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La notte in cui nacque la letteratura dell’orrore – Byron, gli Shelley, Clairmont e Polidori a villa Diodati (SECONDA PARTE)

3. Mary
Il giorno dopo, a colazione, l’umore di Mary si specchia nel cielo grigio che entra dalle ampie finestre della sala. Mentre mangia senza appetito, gli altri infieriscono: «”Hai pensato a una storia?”, mi chiedevano ogni mattina, e ogni mattina, mortificata, ero costretta a rispondere di no”» [M.SHELLEY, 1831]. Le pare l’ennesima conferma della subalternità – e del sottile complesso di inferiorità – a cui è relegata in quanto donna, oltre che figlia di un famoso filosofo e moglie di un famoso poeta. La stessa Mary è cosciente del fatto che, al di là di tutto, da bambina si limitava a «scribacchiare», e che i suoi componimenti «non erano altro che imitazioni di quanto già scritto da altri», per di più in «uno stile ordinario» [M.SHELLEY, 1831]. Ora, invece, mentre guarda il lago immobile e nero sotto di loro, non riesce a scrivere neanche una sillaba:

Io mi impegnai a concepire una storia […] in grado di suscitare brividi d’orrore e capace di far sì che i lettori avessero paura di guardarsi alle spalle, di far gelare il sangue ed accelerare i battiti del cuore. I miei pensieri e le mie meditazioni erano però vane: sentivo la vuota capacità d’invenzione che è il più grande cruccio di chi scrive, quando è il nebuloso Nulla a rispondere alle nostre ansiose invocazioni. [M.SHELLEY, 1831].

Eppure un’aria spettrale si è ormai impadronita del gruppo. Il tempo è ancora pessimo. «Una pioggia quasi incessante ci costringe a rimanere a casa» annota [M.SHELLEY, 1817]. E le serate, grazie anche alle massicce dosi di brandy e laudano che girano, diventano macabre messe in scena:

A mezzanotte si cominciò davvero a parlare di spettri. Lord Byron recitò i versi di Christabel di Coleridge sul seno della strega; quando calò il silenzio, all’improvviso Shelley si mise a urlare e, portando le mani alla testa, corse via dalla stanza con una candela. Gli si gettò dell’acqua in faccia e gli si diede dell’etere. [POLIDORI, 1911]

Ma la mattina seguente, quando tutti, ancora scossi e assonnati, si ritrovano nella sala grande, li attende un’inaspettata sorpresa: il tempo è migliorato. Un sole pallido fa capolino tra la spessa coltre di nubi, inondando la facciata della villa. Byron e Shelley fremono per uscire. «Il tempo si fece improvvisamente sereno» ricorda Mary «i miei due amici mi lasciarono per un’escursione sulle Alpi e persero, fra i loro splendidi panorami, ogni ricordo delle loro macabre fantasie» [M.SHELLEY, 1831]. Claire, senza più la pioggia a favorire le sue mire amorose, vaga annoiata tra i sentieri del parco. Polidori è sempre in visita da amici. Rimane solo Mary, e il silenzio annoiato delle stanze vuote.
«Una pioggia che pareva eterna» la confina di nuovo a casa, da dove non le rimane che guardare «i temporali che si avvicinavano dal lato opposto del lago» e «i giochi di luce tra le nuvole in diversi punti del cielo» [BENNETT, 1988 ]. L’elettricità dei fulmini la affascina. Come la affascinano gli esperimenti del fisico italiano Luigi Galvani, capace di rianimare le zampe delle rane con una piccola scarica elettrica. Una sera – tra notazioni letterarie, burle e succosi pettegolezzi – la conversazione del gruppo scivola proprio sul tema:

Lunghe e svariate erano le conversazioni tra Lord Byron e Shelley alle quali partecipavo come attenta ma pressoché silenziosa ascoltatrice: durante una di queste si discuteva a proposito di varie teorie filosofiche e, fra le altre, anche la natura del principio vitale e se ci fosse qualche possibilità che essa fosse mai scoperta e divulgata. [M.SHELLEY, 1831]

I due si riferiscono in particolare agli esperimenti di Erasmus Darwin, nonno paterno di Charles Darwin, che era riuscito a rianimare, dopo lungo tempo e all’asciutto, alcuni protozoi acquatici. La suggestione la intriga, e a notte fonda, mentre si rigira da ore nel suo letto, si condensa in una visione allucinatoria:

Vidi – ad occhi chiusi, ma con un’acuta percezione della mente – il pallido studioso di scienze proibite intento ad inginocchiarsi accanto a quella “cosa” che aveva messo insieme. Vidi l’orrenda figura di un uomo disteso, e poi, messo in funzione qualche potente congegno, dare segni di vita parziale muovendosi con difficoltà [M.SHELLEY, 1821].

L’epifania è arrivata, «repentina e gradita come l’apparire della luce». «Ho trovato!» esclama alzandosi a sedere. Tutto quello che deve fare è dare una forma letteraria allo «spettro che a mezzanotte ha infestato» il suo sonno, e che ora aleggia sul parquet scuro inondato dal «chiarore lunare». Lei ancora non lo sa, ma ha appena creato una delle figure più mostruose e durature della letteratura di tutti i tempi: Frankenstein.

Certo, la scrittura è ancora molto acerba – bisogna ricordare che Mary è una diciannovenne al suo primo tentativo letterario – e il romanzo risente di certe pesantezze stilistiche e strutturali. Ma Mary si allontana dai foschi e abusati motivi del gotico, con la loro classica «eroina perseguitata e piena di coraggio che scappa attraverso foreste infestate di banditi» [FUSINI, 2011], per costruire un testo complesso, stratificato, onnivoro, che si alimenta degli spunti più disparati. Ci troviamo Omero, Milton, Rousseau, il galvanismo, il mito classico, la fantascienza, il teatro shakespeariano e persino le sue esperienze biografiche di quei giorni, come una gita al Mer de Glace, sul Monte Bianco, che ritroviamo puntualmente nell’«ampio fiume di ghiaccio» del romanzo [M.SHELLEY, 1818]. Ma c’è qualcosa di più profondo. Non bisogna dimenticare che la sua nascita, nel 1797, aveva provocato la morte della madre. Questo oscuro complesso, nella sua terribile compenetrazione di vita e morte, ora si condensava nella nascita aberrante e grottesca del mostro. Un simbolo delle paure di Mary in cui si riflettono le paure dell’intero genere umano.

4. John
Durante la febbrile stesura di Frankenstein, Mary non è propriamente sola. Accanto a lei, silenzioso e riservato, molte volte c’è il dottor Polidori. Tra tutti e cinque, è sicuramente il meno coinvolto, il più estraneo agli intrighi e ai segreti degli altri. Ogni sera, prima di cena, si limita a una frettolosa visita nella camera da letto di Byron, a cui somministra l’immancabile purgante (Byron ha la tendenza ad ingrassare, e non disdegna anche i rimedi più grossolani pur di perdere peso).

Il loro è un legame strano. I mesi del viaggio europeo hanno certo rinsaldato il loro affiatamento: il dottore è lì quando Byron corre dietro a tutte le cameriere di tutti gli alberghi in cui sostano, si annoia di fronte ai quadri di Rubens o scorrazza sul campo di Waterloo «in lungo e in largo, in sella a un cavallo, urlando canzoni di guerra turche» [GIOVANNINI, 2019]. Ma, fondamentalmente, Byron lo disprezza. In pubblico lo chiama Polly Dolly. E’ il tipico «rapporto sadomasochistico di vampirismo mentale» [GIOVANNINI, 2019]: un morboso coacervo di odio, dipendenza e competizione, a cui non è aliena un’evidente pulsione omosessuale, ma che si risolve sempre in una continua umiliazione per il povero Polidori. Una sera, mentre passeggiano con gli Shelley in riva al lago, Byron lo scaraventa in acqua senza motivo. Mentre annaspa faticosamente verso riva, gli rimbombano nelle orecchie le risate sguaiate degli altri.

C’è da dire che Polidori ci mette anche del suo, inanellando una serie di episodi goffi e sgradevoli. Durante una gita in barca, colpisce accidentalmente il ginocchio di Byron con un remo. Invece di scusarsi, si dichiara «lieto di sapere» che anche lui fosse «sensibile al dolore». Un giorno, per un futile diverbio, arriva addirittura a sfidare a duello Shelley:

Sia Byron che i suoi nuovi amici erano sinceramente nauseati da lui. Si era dimostrato suscettibile, presuntuoso, arrogante ed esagerato. Non faceva che dibattersi a vuoto, lasciandosi andare ad osservazioni impertinenti delle quali si pentiva immediatamente, per poi ritirarsi a meditare in solitudine sulle sue pene e sui torti subiti. Il ridicolo lo incalzava da mattina a sera [QUENNELL, 1999].

L’umiliazione era, nello specifico, un’umiliazione letteraria. Polidori era «tormentato da desideri e ambizioni che non riuscì mai a soddisfare, frustrato dall’abbagliante superiorità del talento di Byron», che non perde occasione di rinfacciargli beffardamente le «quattordicimila copie» vendute del suo poema. Stessa maligna ineleganza con cui commenta una tragedia del dottore, assicurando che gli fossero state «presentate cose di gran lunga peggiori» [QUENNELL, 1999].

Polidori rimugina tutto questo, mentre fissa il foglio impietosamente bianco, alzando ogni tanto lo sguardo agli alberi del parco piegati dal vento. La sua aspirazione letteraria si rivela ancora una volta una ridicola velleità. «Tutti tranne me hanno cominciato a scrivere racconti di fantasmi» si lamenta sul diario [POLIDORI, 1911]. E quando la sera, insieme a Mary, rilegge il primo abbozzo, intitolato senza troppa originalità La donna dalla testa di morto, si arrende all’evidenza che il suo tentativo sia decisamente scarico:

Il povero Polidori ebbe un’idea su una dama che aveva un teschio al posto della testa, come castigo per aver spiato dal buco di una serratura – non so più per vedere cosa, ma qualcosa senz’altro di spaventoso e peccaminoso; ma quando l’ebbe ridotta così non sapeva più che farne [M.SHELLEY, 1831].

Questa inedita intimità con Mary, tra l’altro, ha un prevedibile corollario: lui ne è completamente innamorato. Annota ancora sul diario: «Tutto il giorno con la signora Shelley», «Cena con la signora Shelley», «In barca a remi con la signora Shelley per tutta la sera fino alle nove; tè insieme, chiacchiere» [POLIDORI, 1911]. Passano ore a tradurre versi dall’italiano. Pur di aiutarla a scavalcare una staccionata, si sloga eroicamente una caviglia. Lei accetta di buon grado il corteggiamento, ma è attenta a marcare il distacco. Lo chiama little brother, fratellino, e basta questo a togliergli qualsiasi pur flebile speranza.

Il doppio fallimento – letterario e sentimentale – si scioglie però un tardo pomeriggio. Gli ronzano in testa le parole di Mary, che la mattina parlava di come «l’inventiva non consiste nel creare dal vuoto» ma nel dare «una forma all’oscura sostanza priva di forma» [M.SHELLEY, 1831]. Detto in altri termini: Polidori, per scrivere la sua opera, deve partire da ciò che conosce bene e rielaborarlo. E cosa conosce meglio del suo amato odiato paziente? «Ho iniziato la mia storia di fantasmi dopo il the», scrive inorgoglito, e non può che essere un racconto ispirato al «tenebroso ribellismo» di Byron [GIOVANNINI, 2019]. Si intitola Il vampiro, ed è la prima apparizione vampiresca nella storia della letteratura mondiale.

La novella, di per sè, è piuttosto scontata. Polidori si allinea ai luoghi comuni più abusati dalla tradizione gotica, con «la furia del temporale» ad incombere sull’«intricata foresta» e le «urla terrificanti» mescolate all’immancabile «risata beffarda ed esultante» [POLIDORI, 1819]. La trama, per quanto semplice, è evidentemente sbilenca, e i personaggi sono tratteggiati in modo piatto e incolore. Ma il testo ha un merito decisivo: quello di spogliare il vampiro di «tutte le connotazioni rozze e popolari» tipiche della tradizione slava «per diventare un raffinato aristocratico, un gentleman, alto e smunto, vestito di nero». Polidori, cioè, fissa una volta per tutte lo stereotipo universale del vampiro «elegante, ben vestito, un maestro nell’arte della seduzione, un cinico, una persona al di fuori dei codici sociali e morali predominanti» [PETOIA, 1993], stereotipo che, consacrato dal Dracula di Bram Stoker, si impianterà stabilmente nell’immaginario collettivo fino ad oggi.

Sono evidentissimi i richiami autobiografici alla figura di Byron: il vampiro è fascinoso, dissoluto e vizioso, intraprende un grand tour per l’Europa e arriva in Grecia (il paese preferito di Byron). Il suo stesso nome, lord Ruthven, non può non far pensare al «perfido e crudele Ruthven» con cui Caroline Lamb, una delle tante amanti abbandonate dal poeta, aveva fornito nel suo romanzo Glenarvon il rancoroso ritratto dell’ex. Ma la mostruosità del vampiro non si esaurisce nel rimando all’archetipo byroniano. Unisce le paure ancestrali dell’uomo – la «paura originale per il sangue succhiato» [PUNTER, 1985] – alle paure sociali per la profanazione dei placidi valori borghesi (Ruthven passa da una giovane fanciulla innocente all’altra). Il vampiro tocca corde umane e sociali profondissime, e in questo sta tutta la sua grandezza.

Quando Polidori scrive l’ultima parola, è il 29 agosto 1816. I bagagli degli altri sono già nell’atrio, pronti ad essere caricati sulla carrozza. D’altronde, a questo punto, tutti hanno avuto quello che volevano. Byron e Shelley hanno consolidato la loro amicizia, così stimolante per entrambi («A cavallo parlavamo; e il lesto pensiero,/ sulle ali del riso, non indugiava/ ma volava da cervello a cervello» [P.SHELLEY, 1819]). Polidori e Mary, inaspettatamente, hanno realizzato la loro aspirazione alla scrittura, fondando quasi per gioco la letteratura orrorifica moderna. E Claire, mentre la carrozza lascia villa Diodati inondata dalla luce rossa del tramonto, guarda per l’ultima volta il lago sotto di lei, azzurro e sospeso come il futuro che la attende. Sotto gli abiti attillati, un occhio attento intuirebbe subito che è incinta.

5. Claire (epilogo)
Firenze, 1879. L’anziana signora inglese che fissa l’Arno dal suo terrazzo ha dei bellissimi ricci bianchi che le incorniciano il volto. I suoi grandi occhi brillano di una vivacità mai sopita, sopra un abito di seta rossa che rivela tutta la sua tenace civetteria. Appena arrivata a Firenze, nove anni prima, ha preteso una casa con vista sul fiume. L’acqua le ricorda il suo passato. Nel bene e nel male. La sua giovinezza, specchiata nelle acque limpide di un lago svizzero in una freddissima estate di tanti anni prima. La sua maturità, arenata tra le onde agitate di un mare in tempesta. E’ per questo che vuole vedere sempre lo scorrere dell’acqua. Perché le ricorda i suoi amici che ormai non ci sono più.

Polidori fu il primo ad andarsene. Nel 1819, tre anni dopo il loro soggiorno a villa Diodati, ruppe i rapporti con Byron e si prese la sua rivincita pubblicando Il Vampiro sul New Monthly Magazine. Fu un discreto successo, elogiato persino da Goethe, ma – per ironia del destino – la novella venne creduta opera di Byron. Vero, Byron ammise subito «di non avere nulla a che fare con quel lavoro» e di non essere «tanto vanitoso e tanto egoista» [BYRON, 1840] da attribuirsene il merito, ma gli editori trovarono più conveniente l’equivoco. I debiti e la delusione alimentarono le sue tendenze suicide. Byron ricorda come il dottore parlasse «sempre di acido prussico, olio d’ambra, di bolle d’aria nelle vene, di soffocamento per i vapori del carbone e di misture velenose» [QUENNELL, 1999]. Nel 1821, ad appena ventisei anni, Polidori si tolse la vita. Non seppe mai che la sua opera – finalmente attribuita al suo vero autore – sarebbe diventata un successo internazionale clamoroso.

Per Mary e Percy, al contrario, gli anni dopo Ginevra erano stati esaltanti. Si erano sposati ed erano partiti definitivamente per l’Italia, proprio mentre Frankenstein, con il prestigioso endorsement di Walter Scott, diventava un inaspettato bestseller. I due sposini, sempre con accanto Claire, avevano visitato la cella del Tasso a Ferrara, cavalcato nelle pinete attorno a Ravenna, scalato il Vesuvio in eruzione, sospesi in una sorta di abbagliante ed esotico incanto. Ma Mary lo sapeva, il vento poteva cambiare all’improvviso. I colpi erano arrivati in rapida successione. Il suicidio di Harriet, la prima moglie di Percy. Quello di Fanny, altra affezionatissima sorellastra di Mary. Le morti improvvise della figlia Clara, di dissenteria, e del figlio William, di malaria. Colpi durissimi. Ma il peggio doveva ancora arrivare.

Percy non sapeva nuotare, ma era fissato con le traversate nautiche. Una mattina di agosto, nella luce ancora incerta dell’orizzonte, era uscito sul suo battello Ariel. Non aveva fatto più ritorno. Il mare in tempesta restituì il suo corpo dieci giorni dopo sulla spiaggia di Viareggio. Aveva ancora in tasca i volumi di Eschilo e di Keats. Lì accorsero Mary, Claire e alcuni amici – tra cui, ovviamente, anche Byron – per cremare il corpo. «Lui, il mio amato, l’eccelso e divino Shelley, mi ha lasciata sola in questo mondo infelice e odioso» si dispera Mary, mentre versa sul rogo incensi e oli aromatici, come nell’Eneide i troiani al funerale di Miseno [BENNETT, 1988]. Byron, quasi sottovoce, recitava Shakespeare: «Niente di lui si dissolve / ma subisce una metamorfosi marina / per divenire qualcosa di ricco e strano» [SHAKESPEARE, 1611]. Il vento forte disperdeva le sue parole, che nessuno poteva sentire.

Anche Byron viveva in Italia. Si era stabilito a palazzo Mocenigo, sul Canal Grande, dove viveva «in un pittoresco disordine, con i suoi animali favoriti, schiere di servi e un continuo via vai di donnine allegre» [ORLANDI, 1969]. Gli animali favoriti erano un’aquila, un falcone, dieci cavalli, tre scimmie, otto cani, cinque gatti, due porcellini d’India, cinque pappagalli, un pavone, un corvo e una cicogna. In Italia si fece carbonaro, imparò l’armeno, ebbe duecento amanti. Ma nel 1823 non potè resistere al richiamo del paese del suo cuore, la Grecia, a quel tempo in rivolta contro l’impero ottomano. «Dicono che posso essere d’aiuto in Grecia. Io non lo so, e non lo sanno neppure loro. Ad ogni buon conto, andiamoci». Aveva trentasei anni e una cartomante, prima di partire, gli aveva predetto che non avrebbe superato i trentasette. Sapeva di andare «nel paese dell’onorevole morte», dove avrebbe trovato sul campo «una tomba da soldato» [LANSDOWN, 2015]. E aveva ragione: l’anno seguente morì improvvisamente a Missolungi, per un attacco di febbri.

E lei, Claire? Nonostante l’imminente gravidanza, dopo la vacanza a Ginevra Byron l’aveva malamente scaricata. In una lettera a un amico, la dipinge in questi termini non propriamente signorili:

Non l’ho mai amata nè ho preteso di amarla. Ma un uomo è un uomo: se una ragazza di diciott’anni ti salta addosso a tutte le ore, non c’è nessun modo. La conseguenza di tutto ciò è che rimase incinta e tornò in Inghilterra per aiutare a popolare quell’isola desolata. […] La domanda seguente è: è mio il marmocchio? Ho ragione di crederlo, poichè aveva fatto un bel po’ di quella cosa con me. Ecco cosa succede a “metterlo dappertutto”. [BYRON, 1817]

L’indesiderato marmocchio è in realtà una bellissima bimba, Allegra, con i ricci biondi della mamma e lo «spirito indiavolato del papà» [BYRON, 1818]. Byron – contro ogni aspettativa – decide di tenerla con sè e collocarla come educanda in un convento a Bagnocavallo, vicino Ravenna, senza permettere alla madre di vederla. Presa dalla disperazione, Claire organizza deliranti progetti di rapimento. Ma non farà in tempo a metterli in atto. Il 20 aprile 1822 la bimba muore di febbre tifoidale a soli cinque anni. Era tutta la vita che provava a sfuggire a quel dolore, correndo come istitutrice privata da Vienna a Parigi a Dresda, fino all’agognato approdo italiano. Ma forse solo ora, guardando il sole stendersi sui tetti immobili della città, si arrende con un sorriso triste all’inutile bellezza del mondo.

Fine della Seconda Parte
Autore: Mario Taccone
Revisione e cura: Alessandro Ardigò, Arianna Sardella

Bibliografia:

  • LANSDOWN, 2015 = Byron’s Letters and Journals: A New Selection, a cura di Richard Lansdown, Oxford University Press, Oxford, 2015
  • BYRON, 1836 = Il pellegrinaggio del giovine Aroldo di George Gordon Byron, traduzione di Giuseppe Gazzino, Tipografia Arcivescovile, Genova, 1836
  • ORLANDI, 1969 = I giganti della letteratura mondiale – Byron a cura di Enzo Orlandi, Mondadori, Milano, 1969
  • DOUGLASS, 2004 = Lady Caroline Lamb: A Biography di Paul Douglass, Palgrave Macmillan, London, 2004
  • QUENNELL, 1999 = Byron in Italia di Peter Quennell, Il Mulino, Bologna, 1999
  • HOGG, 1906 = The life of Percy Bysshe Shelley di Thomas Jefferson Hogg, George Routledge and Sons, Londra, 1906
  • GODWIN, 1997 = L’eutanasia dello stato, antologia di William Godwin a cura di Peter Marshall, Eleuthera, Milano, 1997
  • P.SHELLEY, 1821= Epipsychidion di Percy Bysshe Shelley 1821, in Opere, edizione presentata, tradotta e annotata da Francesco Rognoni, Biblioteca della Pléiade, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995
  • SAMPSON, 2018= La ragazza che scrisse Frankenstein. Vita di Mary Shelley di Fiona Sampson, Utet, Milano, 2018
  • STOCKING, 1995 = The Clairmont Correspondence: Letters of Claire Clairmont, Charles Clairmont, and Fanny Imlay Godwin, 2 volumi, The John Hopkins University Press, Baltimora, 1995
  • EYRIES, 1812 = Fantasmagoriana, ou Receuil d’Histoires de Spectres, Revenants, Fantomes, etc. a cura di J-B.B. Eyries, 2 voll., F.Schoell, Parigi, 1812
  • CAMILLETTI, 2016 = Storie di fantasmi, tradotte dal tedesco di Fabio Camilletti, contenuto in Fantasmagoriana a cura di Fabio Camilletti, Nova Delphi, Roma, 2015
  • M.SHELLEY – 1831 = Introduzione dell’autrice all’edizione del 1831 di Frankenstein di Mary Shelley, Liberamente, Roma, 2018
  • LEOPARDI, 1898 = Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi, a cura di G. Pacella, 3 voll, Garzanti, Milano, 1991
  • SHELLEY, 2015 = La custode del tempio. Lettere e diari di Mary Shelley, Cinquemarzo Edizioni, Viareggio, 2015.
  • GIOVANNINI, 2019 = Prefazione di Fabio Giovannini a Villa diodati files. Vampiri e altri parassiti (1818-19) a cura di Fabio Camilletti, Nova Delphi, Roma, 2019
  • BYRON, 1819 = The Burial: A Fragment di George Gordon Byron, 1819. La traduzione italiana è contenuta in Il vampiro di John William Polidori seguito da Frammento di George Gordon Byron, Theoria, Roma, 1994
  • BOOTH, 1938 = The Pole: A Story by Claire Clairmont? di Bradford A. Booth, in ELH, Vol. 5, No. 1 (Marzo 1938), pp. 67–70
  • SHELLEY, 1817 = History of a Six Weeks’ Tour through a Part of France, Switzerland, Germany and Holland: With Letters Descriptive of a Sail Round the Lake of Geneva, and of the Glaciers of Chamouni di Mary e Percey Bysshe Shelley, Hookham and Ollier, Londra, 1817. La traduzione italiana è Storia di un viaggio di sei settimane (1817) a cura di M. Petillo, in Sulle strade degli Shelley, Aracne, Roma, 2006
  • POLIDORI, 1911 = The Diary of Dr. John William Polidori: 1816, Relating to Byron, Shelley, etc., a cura di W.M. Rossetti, Elkin Mathews, Londra, 1911
  • BENNETT, 1988 = The Letters of Mary Wollstonecraft Shelley a cura di B.T. Bennett, 3 voll., Johns Hopkins University Press, Baltimora, 1980 – 1988
  • FUSINI, 2011 = Introduzione di Nadia Fusini a Frankenstein di Mary Shelley, Einaudi, Torino, 2011
  • M.SHELLEY, 1818 = Frankenstein di Mary Shelley, 1818. La traduzione italiana è Frankenstein di Mary Shelley, Einaudi, Torino, 2011
  • POLIDORI, 1819 = The Vampyre di John William Polidori, 1819. La traduzione italiana è Il vampiro di John William Polidori, seguito da Un mistero della campagna romana di Anne Crawford, traduzione di Erberto Petoia, Newton Compton, Roma, 1993
  • PETOIA, 1993 = Introduzione di Erberto Petoia a Il vampiro di John William Polidori, cit.
  • PUNTER, 1985 = Storia della letteratura del terrore di David Punter, Editori Riuniti, Roma, 1985
  • P.SHELLEY, 1819 = Julian and Maddalo: A Conversation di Percy Bysshe Shelley 1819, in Opere, edizione presentata, tradotta e annotata da Francesco Rognoni, Biblioteca della Pléiade, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995
  • BYRON, 1840 = Dialoghi di G.G. Byron, Tipi della Minerva, Padova, 1840
  • SHAKESPEARE, 1611 = The tempest di William Shakespeare, 1611. La traduzione italiana è La tempesta di William Shakespeare, traduzione di Salvatore Quasimodo, Mondadori, Milano, 1991
  • BYRON, 1817 = Lettera di George Gordon Byron a Douglas Kinnaird del 20 gennaio 1817, in Vita attraverso le lettere di George Gordon Byron, a cura di Masolino D’Amico, Einaudi, Torino, 1989
  • BYRON, 1818 = Lettera di George Gordon Byron ad Augusta Leigh del 3 agosto 1818, in Vita attraverso le lettere di George Gordon Byron, cit.
  • P.SHELLEY, 1820 = Lettera di Percy Bysshe Shelley a George Gordon Byron del 17 settembre 1820, in Morire in Italia – Lettere 1818-1822 di Percy Bysshe Shelley, Rosellina Archinto, Milano, 1992

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