azzardato affermare che si tratta dell’Arancia meccanica di Stanley Kubrick, e questo è il più grande omaggio che io possa rendere alla maestria del regista. [BURGESS, 1972].
Il film fu celebrato da Federico Fellini, Akira Kurosawa e Luis Buñuel, che lo consacrò come «l’unico film in grado di spiegare davvero cosa sia il mondo moderno» [ECHITES, 1999]. Molti si fermarono invece alla superficie e lo accusarono di esaltare una violenza gratuita, ornamentale, quasi desiderabile, che rischiava di incentivare l’emulazione. La protesta congiunta di scrittore e regista – che ricordarono la catartica esibizione di violenza della Bibbia – è il migliore epilogo della loro collaborazione.
5. Shining di King e Shining di Kubrick
Dopo Arancia meccanica, e dopo la parentesi storica di Barry Lyndon (1975), Kubrick si immerge nella letteratura orrorifica, affascinato dal fatto che «una delle cose che le storie horror possono fare è mostrare gli archetipi dell’inconscio; possiamo vedere la parte malvagia senza doverci confrontare con essa in modo diretto» [DUNCAN, 2011]. La sua segretaria, al di là della porta dello studio, sente il tonfo stizzito dei libri che volano nel cestino. Poco qualche ora, insospettita dall’insolito silenzio, entra nella stanza e trova il regista sprofondato nella lettura di Shining di Stephen King.
A quei tempi, Stephen King non era ancora lo scrittore famoso in tutto il mondo, capace di inanellare ottanta opere e cinquecento milioni di copie vendute. Aveva esordito appena tre anni prima, nel 1974, con il romanzo Carrie, una storia di sangue, fanatismo religioso e turbe adolescenziali sullo sfondo di un college del Maine, in cui l’autore innestava l’elemento sovrannaturale (i poteri di telecinesi della protagonista). Il deciso avvicinamento all’horror viene sancito dai vampiri di Le notti di Salem (1975), e dall’edificio maledetto di Shining (1977), clichè ispirato a La rovina della casa degli Usher di Poe e ad una vacanza con la moglie allo storico Stanley Hotel di Estes Park, in Colorado.
La trama è risaputa: uno scrittore in crisi, Jack Torrance, insieme alla moglie Wendy e al figlio Danny accetta l’incarico di custode invernale dell’isolatissimo Overlook Hotel, nonostante il custode precedente, il signor Grady, abbia sterminato l’intera famiglia. Danny, dotato di poteri extrasensoriali, avverte subito il male consumato in quel luogo, in una progressione di terrificanti visioni – le due gemelle in fondo al corridoio, le colate di sangue e gli oscuri segreti della stanza 217 – che culmina nella follia di Jack, nel suo tentativo omicida e nella roboante esplosione finale.
Il romanzo folgora Kubrick – come altri romanzi di King folgoreranno, più avanti, registi del calibro di De Palma, Carpenter, Cronenberg e Romero – ma non mancano le perplessità per un autore considerato commerciale. «Shining di Kubrick è un film eccezionale tratto da un romanzo di Stephen King non altrettanto bello» riassume Ammaniti [AMMANITI, 2002] e la stessa Diane Johnson, chiamata a scrivere la sceneggiatura, lo aveva etichettato come un libretto da aeroporto. Kubrick stravolge il soggetto e ne ricava un film bellissimo, sia per l’impeccabile perfezione formale – con l’insistita ricerca della simmetria, il calibrato equilibrio cromatico, le ardite scelte di regia – sia per la rielaborazione del concetto di paura, che si sgancia dal macabro e dallo splatter per approdare ad una paura psicologica, freudiana, generata dalla dissonanza col contesto dato (con un occhio, in questo senso, alla letteratura grottesca e al Kafka de La metamorfosi, col suo scarafaggio così assurdo in un mediocre interno borghese).
Ma ai detrattori non piacque la lentezza del ritmo, l’assenza di elementi schiettamente orrorifici, la strillante interpretazione di Shelley Duval. E tra le tante voci negative, quella che fece più rumore fu senz’altro quella dello stesso King. All’inizio sembrò apprezzare, e nel suo saggio Danse macabre (1981) indica il film come caposaldo del genere. Ma presto cambia idea:
Ho ammirato Kubrick per lungo tempo e ho avuto grandi aspettative per il progetto, ma sono stato profondamente deluso dal risultato finale. Parti del film sono raggelanti, caricate con un terrore claustrofobico e implacabile, ma altre precipitano nella noia [NORDEN, 1983, e cit. seguenti].
Alcune delle sue perplessità sono giustificate, come quella sul protagonista: «il libro tratta della discesa graduale di Jack Torrance verso la follia», mentre il «ghigno malefico» di Nicholson (la cui interpretazione precedente, in Qualcuno volò sul nido del cuculo, lo inchiodava al ruolo di «pazzo lunatico fin dalla prima scena») disperdeva l’inquietante gradualità della progressione: «se il personaggio è pazzo fin dall’inizio» conclude, «tutta la tragicità della sua caduta viene sprecata».
Meno pertinenti altri appunti, come quello sulla freddezza di Kubrick – «una persona che pensa troppo e sente troppo poco» – e delle sue opere cariche di virtuosismi «come una grossa Cadillac senza motore». I virtuosismi di Shining, in realtà, non sono mai orpelli ornamentali, decorativi, ridotti a sfoggio gratuito di perizia tecnica, ma sono sempre funzionali all’economia complessiva del film, la cui freddezza – innegabile – è semmai antidoto alla retorica e al sentimentalismo. Come appare ingrata l’accusa per cui il regista «si è avviato a fare un film dell’orrore senza apparente comprensione del genere». Di certo Kubrick libera il genere dai suoi stereotipi, ed elabora un horror raffinato, intellettualistico, anche filosofico, capace di riflettere sul valore archetipico della paternità o sul concetto ottimistico di fantasma, che presuppone una sopravvivenza dopo la morte.
King, insoddisfatto, ha sempre voluto «rifare Shining un giorno, forse anche dirigerlo personalmente, se qualcuno mi desse abbastanza corda da impiccarmici». Nel 1997 esce infatti, da lui adattata per la televisione, una serie in sei episodi, e quest’anno sarà la volta del sequel Doctor Sleep. Ma, che piaccia o meno al suo autore, non potremo più leggere il romanzo senza pensare alle iconiche e sconcertanti immagini del film.
6. Il dialogo a distanza di Eyes Wide Shut
Così si legge già in un’intervista a Kubrick del 1972:
C’è inoltre una novella di Arthur Schnitzler, Traumnovelle (Doppio sogno), che vorrei fare ma su cui non ho ancora cominciato a lavorare. E’ un libro difficile da descrivere – e quale buon libro non lo è? Esplora l’ambivalenza sessuale di un matrimonio felice e cerca di equiparare l’importanza dei sogni e degli ipotetici rapporti sessuali con la realtà. [CHIMENT, 1999].
L’amore per la musica classica – e una sceneggiatura tratta da Segreto ardente (1911) di Stephen Zweig – testimoniano la fascinazione di Kubrick per la cultura mittleuropea e per gli echi freudiani delle sue suggestioni letterarie. Quando riprende Doppio sogno, nel 1994, traspone l’ambientazione viennese nella New York contemporanea, ma lascia invariata la trama: marito e moglie della buona borghesia vivono una crisi coniugale in cui il reciproco tradimento è vagheggiato, immaginato, ipotizzato, ma mai effettivamente consumato. Lei gli confessa sogni erotici e fantasie d’evasione, lui trascorre una surreale odissea notturna tra improbabili dichiarazioni d’amore, squallidi adescamenti e un misterioso convito in maschera, consumato tra parole d’ordine, rituali orgiastici e minacce di morte.
La novella, uscita nel 1926, non è un romanzo erotico, e nemmeno un compendio di psicanalisi. Schniztler «mantenne sempre una notevole distanza critica nei riguardi […] delle teorie psicanalitiche» [FARESE, 1977], e anche se Freud elogia le sue «belle creazioni», dove trova «dietro la loro parvenza poetica gli stessi presupposti, interessi e risultati» che riconosce come suoi propri, ci tiene a marcare la differenza tra «l’intuizione» del poeta e il «lavoro faticoso» dello scienziato. E’ una sorta di timore del doppio, a segnare la distanza tra i due.
Il libro di Schniztler, nella sua criptica allusività di apologo, è, in sostanza, una feroce critica all’istituzione del matrimonio, basata sul perbenismo e sulla repressione degli istinti. Il sesso è il vero protagonista del libro; sesso non in quanto appetito sessuale, ma in quanto rivelatore dell’irrazionale animalità degli uomini al di sotto delle ipocrisie e dei moralismi sociali (in questo il film sarà essenzialmente «un film sulla borghesia» e dunque un film sul potere, «il potere borghese e maschile sul corpo della donna e del ricco sul corpo del povero» [FOFI, 1999]). Il sesso, poi, nel suo risvolto psicologico, è la valvola di sfogo di rinunce, antiche frustrazioni, desideri inconfessabili, aggressività latenti, un groviglio confinato in «una specie di territorio intermedio fluttuante tra conscio e inconscio» [SCHNITZLER, 1993].
Kubrick riesce a rendere l’asse portante del libro, ossia la sua rigidissima duplicità strutturale che oscilla tra lui e lei, detto e taciuto, reale e immaginario, «un desiderio di stabilità, di sicurezza, di ripetizione e di ordine» e «la tendenza a voler fuggire, ad andare incontro all’avventura, a distruggere» [TOFFETTI, 1978]. Dicotomie suggerite già dall’ossimoro del titolo (Eyes wide shut significa Occhi spalancati chiusi) in cui i confini tra sonno e veglia sfumano in un’atmosfera onirica, sospesa, in cui la percezione è confusa e frammentata, dipanata in una successione di episodi bizzarri, situazioni grottesche, apparizioni caricaturali. Al termine dell’itinerario notturno di Bill – quando, tolta la maschera, l’alba restituisce realtà ai fantasmi – il sogno orgiastico che Alice racconta appare sinistramente vivido e reale.
«Nessun sogno è mai soltanto un sogno» le rinfaccia lui, e d’altronde, guardando alla sua stralunata digressione carnevalesca, nessuna realtà e mai soltanto una realtà. È lei ad accettare in pieno il prezzo dell’ambiguità, il crollo di ogni rassicurante certezza: e mentre lui si aggrappa disperatamente alla confortante univocità della morale borghese, lei ha il coraggio di guardare in fondo al caos, al disordine, all’assenza di valore, e di chiudere il film con una battuta memorabile e spregiudicata: «C’è una cosa molto importante che noi dobbiamo fare il prima possibile». «Cosa?». «Scopare».
Eyes Wide Shut, prima ancora di vedere la luce, divenne subito leggenda: per l’enorme attesa del pubblico; per la clamorosa scelta di Tom Cruise e Nicole Kidman, la coppia di celebrità del momento; per il crudo realismo degli accoppiamenti, i fantasiosi pettegolezzi, le misteriose reticenze, le estenuanti sessioni di riprese (Harvey Keitel scappò letteralmente dal set, stremato dalle ossessive richieste del regista). E perché quando il film uscì in tutto il mondo, nel luglio del 1999, Kubrick era già morto da quattro mesi, di infarto, all’età di settantuno anni, consegnando il suo nome alla storia.
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Bibliografia
- MANZOLI, 2003 = Cinema e letteratura di Giacomo Manzoli, Carocci editore, Roma, 2003
- KUBRICK, 1968 = In 2001 Will Love Be a Seven-Letter Word? di Stanley Kubrick, The New York Times, 14 aprile 1968, traduzione dall’inglese per Archivio Kubrick
- FOFI, 1999 = “Eyes wide shut”: dialettica della visione di Goffredo Fofi, Lo straniero, anno III, n. 9, inverno 1999-2000
- CLARKE, 1990 = La sentinella di Arthur C. Clarke, con illustrazioni di Lebbeus Woods, Interno Giallo, Milano, 1990
- CHIMENT, 1999 = Kubrick di Michel Chiment, Rizzoli, Milano, 1999
- BURGESS, 1969 = Un’arancia a orologeria di Anthony Burgess, traduzione di Floriana Bossi, Supercoralli, Einaudi, Torino, 1969
- NORDEN, 1983 = Intervista a Stephen King di Eric Norden, Playboy, Giugno 1983
- BURGESS, 1972 = L’autore dice la sua su Arancia Meccanica di Anthony Burgess, Los Angeles Times, 13 Febbraio 1972, tradotto dall’inglese in Arancia Meccanica, Einaudi, Torino, 2014
- SCHNITZLER, 1993 = Opere di Arthur Schnitzler, i Meridiani, Milano, Mondadori, 1993
- STRICK, HOUSTON, 1972 = Interview with Stanley Kubrick di Philip Strick e Penelope Houston, Sight & Sound, Primavera 1972, traduzione dall’inglese di Alberto Baracco e Gianluca Matarrese per Archivio Kubrick
- DUNCAN, 2011 = Stanley Kubrick di Paul Duncan, The Complete Films, Taschen, Colonia, 2011.
- LUIT, 1974 = Lettera al Los Angeles Times di Robert Luit, Le Magazine Littéraire, Aprile 1974, traduzione dal francese di Rufus McCoy per Archivio Kubrick
- BURGESS, 1993 = Stop the clock on violence di Anthony Burgess, The Guardian, 21 Marzo 1993, traduzione dall’inglese di Rossana Rapisarda sul Corriere della Sera, 25 Marzo 1993
- ECHITES, 2016 = ‘Arancia meccanica’, il capolavoro di Stanley Kubrick che raccontava il futuro di Giulia Echites, la Repubblica, 18 dicembre 2016
- LOBRUTTO, 1999 = Stanley Kubrick. L’uomo dietro la leggenda di Vincent LoBrutto, Editrice Il Castoro, Milano, 1999
Autore: Mario Taccone
Revisione e cura: Arianna Sardella, Alessandro Ardigò
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