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D’Annunzio è un porco: il più grande equivoco della letteratura italiana

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1- «Non chi più soffre, ma chi più gode conosce»
Per D’Annunzio tutto è lecito, se porta al godimento. «Tanto è severa la disciplina del mio spirito quanto è sfrenata la mia bramosia dei piaceri. Non riconosco alcun limite alla mia ricerca di voluttà nuove» dichiara espressamente [GUERRI, 2013]. Chiede alle sue amanti un talismano di peli pubici, come imperituro ricordo. Declama apertamente gli effetti benefici dell’orgia: «Fiaccate il corpo, esauritelo con l’orgia, con la mancanza di sonno – poi, su questa orribile stanchezza versate il vino possente. Effetti meravigliosi» [GUERRI, 2008]. Le amanti accertate sono almeno centocinquanta: con la piccola Giusi fa l’amore in carrozza, sotto tempeste notturne, persino sui pianerottoli degli alberghi. Luisa lo aspetta sempre nuda, nel letto, con un enorme serpente ad adornarle l’esile collo. A Donatella mette violette profumate tra le «piccole mammelle dolci» e le scrive: «Muoio dal desiderio di mordere la tua nuca e di leccare le tue ascelle» [LOMBARDINILO, 2005]. Tante le amanti famose. Della pittrice americana Romaine Brooks – che ha ribattezzato Cinerina, perché dipinge utilizzando solo tonalità di grigio e che in grigio ci ha lasciato due bellissimi ritratti del poeta – lo intriga l’esibito lesbismo. Alla Capponcina, sui colli di Settignano, vive la chiacchieratissima relazione con Eleonora Duse, soprannominata la Divina, la più grande attrice dell’epoca. Con Sarah Bernhardt, celeberrima attrice francese, trascorre una notte di passione. Passione che si accende anche per Ida Rubinstein, ammaliante danzatrice e mima russa. Una sera, a Parigi, dopo averla vista ballare nei panni di Cleopatra, vedendo da vicino le meravigliose gambe nude, così racconta:

Mi getto a terra – non senza sentire su me l’abito “a coda di rondine” – e bacio i piedi, salgo su pel fasolo alle ginocchia, e su per la coscia fino all’inguine, con il labbro abile e fuggevole dell’aulete che scorre sul doppio flauto [GUERRI, 2008].

Frequenta abitualmente le case di tolleranza ed è proprio in una casa di tolleranza che, fresco sedicenne, consuma l’agognata prima volta. L’anno prima, durante una gita scolastica al museo etrusco di Firenze, ha ottenuto il primo bacio da una compagna, non senza essersi accertato, con mossa decisamente meno romantica, dell’esistenza di «un’altra bocca da manomettere, segreta e non impube» [D’ANNUNZIO, 1924]. Ora invece, dopo essersi procurato il denaro vendendo un orologio d’oro, si intrattiene con una mostruosa «gorgòna dalla criniera di serpi ridotta a una parrucca di stoppa rossastra». Lo stile magniloquente del racconto non nasconde l’esiguità del tutto: «Sentii una mano sudaticcia che mi compresse nella bocca il grido spasimoso. Poi sentii placare e cullare i miei sussulti da una tenerezza quasi materna, da non so che malinconica dolcezza da ninnananna, da una pietà semplice che pareva ritrovasse la monotonia delle cantilene in una lontananza indefinita» [D’ANNUNZIO, 1924 (2)].

Coltiva, da quel momento, un gusto sessuale onnivoro, dedicandosi a pratiche considerate allora estreme. Si dilunga in sfiancanti sedute onanistiche. Ama la fellatio, e spesso chiede alle amiche, durante il pranzo, di chinarsi sotto il tavolo. Definisce una delle sue più affezionate cameriere, la francese Amèlie Mazoyer, una «generosa dispensatrice di orgasmi eccellenti» con la sua «bocca meravigliosa», e con la sua «mano donatrice di oblio» [MAZOYER]. L’ha soprannominata Aèlis, con eloquente riferimento al francese hèlice, elica. Non mancano sfumate inclinazioni feticiste – per i piedi piccoli – e la fissazione per il sesso anale (nel Libro segreto scrive, con sorniona ironia, che nella sua mente greca «Euclide istesso/ tra circolo e triangolo è perplesso» [D’ANNUNZIO, 1935]).

Sostiene, arditamente, che «chi non ha mai provato la gioia di uscire dall’esperta alcova della madre per entrare subito, nella stessa notte, nella stanza virginale della figlia, non sa cosa sia la vera ebbrezza dell’amore» [GUERRI, 2013]. Pensa tutto il giorno alla «rosa», cristallina metafora floreale a volte declinata – in un pirotecnico climax lessicale – come «filigrana vivente», «antro villoso e roscido», «abisso senza fondo». L’obiettivo è sempre lo stesso: violare la rosa con il suo «Principino», che coccola con una esilarante ridda di nomignoli («Catapulta perpetua», «Diavolo», «Gonfalon Selvaggio», «Monachino di ferro») la cui erezione dura «dal tocco fino alle undici e mezzo di sera» (e si consideri, per rendere giusto onore al merito, che il tocco corrisponde all’una del pomeriggio). La continua ricerca di piaceri lo spinge addirittura verso una morbosa attrazione per l’egritudine. Ad una delle sue amanti, Barbara, scrive: «Così malata e stanca, tu mi piaci. Io penso che morta tu raggiungerai il supremo lume della bellezza» [BORLETTI, 1956].

Smania erotica che non si placherà nemmeno in vecchiaia. Al Vittoriale, lo splendido ritiro sul lago di Garda in cui trascorre gli ultimi diciassette anni della sua vita, ha un’amante fissa, la pianista veneziana Luisa Baccara. Ma non gli basta. Ogni giorno arrivano alla villa decine di ragazze, appositamente selezionate e prelevate dai paesini attorno per soddisfare le voglie del poeta. Per prolungare l’ebrezza dei sensi, non si nega un uso smodato di farmaci e droghe, nella disperata illusione di fermare il deperimento fisico. Assume stricnina e chicchi di oppio, che gli danno «estasi fulgenti di mille fantasmi» [D’ANNUNZIO, 1881], ma presto inizia a fare uso della «polvere folle», come lui chiama la cocaina. Ne acquista fino a mezzo chilo per volta: l’abuso provoca abbruttimento fisico e instabilità umorale, ma lo aiuta a tenere vivo il vigore, a coltivare la disperata apparenza di una posticcia gioventù, oltre a permettergli, a settant’anni suonati, «ventiquattro ore di orgia possente e perversa» [D’ANNUNZIO, 1927].

2 – «Poeta porcellone e inverecondo»
La baldanzosa condotta sessuale del poeta trova riscontro e conferma, secondo l’aspettativa voyeuristica del pubblico, nella sua produzione letteraria. L’accusa di pornografia prese avvio già dalla prima raccolta di liriche, Primo vere [D’ANNUNZIO, 1879], pubblicata ad appena sedici anni. Tra tutti i versi – certo ancora acerbi, certo pesantemente debitori al modello carducciano, ma già innegabilmente ispirati – si notarono solo proclami infuocati come questo:

Voglio l’ebbrezze che prostrano l’anima e i sensi,
gl’inni ribelli che fan tremare i preti,
Voglio ridde infernali con strepiti e grida insensate,
seni d’etère su cui passar le notti:
Voglio orge lunghe con canti d’amore bizzarri;
tra baci e bicchieri voglio insanire.

Lo scandalo, enorme, divampò clamorosamente con Intermezzo di rime [D’ANNUNZIO, 1883], la raccolta che segnerà per sempre la fama di autore osceno. Lo stesso D’Annunzio si dirà ispirato da «una specie di demenza afrodisiaca» a cantare «tutte le voluttà della carne con una impudicizia che non aveva riscontro se non nei poeti lascivi dei secoli XVI e XVII, nell’Aretino e nel cavalier Marino» [TOSI, 1946], ma le reazioni furono senz’altro esagerate. La regina Margherita si dichiarò inorridita da tanta volgarità. Il Vaticano inserì l’opera nell’Indice dei libri proibiti. Giosuè Carducci, che non l’aveva mai troppo amato, sentenziò: «È roba porca!». E il noto critico Giuseppe Chiarini, che pure lo aveva incensato come l’astro nascente delle patrie lettere, lo liquidò come «poeta porcellone e inverecondo» [LODI, 1927]. In molti invocarono la censura per oltraggio al pudore, citando scandalizzati passaggi come questo, tratto da un sonetto non propriamente criptico:

O bocca sinuosa umida ardente
che a me, dove più forte urge il desio,
a me sommerso in un profondo oblio
suggi la vita infaticabilmente;
o gran chioma diffusa in su’ ginocchi

Poche pagine più in là, il pubblico si imbatteva sconcertato ne Il peccato di maggio, poesia in cui l’autore descriveva con dovizia di particolari il primo incontro sessuale con la moglie (sì perché in tutto questo D’Annunzio era regolarmente sposato con la duchessa Maria Hardouin di Gallese, da cui ebbe tre figli e da cui, nonostante una consensuale separazione, non divorzierà mai). Sotto una «cascata di viole», il poeta è punto da «un disìo di acute voluttà» dinanzi «a quella bianca vergine inconsapevole». Si racconta tutto, senza omissioni: «il sen rotondo» che sgorga «fuor de la tunica», gli aneliti, i gemiti, «la bocca dilatata» su «le sue giovini carni», fino ad arrivare all’acme dell’amplesso:

Così, vinta, si stese. Un irrigidimento
di piacere le prese il corpo; semispento
l’occhio le naufragava ne l’onda de ‘l piacere.
Chino a lei su la bocca, io tutto, come a bere
da un calice, fremendo di conquista, sentivo
le punte de ‘l suo petto dirizzarsi, a ‘l lascivo
tentar de le mie dita, quali carnosi fiori…

Le prove successive insistono sugli stessi toni di esangue sensualismo. I racconti di Terra vergine imitano modi e stile del realismo verghiano, ma, come rileva Mario Praz, «all’austera tristezza» di Verga subentra «un sentimento dell’istinto, della carne, della lussuria» che investe uomini e paesaggio, trasformato in «colore acceso e violento, barbaglio sensuale che stordisce e accende il sangue» [PRAZ, 1930]. Nel dramma teatrale La città morta, l’autore mette in scena la morbosità di un incesto che sfocia in un cruento omicidio, sullo sfondo torbido di una Grecia arcaica e mitizzata. Stessa atmosfera che si respira nei cosiddetti romanzi del superuomo. Qui lo schema è perfettamente duale: il protagonista è sempre un personaggio maschile che incarna, appunto, le istanze superomistiche derivate (e banalizzate) dalla filosofia di Nietzsche. Il superuomo ha sempre un obiettivo ambizioso, che si accinge a raggiungere con sicuro slancio vitalistico; ma tra lui e la sua meta, immancabilmente, si frappone una donna, eterna immagine di un Eros crudele e distruttivo. È la classica femme fatale della coeva tradizione decadente, la donna-vampiro che attira l’uomo con le sue subdole seduzioni e lo trascina nel baratro del vizio, destinandolo alla sconfitta. Così ne Le Vergini delle Rocce [D’ANNUNZIO, 1896], Claudio Cantelmo vuole generare «l’ideal tipo latino» che guiderà i gloriosi destini dell’Italia, ma si innamora di Violante, donna dal fascino cupo, che vive in una villa in sfacelo, avvolta dalle sue estenuate essenze. Nel Fuoco [D’ANNUNZIO, 1900], Stelio Effrena vagheggia un teatro nuovo, wagneriano, che sia l’unione di tutte le arti, ma nel lusso decrepito dei canali veneziani si lascia irretire da Foscarina (nome che è un palese richiamo all’archetipo del genere, l’inquietante Fosca dello scapigliato Igino Ugo Tarchetti).

Gabriele D'Annunzio
Gabriele D’Annunzio. Immagine Creative Commons. Link: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Gabriele_D%27Annunzio_per_Maria_De_Seta.jpg

3 – «Le dicerie più assurde corrono sul suo conto»
Dati tali presupposti, è facile immaginare come sia venuto a costruirsi, negli anni, il mito del D’Annunzio perverso. Molto si è insistito sui dettagli scabrosi, sui presunti scandali, sui clamorosi eccessi, rimestando nel calderone di un’aneddotica sempre al limite del favoloso. Nell’immaginario collettivo – così come nella prassi scolastica – si è fissato per sempre lo stereotipo del dandy libertino, mondano, azzimato, incurante delle più elementari norme morali, che tra una caccia alla volpe e una festa in maschera passa da un letto all’altro, in una girandola impazzita di appuntamenti galanti, passioni turbinose, vizi proibiti, oscure trasgressioni.

«Le dicerie più assurde, più fantastiche corrono sul suo conto, si ingigantiscono, si propagano per il mondo» [ANTONGINI, 1938]. A dare credito alle chiacchiere il poeta avrebbe praticato magia nera in sedute spiritiche, girando per casa con pantofole di pelle umana e bevendo vino rosso dal cranio di una vergine (il tutto rigorosamente accompagnato da tenera carne di bambino). Ha avuto milioni di donne, ha girato un film pornografico, ha trascorso torride notti tra giochi erotici e insane aberrazioni. C’è chi giura che nel suo guardaroba, tra le file di impeccabili frac e di inamidate camicie, trovi spazio un pigiama decisamente inquietante, con uno squarcio all’altezza dell’inguine. Il poeta amerebbe farsi defecare sul petto, e avrebbe montato una serie di vetri trasparenti in camera da letto per osservare le sue amanti nell’atto stesso della defecazione. Non mancano al variegato elenco inclinazioni sadomaso, favorite da sedicenti «omaccioni del Garda che lo avrebbero appeso con robuste catene a chissà quale muro» [GUERRI, 2013]. Presunti atti di coprofagia, presunti atti di necrofilia, presunti atti di zoofilia. Ci fu chi giurò di averlo visto uscire dolorante, nottetempo, dal canile dei suoi amati levrieri. O chi gli attribuì lo strano vizio di cogliere, tra le pieghe della biancheria femminile, l’acre odore mestruale. Secondo la diceria forse più diffusa – e sicuramente più assurda – D’Annunzio si sarebbe fatto asportare tre costole con un’operazione chirurgica, per praticare sesso orale su sé stesso. Tutto questo è semplicemente falso:

Ebbene, non c’è alcuna traccia, tra l’immenso materiale edito e inedito, o nell’ancora più vasta quantità di testimonianze, dei bizzarri gusti sessuali attribuiti a D’Annunzio. In realtà, i suoi desideri erano quanto di più normale si possa pensare [GUERRI, 2013].

Sia chiaro: D’Annunzio non smentisce le dicerie. Anzi, le alimenta. L’ostentata bulimia sessuale si inserisce nella più generale tendenza alla mitizzazione di sé, nella costante aspirazione ad un vivere inimitabile, all’eccesso, che è un modello divistico di sfrenato vitalismo. D’Annunzio vuole essere il superuomo di cui parla nei libri, «fare della propria vita come si fa un’opera d’arte» [D’ANNUNZIO, 1889], e quindi tutto, compreso il suo potere amatorio, deve tendere all’estremo. Ogni gesto, anche il più banale, deve trasformarsi nel bel gesto, assoluto, eccezionale, iconico, venato di evidenti coloriture estetizzanti. Se è in Grecia, su una spiaggia, non prende la tintarella: legge Eschilo disteso nudo su tappeti persiani, bruciando mirti profumati. Arreda le sue case in maniera sfarzosa, in un tripudio principesco di lampade giapponesi, raggiere d’altare, pelli di cervo, armi antiche, arazzi. Il suo guardaroba non è da meno: soprabiti, pellicce, vesti da camera, seicento camicie di seta, cinquanta cappelli, duecento paia di scarpe, trecento di calze, una cinquantina di pigiami, cinquecento cravatte. Se ha fame, mangia «lepre tutto fragrante di timo e di rosmarino», patè «nella sua bella crosta untuosa rivestita di piccole fette di lardo», fette di fagiano «inaffiate di un succo di midolla di bove» [ANTONGINI, 1938]. Possiede cinquanta levrieri, stipendia dodici domestici, riceve novanta lettere al giorno, lavora quindici ore di fila, combatte in guerra, si butta in politica, sfreccia sulle sue automobili, eccelle negli sport. Insomma, in questo senso – nel contesto della costante trasfigurazione superomistica di sé – D’Annunzio non si preoccuperà mai di smentire le voci sul suo conto. Erano false, ma erano funzionali alla definizione della sua leggenda.

Leggenda che, tra l’altro, si adattava perfettamente al contesto sociale e culturale dell’Italia di fine Ottocento, con i suoi gretti provincialismi, le sue inibizioni bigotte, la sua facciata perbenista sotto cui si agitavano profonde inquietudini. Una società di questo tipo ha bisogno di un reprobo, di un osceno trasgressore della norma, fosse solo per sanzionarlo pubblicamente e amarlo segretamente. D’Annunzio conosce e controlla alla perfezione questo duplice meccanismo: lo scellerato peccatore viene messo alla gogna; ma lo scandalo si accompagna sempre ad un’ambigua fascinazione. Il poeta diventa una sorta di perverso eroe del male, titanico, byroniano, su cui ogni piccolo borghese è pronto a riversare sdegno e indignazione in pubblico, ma, in privato, a proiettare idealisticamente il groppo dei suoi desideri repressi e delle sue pulsioni rimosse. D’Annunzio, gonfiando gli eccessi della sua vita spericolata, realizza nella sua persona ciò che è proibito ma che tutti sognano. I confini tra vita e letteratura, tra verità e finzione, non sono mai stati tanto labili.

Il vittoriale degli italiani. Immagine in Creative Commons. Link: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Vittoriale_degli_italiani_-_Piazzetta_dalmata_3.jpg
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4- «L’opera di carne è in me opera di spirito»
L’opera di D’Annunzio, allora, andrebbe ripulita dalle incrostazioni di una lettura spesso prevenuta, deformante, condizionata dalle solite riserve moralistiche e dalla smania di rintracciare a tutti i costi, tra le righe, succosi riferimenti al privato. Innanzitutto, l’erotismo non è tema esclusivo in D’Annunzio. Spesso emerge un versante più dimesso, più intimista, nei contenuti come nello stile – che abbandona l’astrusa preziosità dei virtuosismi per approdare ad un dettato meno gonfio, più piano e discorsivo. Un esempio è il Poema paradisiaco, i cui versi, tutti incentrati sul recupero memoriale dell’infanzia e del calore familiare, saranno modello riconosciuto dei crepuscolari. Anche i romanzi Giovanni Episcopo e L’Innocente si distaccano dalle consuete e languide leziosità, guardano ad ispirazioni certo più sobrie – specie il grande romanzo russo, da Dostoevskij a Tolstoj – e inaugurano la cosiddetta “fase della bontà”, in cui, accanto alla lussuria, compare «il desiderio di liberarsene, il disgusto e il rimorso per la vita disordinata e dissoluta» [ALATRI, 1983]. Quando poi nella primavera del 1916, a seguito di una grave ferita di guerra all’occhio destro, il poeta è costretto a due mesi di buio e immobilità totali, si trasferisce nella sua dimora veneziana sul canal Grande e in queste particolari condizioni – con l’aiuto della figlia Renata che scorre centinaia di sottili strisce di carta sotto la sua penna – scrive Il Notturno: con uno stile franto e spezzato, quasi asmatico (vicino alla raffinata prosa d’arte dei vociani e, per certi versi, precursore della scrittura automatica dei surrealisti) si accumulano sogni, ricordi, visioni, notazioni uditive, sensazioni fuggevoli, emozioni profonde. Un tentativo di introspezione e di conoscenza di sé lontano anni luce dalle ruggenti pose esibite in altri contesti.

Ma, anche quando il sensualismo prevale, il poeta non parla mai della materialità fisiologica del sesso, del sesso come incastro animalesco dei corpi. D’Annunzio non si pone sul piano della pornografia (intesa come gratuita esibizione dell’esplicito) ma su quello, tutto etereo e cerebrale, dell’assunzione delle pulsioni erotiche nella parola, della trasfigurazione del sesso in poesia: «Tutti credono» ripete spesso «che il mio libertinaggio mi sminuisca, mentre esso mi serve ad avere ancora più sete della mia arte». «La mia vera forza, la mia potenza immortale di artista è nella mia sensualità». O ancora: «L’opera di carne è in me opera di spirito». In questo senso:

D’Annunzio usa l’amore come fonte di creatività artistica. Nel momento in cui si accorge che quell’amore non alimenta più il suo genio, rompe e cerca subito un altro amore. E si butta nella avventura totalmente, anima e corpo, senza risparmiarsi, ma avendo sempre in mente con estrema chiarezza che il fine dell’amore è solo la creazione artistica [ALBERONI, 2006]

La sensualità presente nelle sue opere, allora – oltre a riallacciarsi, programmaticamente, a tutto un filone dionisiaco della letteratura italiana, che dalle intemperanze boccaccesche risale ai sonetti dell’Aretino e del Baffo per approdare ai più recenti esiti tardoromantici e decadenti – è sempre una sensualità intellettualizzata, depurata, continuamente filtrata tramite schemi artistici, richiami filosofici, suggestioni tratte dalla mitologia classica, influenze pittoriche, echi musicali, rimandi religiosi, in un procedimento idealizzante che riprende – certo con ben altra amara consapevolezza della sua sostanziale impossibilità – la spiritualizzazione stilnovista della donna angelo e dell’amor cortese.

Esempio massimo è il suo romanzo più famoso, Il piacere, pubblicato da Treves nel 1889. Il titolo, all’apparenza, promette roboanti cedimenti alla lussuria, con il protagonista, Andrea Sperelli, giovane pupillo del bel mondo dell’aristocrazia romana, ad innamorarsi della conturbante Elena Muti. Lei lo guarda con quello sguardo voluttuoso «che turba tutti gli uomini e ne accende d’improvviso la brama» e tra i due, come è inevitabile, scoppia la passione, che si consuma in scene di esplicita lascivia: lui vuole «attrarla entro di sé, suggerla, beverla, possederla in un qualche modo sovrumano»; lei, languidamente distesa sui tappeti persiani del suo palazzo barocco, si lascia andare ad un «abbandono senza ritegno» e ad una «voluttà senza misura», e «con un movimento subitaneo» si offre al desiderio di lui che le bacia «la bocca, la fronte, i capelli, gli occhi, la gola, avidamente, rapidamente, senza più respirare».

In realtà – a deludere le pruriginose attese dei più – il roboante crescendo erotico si risolve in queste poche battute sparse. La bruta istintualità della carne – verticalmente contrapposta alle eccelse idealità dello spirito – è sempre presentata come una svilente concessione al ferino, una degradante caduta negli abissi del vizio. Andrea, in quanto esteta «tutto impregnato di arte», ha il costante bisogno di elevare il suo sentimento, di riscattarlo ad opera di una insistita «spiritualizzazione del gaudio carnale». E allora la sensualità di Elena si stempera a poco a poco in correlati simbolici dal forte valore evocativo (il suo fiore non può non essere «l’orchidea sanguigna e difforme», il suo colore il rosso acceso, il suo nome un palese rimando omerico all’Elena di Troia). E Andrea, possedendo la sua amante, possiede in lei «tutte le gentili donne fiorentine del Quattrocento, alle quali cantava il Magnifico». Insieme leggono Shelley e Goethe, recitano madrigali, visitano gallerie d’arte, ascoltano musica classica. Ella gli appare distesa su un tappeto di rose «a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese» e il suo corpo, «soffuso d’un pallor d’ambra» che richiama «la Danae del Correggio», subisce una puntuale metamorfosi pittorica: la testa pare «uscita dal cerchio d’una medaglia siracusana», la bocca ricorda quella «della Medusa di Leonardo», le braccia «quelle di Pallade quando era innanzi al pastore», i piedi sono «arborei come nelle statue di Dafne».

Sublimazione che tocca il suo apice con la seconda presenza femminile del romanzo, Maria Ferres, la donna pura, la donna casta – si pensi al richiamo evangelico del nome – di bianco vestita, adagiata tra i gigli, circonfusa di un’aura spiritualizzante. La rarefatta stilizzazione rimanda esplicitamente ai modelli diafani della pittura preraffaellita – «s’ella avesse avuto intorno le tempie corona di narcisi e da presso una di quelle grandi lire a nove corde che portano dipinta a encausto l’effigie d’Apollo e d’un levriere, certo sarebbe parsa un’alunna della scuola di Mitilene» – caricandosi di forti valenze simboliche. In una notte d’inverno, la neve che copre i cancelli e la luce della luna si sovrappongono al pallido volto di Maria, la cui immagine procede in questo candore universale, tra lo scampanio delle chiese romane, come immolandosi in un rito sacrificale. L’autore ricalca il linguaggio biblico, cadenzato dall’insistenza delle formule liturgiche:

Era un sogno poetico, quasi mistico. Egli aspettava Maria. Maria aveva eletta quella notte di soprannaturale bianchezza per immolar la sua propria bianchezza al desiderio di lui. Tutte le cose bianche intorno, consapevoli della grande immolazione, aspettavano per dire ave e amen al passaggio della sorella. Il silenzio viveva. Ecco, ella viene: incedit per lilia et super nivem.

(d’altronde la commistione di elemento amoroso ed elemento religioso si rintraccia in altre opere dannunziane come Le Martyre di Saint Sebastien, in francese, dove il santo, legato ad un palo e trafitto da frecce come da tradizione iconografica, diventa immagine di un abbandono estatico e voluttuoso). Solo questo tipo di sessualità, una sessualità purificata dalla catarsi del filtro intellettuale, si trasforma in approccio al mondo, in mezzo artistico di conoscenza del reale, per cui «non chi più soffre, ma chi più gode conosce». Il rapporto con la donna, in ultima analisi, permette al poeta di esplorare il mistero delle cose, di annullare la distinzione tra io e mondo, in una fusione panica con gli elementi della natura. Nella sua poesia più bella, La pioggia del pineto [D’ANNUNZIO, 1904], due amanti si immergono, sotto una pioggia dalle evidenti valenze espiatorie, nell’«arborea vita» che li circonda. La donna subisce una progressiva metamorfosi per cui il suo volto è molle «come una foglia», i suoi capelli hanno l’odore delle ginestre, il cuore è «una pesca intatta», i denti «mandorle acerbe», gli occhi «polle tra l’erbe». L’immaterialità è completa. Tutto è suono, colore, profumo; fuggevoli riflessi del mistero che avvolge tutte le cose e in cui si discioglie la fisicità dei corpi. È questo il vertice della sua arte. L’esatto opposto di quello che tutti hanno sempre creduto e continuano ostinatamente a credere.

Bibliografia:

  • GUERRI, 2013 = La mia vita carnale. Amori e passioni di Gabriele D’Annunzio di Giordano Bruno Guerri, Mondadori, Milano, 2013
  • GUERRI, 2008 = D’Annunzio. L’amante guerriero di Giordano Bruno Guerri, Mondadori, Milano, 2008
  • LOMBARDINILO, 2005 = Lettere a Natalia de Goloubeff (1908-1915) a cura di Andrea Lombardinilo, Carabba, Lanciano, 2005.
  • D’ANNUNZIO, 1924 = La Chimera e l’altra bocca, contenuto in Le faville del maglio, Treves, Milano, 1924.
  • D’ANNUNZIO, 1924 (2) = Lucrezia al bordello, contenuto in Le faville del maglio, cit.
  • MAYOZER = Diario di Amèlie Mayozer, inedito. Traduzione dal francese di Ivanos Ciani.
  • D’ANNUNZIO, 1935 = Cento e cento e cento e cento pagine del Libro segreto di Gabriele d’Annunzio tentato di morire, Il Vittoriale degli Italiani, Gardone Riviera, 1935
  • BORLETTI, 1956 = Lettere a Barbara Leoni a cura di Bianca Borletti, Sansoni, Firenze, 1956
  • D’ANNUNZIO, 1881 = Lettere a Giselda Zucconi (soprannominata Lalla). Il fondo delle 232 lettere alla Zucconi, scritte dal 1881 al 1883, è conservato presso il Vittoriale degli Italiani.
  • D’ANNUNZIO, 1927 = Appunto autografo di Gabriele D’Annunzio, risalente al 1927 e conservato presso il Vittoriale degli Italiani.
  • D’ANNUNZIO, 1879 = Primo Vere, Carabba, Lanciano, 1879
  • D’ANNUNZIO, 1883 = Intermezzo di rime, Sommaruga, Roma, 1883
  • TOSI, 1946 = Gabriele D’Annunzio a Georges Hèrelle. Correspondance presentèe par G. Tosi, Denoel, Parigi, 1946
  • LODI, 1927 = Alla ricerca della verecondia a cura di Luigi Lodi, Formiggini, Roma, 1927
  • PRAZ, 1930 = La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz, La Cultura, Milano, 1930
  • D’ANNUNZIO, 1896 = Le vergini delle rocce, Treves, Milano, 1896
  • D’ANNUNZIO, 1900 = Il fuoco, Treves, Milano, 1900
  • ANTONGINI, 1938 = Vita segreta di D’Annunzio di Tommaso Antongini, Mondadori, Milano, 1938
  • D’ANNUNZIO, 1889 = Il Piacere, Treves, Milano, 1889
  • ALATRI, 1983 = D’Annunzio di Paolo Alatri, Utet, Torino, 1983
  • ALBERONI, 2006 = Sesso e amore di Francesco Alberoni, Rizzoli, Milano, 2006
  • D’ANNUNZIO, 1904 = Alcione, Treves, Milano, 1904

Fine dell’articolo
Autore: Mario Taccone
Cura: Alessandro Ardigò, Marta Bernasconi

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5 commenti su “D’Annunzio è un porco: il più grande equivoco della letteratura italiana”

  1. Hai reso giustizia ad un grandissimo della letteratura italiana, un uomo davvero unico e inimitabile pieno d’amore per ogni forma di bellezza. Un lavoro dovuto, affinché i giovani possano goderne appieno, senza il filtro di coloro che per varie ragioni lo hanno ingiustamente denigrato.

  2. Articolo piuttosto originale e didascalico. Cmq si scrive d’Annunzio (se non Gabriele Rapagnetta d’Annunzio). LUI ci teneva e così si firmava.

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