
1. Aristotele nel Medioevo
Nel Medioevo la produzione letteraria è connotata da una attitudine didascalica, o meglio didattica – spesso i termini sono usati come sinonimi – che si manifesta in modo più evidente nelle opere che perseguono finalità di divulgazione delle conoscenze o finalità di persuasione e di educazione in ordine a principi morali o religiosi.
Scarsa di invenzione e fantasia, la stessa poesia religioso – morale, più che perseguire fini artistici, fa dell’arte uno strumento per impartire, nel ripetersi dei suoi contenuti, lunghi e monotoni avvertimenti morali. Non manca, accanto alla letteratura didattica sacra, una produzione più propriamente profana che si prefigge obiettivi di educazione mondana; ma anch’essa si muove nel più largo ambito della cultura cristiana e comunque appare meno cospicua di quella sacra. Il che si deve ad una generalizzata concezione cristiana del mondo medioevale che concepisce la vita terrena come viaggio da interpretare alla luce dei quattro Novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso.
Questo è l’insegnamento della Chiesa e di questo compito educativo e persuasivo sono portatori i suoi chierici, che coincidono largamente con gli intellettuali del tempo.
La filosofia scolastica, del resto, nel periodo dell’ultimo Duecento e della prima metà del Trecento, esercita un dominio unitario su ogni aspetto e manifestazione culturale. Essa permea e ispira anche la letteratura, fornendo concezioni e motivi di meditazione spirituale e morale di cui troviamo accenti già nel Guinizelli e nello Stilnovo. I grandi conflitti di pensiero, innescati nel 1255 dall’ingresso nel piano degli studi universitari nella facoltà delle Arti di Parigi di tutte le opere di Aristotele allora conosciute, suscitano scuole diversamente orientate, che si fronteggiano sul piano dialettico tra il nuovo atteggiamento naturalista e razionalista, che trova il suo propugnatore in Sigieri di Brabante, e la denuncia del pericolo di un nuovo paganesimo avanzata da Bonaventura di Bagnoregio. Si affrontano temi dottrinali e questioni filosofiche che da Parigi coinvolgono i dotti del tempo di ogni parte d’Europa. È una svolta epocale sul piano del pensiero filosofico.
Fino ad allora per i pensatori conoscere e spiegare una cosa consisteva sempre nel mostrare che essa non è ciò che appare così come viene colta nelle sue modalità di manifestazione, ma solamente simbolo, segno annunciatore e allusivo di qualcosa di diverso, recondito, metaforico. Per porre una concreta realtà sotto questo mondo di simboli, era mancata, per tutto il XII secolo, la concezione di una natura che avesse una struttura in sé e una intelligibilità per sé. Con il secolo XIII, questa concezione sta per formarsi grazie alla scoperta della fisica aristotelica. L’incidenza della filosofia aristotelica con le Sacre Scritture e la tradizione cristiana origina un aristotelismo cristianizzato, di metodo essenzialmente dialettico, che porta alla teologia scolastica.
All’origine di questo movimento c’è l’insegnamento dei maestri delle Facoltà delle Arti che leggono, commentano e disputano intorno ai trattati di Aristotele fino ad allora rinvenuti. Sono gli inglesi Alessandro di Hales, Bacone e Ockam; lo scozzese Duns Scoto; i tedeschi Alberto Magno e Eckart; il belga Enrico di Gand; Sigieri e Boezio di Dacia; gli italiani Bonaventura da Bagnoregio e Tommaso d’Aquino.
2. Da Aristotele a Tommaso
Con quelle dispute ebbe larga consuetudine anche Dante nelle “Scuole de li religiosi e le disputazioni de li filosofanti” frequentate in Firenze presso i Francescani e i Domenicani e nel probabile soggiorno parigino, tra il 1309 e il 1310, di cui parla a più riprese il Villani e di cui il Boccaccio dice: “Se n’andò a Parigi e quivi ad udire filosofia e teologia si diede”.
Leggere la Commedia è, poi, sul piano dottrinale, rivivere l’intuizione fondamentale di Tommaso d’Aquino per cui la missione del sapiente è di ordinare le cose secondo le cause supreme e dunque secondo il primo Principio che è anche ultimo Fine. È Tommaso il grande maestro di Dante. Ampliando l’opera dei suoi predecessori e servito dal suo personale genio, l’Aquinate ha pensato una filosofia nuova, originale e profonda, il Tomismo, nata dalla rielaborazione eclettica dei contributi di tutte le grandi correnti di pensiero che l’hanno preceduta: platonismo e aristotelismo, ellenismo e arabismo, paganesimo e cristianesimo.
Il risultato perseguito in questo immane sforzo di sintesi per costruire una filosofia nuova, sulla scorta dei risultati del progresso del pensiero e delle esigenze dell’intelligenza cristiana, si evidenzia nei commenti filosofici sull’opera di Aristotele e sul Liber de causis, in cui amplia, esplicita, completa e corregge il pensiero di Aristotele; nei commenti scritturali affrontati con metodo vicinissimo a quello dei commenti aristotelici; nei commenti teologici a Boezio, allo pseudo Dionigi e Pietro Lombardo; nelle opere di sintesi teologica quali la Summa, corredate di dimostrazioni razionali della fede cattolica e di confutazioni degli errori e delle obiezioni contro la fede; nelle ricche collezioni di dispute intorno ad aspetti fondamentali della dottrina, dispute di grande interesse storico perché specchio del pensiero e delle controversie dell’epoca.
Si tratta, con tutta evidenza, di un complesso edificio culturale nel quale gli “Amici della sapienza” cristiani possono trovare una esposizione positiva della verità proposta secondo un metodo razionale per stabilire le verità insegnate dal Vangelo. Tommaso propone una fede ragionata, una filosofia che si forma in simbiosi costante con la teologia, una filosofia non esposta per se stessa, ma resa ancilla theologiae nella selezione dei problemi, nei temi ricavati dalla rivelazione cristiana e nell’ordine teologico, cioè integrato nella scienza sacra.




3. Da Tommaso a Dante
Nella formazione culturale e mentale di Dante, l’incidenza avuta dalla Scolastica, e in modo particolare dal pensiero tomista, si rileva soprattutto nel grandioso sistema poetico — filosofico — teologico della Commedia. Così come nell’Etica di Tommaso, anche nella Commedia il fine ultimo naturale della persona umana si consegue nella conoscenza e nell’amore della Causa prima.
Conoscenza e amore che si raggiungono solamente nella vita futura, quella puramente spirituale, ma il cui raggiungimento è subordinato alla rettitudine dell’agire quaggiù, in una vita terrena dove l’uomo costruisce liberamente il proprio destino. Tema, questo, più volte ripreso e sviluppato da Dante che, a Marco Lombardo, nel Canto XVI del Purgatorio (vv. 75 / 76), mette in bocca proprio la soluzione tomistica del libero arbitrio nella scelta delle proprie azioni:
lume v’è dato a bene e a malizia
e libero voler […]
Pg. XXVI 75-76
La morte, dunque, fissa per sempre l’animo umano nell’ordine o nel disordine, nella beatitudine o nella infelicità, perché è giusto
per ben letizia e per male aver lutto”
(ibidem, v. 72)
Ma nell’intero poema le verità filosofiche, morali e religiose che sostengono e sostanziano l’invenzione poetica e fantastica sono di tale ampiezza che, sotto tale aspetto, la Commedia può essere definita un’opera dottrinale. Come tale anche opera didascalica, perché l’ascesi verso la redenzione e la salvezza finale dell’umanità, figurate nel viaggio ultraterreno, passano per una fitta trama di insegnamenti che attraversano tutti gli episodi del poema.
Il termine opera didascalica, e non opera didattica, meglio si attaglia come attributo definente al poema dantesco, perché il sistema dottrinale e il complesso delle conoscenze versate in poesia da Dante non sono il fine dell’opera (come nelle opere didattiche), ma ne sono il supporto ideologico e la trama concettuale.
I grandi temi teologici e filosofici trattati, come le virtù teologali, la predestinazione, gli influssi celesti, il libero arbitrio e altri che nel poema costituiscono digressioni dottrinali di spazio rilevante, rappresentano l’esigenza di illuminare, alla luce della ragione e della fede, il processo di ascesi intellettuale e morale di Dante pellegrino. Tanto che Karl Vossler osserva:
“A nessun poema si intese mai dare un fondamento più rigorosamente scientifico, né più oggettivo; mai poeta fu così coscienzioso. Noi non conosciamo nella letteratura morale alcun altro lavoro artistico che sia così profondamente penetrato di filosofia”.
Il come e il perché dell’esistente reale e fantastico sono parte integrante dell’indagine dantesca, riconducibili all’esigenza spirituale e intellettuale del poeta di legare i personaggi concreti, incontrati nei luoghi infernali e paradisiaci del suo fantastico viaggio, alle norme che reggono l’ordine terreno e ultraterreno. Il che non è certo ben compreso da critici come Saverio Bettinelli che, nel secolo dei Lumi, investe l’opera intera di corrosive interrogazioni:
“E questo è un poema, un esemplare, un’opera divina? Poema tessuto di prediche, di dialoghi, di quistioni, poema senza azioni o con azioni soltanto di cadute, di passaggi, di salite, di andate e di ritorni, e tanto peggio quanto più avanti ne gite? Quattordici mille versi di tai sermoni, chi può leggerli sanza svenir d’affanno o di sonno?…”
Eppure la trattazione non ha nulla di pedantesco perché costantemente è drammatizzata in un movimento dialogico, che suscita nel lettore commozioni ed emozioni ben oltre le lezioni di teologia morale. Lo stesso Benedetto Croce, commentando la struttura della Commedia, pur osservando “una certa compressione che il romanzo teologico esercita talora sulla vena poetica”, deve concludere che:
“la poesia di Dante, quando altro non Può, avviva con freschissima fantasia i particolari delle disquisizioni e parti informative ed espedienti di racconto, e perfino le non infrequenti concettosità dell’erudito in istoria, mitologia e astronomia, e investe tutte queste cose col suo commosso e sublime accento”.
E ancora si veda come sul canto XXIV del Paradiso, in cui Dante è esaminato da S. Pietro sulla virtù teologale della fede, il Tommaseo, nel suo commento alla Commedia, esprima un giudizio complessivamente negativo: “Dalle negligenze e aridità del Canto risaltano non poche espressioni felici”. Si desume che “le non poche espressioni felici” sono comunque, per il Tommaseo, un sollievo alle “negligenze e aridità del Canto”, là dove invece il Momigliano, a commento del XXIV del Paradiso afferma:
“Questo è un inno dissimulato sotto la forma di un esame, un inno alla fede, alla quale partecipa, non meno del pellegrino assunto in cielo in forza di questa sua virtù, il santo che tiene le chiavi del regno della fede. Qui l’analisi verso per verso non dice nulla: la poesia è nel respiro che trascorre per tutta la pagina”.
E il Sapegno esprime un giudizio globale altamente positivo:
“Più del contenuto oggettivo delle singole interrogazioni e risposte, conta il ritmo trionfale e incalzante della triplice professione, il tono di ferma convinzione intellettuale e morale che imprime alle formule della scuola un sigillo di interna originalissima energia espressiva”.




4. Il proposito di Dante
Dante dunque nella Commedia non vuole insegnare conoscenze, principi, teorie; piuttosto si avvale di essi per conferire alla narrazione fantastica la forza dell’intelletto e della dottrina. Persino le parti più scopertamente didascaliche e allegoriche, i dati più astratti e concettuali della sua esperienza, sono tradotti in termini concreti e affidati ad una varietà prodigiosa di soluzioni figurative e verbali.
Il proposito etico dell’opera è, infatti, da egli stesso definito nella Lettera XIII a Cangrande della Scala come “removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis“. E, nella stessa lettera XIII Dante bene esplicita a proposito della Commedia:
“Nam si in aliquo loco vel passu pertractatur ad modum speculativi negotii, hoc non est gratia speculativi negotii, sed gratia operis, quia, ut ait Philosophus in secundo Metaphisicorum < ad aliquid et nulle speculantur practici aliquando >”.
(Infatti se in qualche luogo o passo si tratta secondo il modo speculativo, ciò non è fatto per fine di speculazione, ma in grazia dell’opera; perché, come dice il Filosofo (Aristotele) nel secondo libro della Metafisica < talvolta anche i pratici usano speculare per qualche ragione e per un tempo limitato>”.
Ne consegue che anche il “genus philosophiae”, cioè il sapere più strettamente scientifico e filosofico che imbeve l’esperienza autobiografica e letteraria dell’autore, non può essere valutato in funzione autonoma, perché esso è utilizzato nelle sue parti ragionative, persuasive ed esemplificative, “non ad speculandum, sed gratia operis”. E siamo dunque al superamento di quel ruolo di divulgazione del sapere e di insegnamento che Dante aveva assunto nel definire come finalità del suo Convivio, “inducere gli uomini a scienza e virtù” (C.I., 9): finalità propria di tutta la letteratura sacra e profana connotata, appunto, da un atteggiamento didattico.
Certo, il Convivio è scritto anche per umanissime ragioni di prestigio personale: acquistare quella fama di dotto e di filosofo che lo riabilitasse in Italia e in Firenze dalle disgrazie della condanna e dell’esilio. Come la Commedia del resto. Ma nel Convivio possiamo cogliere una funzione e una connotazione preminentemente didattica dell’opera nel proposito, esplicitamente dichiarato dall’autore, di voler impartire ammaestramenti di vario genere. La materia scientifica e dottrinale è disposta per un banchetto culturale di cui Dante è il sapiente imbanditore. Se ne evince prepotente il bisogno di fondo di sistemare dentro schemi teorici i dati della realtà culturale e umana in possesso dell’autore, per classificarli e ricomporli alla luce di una sapienza speculativa che esalti l’intelligenza umana. Quella del poeta, nutrita di sofferta dottrina, e quella del pubblico a cui si indirizza: gli incolti che mancano di conoscenza per motivazioni diverse, ma sono disposti alla virtù e dotati di nativa gentilezza.
Dante, nel Convivio, anticipa dunque quel carattere della sua poetica che, nella Commedia, appare come più apologetico e dottrinale. Ma la Commedia è poema, non è un trattato come il Convivio. È la libertà della poesia ad esercitarsi sulla materia scientifica e ideologica che dalla prima cantica dell’Inferno, via via nel Purgatorio, e più ancora nel Paradiso, occupa con evidenza uno spazio corposo nell’economia del testo poetico. È la prepotenza del genio che fonde l’urgenza delle necessità morali, scientifiche, dottrinali in una potente sintesi rappresentativa che assurge a canto. Perciò bene sottolinea Luigi Russo:
“la fantasia di Dante non presuppone storia, mitologia, astronomia, geometria, teologia da avvivare con sue arti e freschezza di immagini; ma quel romanzo politico — teologico è nient’altro che il concetto stesso della poesia, quella che si dice la sua logica, la quale, una volta assunta dallo scrittore diventa necessaria alla poesia stessa, alla sua vita e al suo svolgimento”.
Ne consegue che concezione allegorica della poesia e proposito didascalico si fanno elementi sostanziali dell’arte dantesca, fusi nella unicità e nella complessità dell’opera come mezzo e disciplina generatori di forza e bellezza autonoma. Arte dunque anche la poesia didascalica che, come acutamente osserva il Sapegno, calandosi nella temperie della fase estrema della cultura scolastica, “quando gli schemi elaborati dai pensatori sembrano ormai incapaci nella loro astrattezza ad aderire alla molteplicità e all’irrequietezza dell’esperienza viva”, si manifesta, “come un nuovo strumento più agile e appropriato di esposizione di quella realtà concettuale, con una capacità, a paragone dei trattati e delle «summae», di gran lunga più intensa e più vasta di persuasione, di esortazione e di stimolo, più direttamente efficace ed estesa senza limiti nello spazio e nel tempo”. Il modo della “lectura Dantis” non potrà essere dunque che ancipite, per la coesistenza di un piano dell’arte e un piano della dottrina che si fondono inestricabilmente nella compenetrazione di immagini dell’anima e idee della storia.




5. Paradiso XXIV
I tre canti che, in modo più rimarchevole, esprimono la conoscenza dantesca della dottrina teologica cristiana che intride, peraltro, l’intero poema, sono i canti XXIV, XXV e XXVI del Paradiso.
Nell’intenzione eminentemente didascalica del poeta, i tre canti presentano argomentazioni dottrinali e scientifiche più esplicite che altrove e si sviluppano intorno all’esame a cui, prima S. Pietro, poi S. Giacomo e infine S. Giovanni sottopongono il poeta intorno alle tre virtù teologali: Fede, Speranza e Carità.
Sta scritto nell’Ecclesiaste: “Temete Dio, credete, sperate in esso, amatelo”. Dante, che si avvia alla conclusione del suo viaggio verso la comprensione e la visione del mistero trinitario, rivisita, e con lui i lettori che muovono verso la patria celeste, le fondamenta stesse del Cristianesimo, le virtù teologali dalle quali ragione e volontà si muovono e si ordinano a Dio. È del tutto palese come i tre canti perseguano un fine didascalico perché, teologicamente parlando, l’esame a cui Dante è sottoposto non trova una sua ragione d’essere nelle domande che i tre santi esaminatori gli pongono: essi, infatti conoscono già in quale misura spirituale il poeta possegga le tre virtù teologali in quanto, come tutti i beati, lo vedono in Dio svelatamente.
Si riporta, di seguito, il canto XXIV, con la parafrasi e i principali riferimenti dottrinali che ricorrono nel testo, proprio per enucleare, anche visivamente, i fondamenti del credo religioso e la cultura filosofico — teologica che sostengono il contenuto poetico.
Il canto si apre con la preghiera di Beatrice ai beati perché concedano qualche stilla della loro sapienza al poeta. Ne ottiene in risposta gioiose danze di assenso (vv. 1 — 18). Tra le anime danzanti vi è Pietro che, per desiderio di Beatrice, esamina il poeta sulla virtù della Fede (vv. 19 – 45). L’esame verte sulla natura della Fede (vv. 46 — 66); sulla spiegazione che S. Paolo dà della Fede (vv. 67 — 81); sul possesso che Dante ha di tale virtù (vv. 82 — 87); sulle fonti, l’oggetto e le ragioni del suo credere (vv 88 — 147). Con un triplice abbraccio luminoso, Pietro esprime la sua approvazione. (148-154)
6. Riferimenti dottrinali
Si sottopongono ora all’analisi del lettore le fonti di Paradiso XXIV, redatte a cura dell’autore del presente articolo.
Fine dell’articolo
Autore: Giuseppe Piantoni
Revisione e cura: Alessandro Ardigò, Arianna Sardella
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