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La notte in cui nacque la letteratura dell’orrore – Byron, gli Shelley, Clairmont e Polidori a villa Diodati (PRIMA PARTE)

1. George
Nella fissità placida del pomeriggio, un uomo si immerge nelle acque scure del lago. Davanti a lui, arroccata sul pendio di roccia, l’austera facciata di Villa Diodati, la «bellissima villa in una vigna, con le Alpi alle spalle, e il lago di fronte» che ha preso in affitto a Cologny, vicino a Ginevra [LANSDOWN, 2015]. È arrivato in Svizzera da appena tre settimane, discendendo l’intero corso del Reno, ma già gli piace molto. Si rilassa, lasciando che le vigorose bracciate si distendano l’una dopo l’altra.
È un nuotatore espertissimo. D’altronde, il nuoto è una compensazione all’infermità di cui soffre sin da bambino. È zoppo. O meglio: è affetto da paraplegia spastica, che rende la sua andatura visibilmente claudicante. Dolorose fasciature, scarpe ortopediche e le solite malignità della gente (da piccolo lo chiamavano il diavoletto zoppo) hanno creato in lui un oscuro complesso, che ha esorcizzato eccellendo in sport come l’equitazione, la boxe e, appunto, il nuoto. In Grecia attraverserà l’Ellesponto, ad imitazione del mitico eroe Leandro. Coprirà con grande facilità, da Portovenere, gli otto chilometri di mare del golfo di Lerici, fino a San Terenzo. A Venezia, la «Cibele marina» [BYRON, 1836], prenderà l’abitudine di nuotare di notte nei canali con una torcia accesa in mano. Non saranno poche le suggestionabili signore veneziane che, vedendoselo comparire all’improvviso con i vestiti grondanti, quasi si ribalteranno dalle loro gondole.

Quando si ferma e alza lo sguardo sulle montagne, un fitto velo di nebbia bianca si stende sotto un cielo ingombro di nuvole. Il freddo è pungente. Lastre di ghiaccio galleggiano sulla superficie dell’acqua. C’è un dettaglio non da poco a stonare con il perfetto quadretto invernale: è il 16 giugno 1816. Lo chiamano l’anno senza estate: l’eruzione del vulcano Tambora, in Indonesia – la più violenta eruzione vulcanica della storia, ancora oggi ineguagliata – ha emesso 150 miliardi di metri cubi di cenere negli strati superiori dell’atmosfera, oscurando il sole. Alla fine della stagione i giorni di pioggia saranno centotrenta, su centocinquanta complessivi. In Ungheria e in Italia, in piena estate, è caduta neve rossa, con tanto di predicatori urlanti per le strade ad annunciare la prossima fine del mondo. Se si sommano altre grandi eruzioni su scala globale, il raffreddamento in corso dal ‘300 e un’attività solare incredibilmente bassa, si capisce perchè i raccolti andarono distrutti, i fiumi ghiacciarono e si susseguirono senza sosta bufere, trombe d’aria e inondazioni.

Aguzzando lo sguardo tra l’intrico delle betulle, appena sotto il cielo sempre più cupo, l’uomo nota che qualcuno lo osserva nascosto dietro una roccia. È una distinta signora con un binocolo puntato verso di lui. Da quando è arrivato, orde di curiosi girano attorno alla villa, nella speranza di vederlo. «I curiosi e i cacciatori di notizie arrivavano a tutte le ore del giorno, con i più trasparenti pretesti, fingendosi venditori ambulanti, garzoni di bottega, viandanti smarriti» [ORLANDI, 1969]. Il direttore dell’Hotel d’Angleterre, sulla sponda opposta, ha addirittura montato un telescopio per permettere agli ospiti di spiare i suoi movimenti. D’altra parte, quell’uomo che ora esce dall’acqua mentre comincia a scendere una pioggia leggera, non è un uomo qualsiasi. È George Gordon Byron, sesto barone di Byron, membro della Camera dei Lords. Il più grande poeta romantico inglese della sua generazione.

Eccentrico, geniale, irrequieto, scatena da anni le cronache scandalistiche con disinvolta furbizia. La bigotta Inghilterra condanna le sue dissolutezze, ma segretamente ne è affascinata. Nel 1809, a ventuno anni, compie un avventuroso viaggio dal Portogallo all’Albania fino alla Grecia, il cui resoconto romanzato, intitolato Il pellegrinaggio di Aroldo, diventa un incredibile successo letterario. Nel frattempo alimenta la fama di perverso seduttore, dal fascino diabolico. «Pazzo, perfido e pericoloso da conoscere» lo definirà una delle sue amanti [DOUGLASS, 2004]. La moglie Annabella sopporta qualsiasi diavoleria (una volta, per scherzo, Byron colpisce il bastone della madre di lei con una pistolettata) ma scappa di casa inorridita quando scopre che ha una relazione incestuosa con la sorella Augusta. Scandalo colossale, il cui clamore lo spinge ad imbarcarsi per il continente il 25 aprile 1816. Ora, due mesi dopo, nel silenzio umido delle vallate svizzere, sembra tutto così lontano. Il poeta si avvia leggero e rinvigorito verso Villa Diodati. Deve sbrigarsi. I suoi ospiti non possono attendere.

Al suo apparire in sala, dove la cena è già servita, tutti gli sguardi si rivolgono a lui. È basso e robusto, con una folta capigliatura sorretta da bigodini di carta. Sfoggia «un profilo dritto e classico» vagamente altezzoso, completato da «una bocca imbronciata» e «una mascella pesante» [QUENNELL, 1999]. Indossa ampi pantaloni a sbuffi, una giacca leggera e un turbante tradizionale albanese. Tutto rigorosamente in nero, azzurro e verde, i colori del suo casato. Fletcher, uno dei sette valletti al seguito, gli porge la sedia a capotavola. Ed è solo allora, dopo essersi seduto con studiata calma, che rivolge un largo sorriso alle altre quattro persone presenti. Alla sua destra siede un elegante ragazzo di ventun anni di origini italiane. È pallido, nervoso, raffinato, con due lunghe sopracciglia marcate sopra un naso aquilino. Si chiama John William Polidori. Byron lo ha conosciuto solo tre mesi prima, ma lo ha subito assunto come medico e segretario personale. Per la verità è un medico piuttosto maldestro, ma è il figlio di Gaetano Polidori, segretario personale di Vittorio Alfieri, e tanto basta per volerlo con sé. Il giovane, avvolto in un foulard di seta bianco sull’ampio colletto bianco della camicia, prende appunti sul suo diario, senza degnare di uno sguardo il resto della comitiva.

2. Percy
L’uomo che gli sta di fronte è Percy Byssey Shelley, il famoso poeta romantico. È un baronetto, figlio di un importante membro del Parlamento inglese, ma gli abiti sgualciti e i lunghi capelli spettinati, che incorniciano un viso dai tratti delicatissimi, gli conferiscono l’apparenza indisciplinata di un adolescente. Non manca però di grazia naturale, con la sua bocca delicata, la voce soave e quel meraviglioso misto di «qualcosa di avventato, di sregolato, di precipitoso, un insieme di goffaggine e delicatezza, di rapidità e violenza» [QUENNELL, 1999]. Accanto a lui, con i capelli raccolti dietro la nuca, siede composta la promessa sposa Mary, e, dalla parte opposta, la sorellastra di lei, Claire Clairmont, con i lunghi ricci che le scendono ai lati del volto acceso. I tre alloggiano alla Maison Chapuis di Montalègre, a due passi da lì, e spesso sono ospiti a villa Diodati. Nessuno sospetterebbe che dietro quei cinque giovani a cena, che ridono versando vino bianco e mangiando una minestra di lenticchie – gli Shelley sono rigorosamente vegetariani – si nascondano segrete attrazioni, chiacchierati misteri e laceranti attriti.

Percy e Mary celano una storia tutt’altro che serena. Lui, due anni prima, aveva iniziato a frequentare la casa del padre di lei, il celebre filosofo William Godwin, e lì era bastato «lo sguardo di un momento, da una porta semiaperta» per innamorarsi di quella «giovanissima femmina, candida e bionda, anzi pallida, dallo sguardo penetrante e in un abito di tartan» [HOGG, 1906]. Ma il padre, che pure stima le qualità artistiche di Percy, stima molto meno la sua vocazione coniugale. Shelley, d’altra parte, è già celebre per le sue scandalose eccentricità. Soffre di allucinazioni ed è un abituale consumatore di laudano, una tintura a base di oppio e alcool. Professa idee radicali come l’ateismo e verrà espulso da Oxford proprio per aver pubblicato un opuscolo dal titolo La necessità dell’ateismo. Meritandosi sul campo l’eloquente appellativo di mad Shelley. Shelley il pazzo.

Sia chiaro. Non che Godwin, il suocero, sia un ottuso bigotto. Tutt’altro. È un filosofo liberale, anarchico, pronto a definire il matrimonio come «il più odioso di tutti i monopoli» [GODWIN, 1997]. Sarebbe tranquillamente disposto ad accettare un genero così originale, non fosse per un dettaglio non da poco: Shelley è già sposato. Ha due figli, Ianthe e Charles, e una moglie infelice, Harriet, costretta a sopportare ripetute assenze e continui tradimenti, in linea con la sua concezione di libero amore. La fedeltà, per lui, è «il più lungo e squallido dei viaggi», le cui inibenti catene consegnano tutte le altre cose «belle e sagge/ al freddo oblio» [SHELLEY, 1821]. Non i presupposti ideali per l’iniziazione sentimentale di una figlia sedicenne, deve aver pensato Godwin, che rifiuta il suo consenso all’unione.

Ma si sa, i veti paterni non fanno che esaltare gli amori impossibili: la notte del 28 luglio 1814, un mese dopo il loro primo incontro, Mary e Percy fuggono su una barca, dal porto di Dover, pronti a inseguire il luminoso sogno di «una vita di perfetta condivisione» tra i monti svizzeri [SAMPSON, 2018]. Seduta accanto a loro, ad accrescere le proporzioni dello scandalo, c’è anche Claire, la sorellastra di Mary, in un disinvolto mènage à trois intriso di idealismo. Ci penseranno le reciproche gelosie, le difficoltà logistiche e le tasche vuote a spegnere ogni slancio, e a condurre al prevedibile epilogo di un mesto rientro a Londra.

Ed è lì che la primavera precedente Claire consuma una fugace relazione proprio con lord Byron, col quale ora è decisa a riallacciare i rapporti. È per questo che lo hanno raggiunto in Svizzera. «Mi dirai se potrò offrirti ciò che da tempo il mio cuore appassionato desidera darti» gli scrive maliziosamente [STOCKING, 1995]. «Una ragazzetta stupida» la liquida Byron, che non sopporta le sue caschevoli insistenze [LANSDOWN, 2015]. Quando lei lo guarda attraverso la tavola, con i suoi occhi grandi e luminosi, lui risponde con una smorfia che non cela il fastidio.

La cena è finita. I valletti hanno sparecchiato la tavola e portato via le pietanze. In un angolo della stanza, Polidori fuma in silenzio; Byron, come sempre dopo cena, mangia biscotti secchi e beve acqua di seltz. Le due donne chiacchierano accanto al camino. Shelley guarda la pioggia che batte fuori dalla finestra. Il temporale non accenna a smettere, e l’opaca oscurità della notte è illuminata solo dai bagliori lontani dei lampi. La classica notte buia e tempestosa, come da clichè horror. E, come da copione, ecco Byron avvicinarsi alla credenza, aprire un cassetto nascosto e alzare in aria un misterioso libro. Il ritrovamento dev’essere stato rimarcato da un tuono improvviso. Tutti si avvicinano, guardando dall’alto la copertina di cuoio e il titolo ricamato sopra: Fantasmagoriana [EYRIES, 1812].

Byron apre il volume e inizia a leggere ad alta voce. Sono otto racconti dell’orrore, tradotti dal tedesco al francese. Racconti per la verità un po’ banali – dai titoli pomposi come Il teschio o La sposa cadavere – e che oggi ci suonano «eccessivi, farraginosi, teatrali», gravati come sono dalla prevedibile zavorra di catene trascinate, sotterranei oscuri e urla strazianti. Racconti ispirati, d’altra parte, proprio alle popolari fantasmagorie, i grezzi spettacoli di luci pieni di «cianfrusaglie dall’apparenza esoterica» [CAMILLETTI, 2016]. Ma per capire l’impatto clamoroso che ebbero su quei giovani romantici – Mary, a distanza di quindici anni, dirà che quegli episodi «sono così freschi e nitidi nella mia mente come se li avessi letti appena ieri» [M.SHELLEY, 1831] – bisogna rifarsi alla loro spiccata sensibilità gotica.

Tutti i presenti avevano sicuramente letto i classici del genere come Il castello di Otranto (1764) di Horace Walpole, I misteri di Udolpho (1794) di Ann Radcliffe e Il monaco (1796) di Matthew Gregory Lewis. Il loro immaginario è tipicamente dark, vagamente shakespeariano, in un vortice convulso di incesti, macabre apparizioni, segrete di castelli, magia nera. È l’istintiva reazione alla razionalissima età illuminista, che, per dirla alla Leopardi, aveva preteso di «geometrizzare tutta la vita» [LEOPARDI, 1898]. Byron beve vino di Porto da un teschio dissotterrato dal suo giardino, ed è convinto che nella sua dimora si aggiri «un fantasma di monaco, tutto nero, con il cappuccio abbassato sul viso» [ORLANDI, 1969]. Gli Shelley sono soliti raccontarsi storie di fantasmi fino all’alba, inscenando strepitanti crisi isteriche in cui possono ridursi come Claire in questa descrizione:

il suo viso […] irradiava un biancore che appariva quasi luminoso; le labbra e le guance erano avvolte da un pallore mortale […] i capelli protesi e ritti; gli occhi spalancati e fissi, che quasi uscivano dalle orbite per le convulsioni dei muscoli; le palpebre tirate in dentro, e i bulbi, che non trovavano pace, sembravano essere stati reintrodotti, per un orribile scherzo, nelle orbite di una testa senza vita. [M.SHELLEY, 2015]

È in questo clima di suggestione collettiva, amplificato dal rombo sordo del temporale, che la voce grave di Byron continua a leggere per ore, col suo tono cadenzato ed ipnotico. Ad un tratto si interrompe. La luce delle candele illumina da sotto il suo volto spiritato. «Ognuno di noi scriverà una storia di fantasmi» prorompe [M.SHELLEY, 1831]. Un breve istante di esitazione, poi tutti accettano con entusiasmo. Claire, tenendosi la testa con la mano, butta giù due righe svogliate, ma non possiede, «pur forse agognandola, l’energia necessaria per il mestiere della scrittura» [GIOVANNINI, 2019], in una famiglia in cui «se non sapevi scrivere un poema eri una creatura spregevole» [BOOTH, 1938]. Anche la più colta Mary, per la verità, non scrive neanche una parola. Dopo pochi minuti, le due donne si ritirano nelle loro camere, seguite da Polidori, che non si sente tanto bene. Solo Shelley e Byron, i due veri letterati del gruppo, incominciano una storia dell’orrore.

Percy si limita ad abbozzare il racconto The Assassins, «basato su un’esperienza vissuta da ragazzo» [M.SHELLEY, 1831], probabilmente il tentativo, da parte del padre, di rinchiuderlo in manicomio per le sue idee sovversive. D’altronde Shelley è un poeta puro, più incline all’accorto ricamo del verso che a «congegnare i meccanismi di una storia» [M.SHELLEY, 1831]. Byron inizia invece The Burial, «una storia orientaleggiante sulla morte di un misterioso inglese, Augustus Darvell, in un cimitero turco nei pressi di Efeso» [SAMPSON, 2017] ma il testo rimane allo stato embrionale del frammento, in cui si limita a tratteggiare sbrigativamente il carattere sfuggente di Darvell, la sua «riservatezza», le «contraddizioni inconciliabili», l’«acuta sensibilità», l’«indole morbosa affine alla malattia» [BYRON, 1819]. Due spunti, due spezzoni che, passata la suggestiva atmosfera del momento, sono destinati a rimanere tali. Ormai è mattina. I due spengono le candele, si salutano e si decidono finalmente ad andare a letto. Nessuno si accorge, nell’ombra azzurra dell’alba, che Claire è scivolata silenziosamente nella camera di Byron.

Fine della Prima Parte, a breve sarà disponibile anche la Seconda Parte.
Autore: Mario Taccone
Revisione e cura: Alessandro Ardigò, Arianna Sardella

Bibliografia:

  • LANSDOWN, 2015 = Byron’s Letters and Journals: A New Selection, a cura di Richard Lansdown, Oxford University Press, Oxford, 2015
  • BYRON, 1836 = Il pellegrinaggio del giovine Aroldo di George Gordon Byron, traduzione di Giuseppe Gazzino, Tipografia Arcivescovile, Genova, 1836
  • ORLANDI, 1969 = I giganti della letteratura mondiale – Byron a cura di Enzo Orlandi, Mondadori, Milano, 1969
  • DOUGLASS, 2004 = Lady Caroline Lamb: A Biography di Paul Douglass, Palgrave Macmillan, London, 2004
  • QUENNELL, 1999 = Byron in Italia di Peter Quennell, Il Mulino, Bologna, 1999
  • HOGG, 1906 = The life of Percy Bysshe Shelley di Thomas Jefferson Hogg, George Routledge and Sons, Londra, 1906
  • GODWIN, 1997 = L’eutanasia dello stato, antologia di William Godwin a cura di Peter Marshall, Eleuthera, Milano, 1997
  • P.SHELLEY, 1821= Epipsychidion di Percy Bysshe Shelley 1821, in Opere, edizione presentata, tradotta e annotata da Francesco Rognoni, Biblioteca della Pléiade, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995
  • SAMPSON, 2018= La ragazza che scrisse Frankenstein. Vita di Mary Shelley di Fiona Sampson, Utet, Milano, 2018
  • STOCKING, 1995 = The Clairmont Correspondence: Letters of Claire Clairmont, Charles Clairmont, and Fanny Imlay Godwin, 2 volumi, The John Hopkins University Press, Baltimora, 1995
  • EYRIES, 1812 = Fantasmagoriana, ou Receuil d’Histoires de Spectres, Revenants, Fantomes, etc. a cura di J-B.B. Eyries, 2 voll., F.Schoell, Parigi, 1812
  • CAMILLETTI, 2016 = Storie di fantasmi, tradotte dal tedesco di Fabio Camilletti, contenuto in Fantasmagoriana a cura di Fabio Camilletti, Nova Delphi, Roma, 2015
  • M.SHELLEY – 1831 = Introduzione dell’autrice all’edizione del 1831 di Frankenstein di Mary Shelley, Liberamente, Roma, 2018
  • LEOPARDI, 1898 = Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi, a cura di G. Pacella, 3 voll, Garzanti, Milano, 1991
  • SHELLEY, 2015 = La custode del tempio. Lettere e diari di Mary Shelley, Cinquemarzo Edizioni, Viareggio, 2015.
  • GIOVANNINI, 2019 = Prefazione di Fabio Giovannini a Villa diodati files. Vampiri e altri parassiti (1818-19) a cura di Fabio Camilletti, Nova Delphi, Roma, 2019
  • BYRON, 1819 = The Burial: A Fragment di George Gordon Byron, 1819. La traduzione italiana è contenuta in Il vampiro di John William Polidori seguito da Frammento di George Gordon Byron, Theoria, Roma, 1994
  • BOOTH, 1938 = The Pole: A Story by Claire Clairmont? di Bradford A. Booth, in ELH, Vol. 5, No. 1 (Marzo 1938), pp. 67–70
  • SHELLEY, 1817 = History of a Six Weeks’ Tour through a Part of France, Switzerland, Germany and Holland: With Letters Descriptive of a Sail Round the Lake of Geneva, and of the Glaciers of Chamouni di Mary e Percey Bysshe Shelley, Hookham and Ollier, Londra, 1817. La traduzione italiana è Storia di un viaggio di sei settimane (1817) a cura di M. Petillo, in Sulle strade degli Shelley, Aracne, Roma, 2006
  • POLIDORI, 1911 = The Diary of Dr. John William Polidori: 1816, Relating to Byron, Shelley, etc., a cura di W.M. Rossetti, Elkin Mathews, Londra, 1911
  • BENNETT, 1988 = The Letters of Mary Wollstonecraft Shelley a cura di B.T. Bennett, 3 voll., Johns Hopkins University Press, Baltimora, 1980 – 1988
  • FUSINI, 2011 = Introduzione di Nadia Fusini a Frankenstein di Mary Shelley, Einaudi, Torino, 2011
  • M.SHELLEY, 1818 = Frankenstein di Mary Shelley, 1818. La traduzione italiana è Frankenstein di Mary Shelley, Einaudi, Torino, 2011
  • POLIDORI, 1819 = The Vampyre di John William Polidori, 1819. La traduzione italiana è Il vampiro di John William Polidori, seguito da Un mistero della campagna romana di Anne Crawford, traduzione di Erberto Petoia, Newton Compton, Roma, 1993
  • PETOIA, 1993 = Introduzione di Erberto Petoia a Il vampiro di John William Polidori, cit.
  • PUNTER, 1985 = Storia della letteratura del terrore di David Punter, Editori Riuniti, Roma, 1985
  • P.SHELLEY, 1819 = Julian and Maddalo: A Conversation di Percy Bysshe Shelley 1819, in Opere, edizione presentata, tradotta e annotata da Francesco Rognoni, Biblioteca della Pléiade, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995
  • BYRON, 1840 = Dialoghi di G.G. Byron, Tipi della Minerva, Padova, 1840
  • SHAKESPEARE, 1611 = The tempest di William Shakespeare, 1611. La traduzione italiana è La tempesta di William Shakespeare, traduzione di Salvatore Quasimodo, Mondadori, Milano, 1991
  • BYRON, 1817 = Lettera di George Gordon Byron a Douglas Kinnaird del 20 gennaio 1817, in Vita attraverso le lettere di George Gordon Byron, a cura di Masolino D’Amico, Einaudi, Torino, 1989
  • BYRON, 1818 = Lettera di George Gordon Byron ad Augusta Leigh del 3 agosto 1818, in Vita attraverso le lettere di George Gordon Byron, cit.
  • P.SHELLEY, 1820 = Lettera di Percy Bysshe Shelley a George Gordon Byron del 17 settembre 1820, in Morire in Italia – Lettere 1818-1822 di Percy Bysshe Shelley, Rosellina Archinto, Milano, 1992

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