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La poesia di Michele Mari: una macchina regolatrice

Associare una funzione meccanica ad un’arte liberale è un paradosso: come può una creazione poetica diventare una macchina? La poesia di Michele Mari (Milano, 26 dicembre 1965) può essere definita ciò: una macchina regolatrice. Atto creativo e contemporaneamente processo meccanico, attuato nelle sue raccolte di poesie Cento poesie d’amore a Ladyhawke (2007) e Dalla cripta (2019).

Nel nostro contesto ipercontemporaneo Mari è sicuramente uno dei pochi a godere del plauso tanto della critica quanto del pubblico, e i suoi testi decretati capolavori. Se ne citano alcuni: Di bestia in bestia (1989), Tutto il ferro della torre Eiffel (2002, Premio Bagutta), Verderame (2008, Premio Grinzane Cavour), il testo autobiografico Leggenda privata (2017, premio Mondello 2018 e premio Brancati 2018), e le già citate raccolte poetiche Cento poesie d’amore a Ladyhawke (2007) e Dalla Cripta (2019), oggetto della seguente analisi.

Prima di copertina di Cento poesie d’amore a Ladyhawke
Prima di copertina di Cento poesie d’amore a Ladyhawke. In copertina: Michele Mari. Immagine in Creative Commons reperibile a questa URL: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Michele_Mari.jpg

Cento poesie, canzoniere ipercontemporaneo, si compone di cento liriche d’amore tra il poeta e la sua amata. L’intenzione di nascita di questi versi liberi non prevedeva una pubblicazione; erano poesie, scambiate tramite e-mail, con questa figura femminile, una sua ex compagna di liceo già sposata, che sceglierà, in ultimo, di rompere questa relazione extraconiugale. Corre tra le pagine la storia della loro relazione clandestina, scoppiata in età adulta, dal suo passionale inizio alla sua consumata fine. Difficile non leggervi in questa donna l’antecedente lirico della Laura petrarchesca, e in quanto tale replica la sorte del suo riflesso classico. Muore nella lirica LXII Il nostro fidanzamento è morto: nella finzione poetica, la donna viene uccisa dal poeta; citando il personaggio di Norman Bates di Psyco, film diretto da Alfred Hitchcock, Mari fa presuppore che abbia conservato il corpo della donna e reso un fantoccio imitandone la voce, come nell’horror il protagonista fa con il corpo della madre. Una resurrezione di Laura abbastanza macabra, influenzata sicuramente dalla cifra orrorifica della pellicola cinematografica. L’amata, a cui dedica questo canzoniere poco canonico, è soprannominata dal poeta Ladyhawke, con evidente richiamo all’omonimo film del 1985 diretto da Richard Donner: i due amanti sono come dei nuovi Ladyhawke e Knightfall, lei falco di giorno e donna di notte, lui uomo di giorno e lupo di notte, maledetti a essere per sempre separati.

Prima di copertina di Dalla cripta
Prima di copertina di Dalla cripta

Dalla cripta è la sua seconda raccolta recentissima, molto distante dalla sua prima forma di poesia pubblicata. Ha raccolto liriche scritte dal ’73 fino all’anno di pubblicazione, suddividendole in sette sezioni: Rime amorose; Altre rime, con sottosezione, intitolata Ghirlanda, con focus sulla tematica del tempo; Esercitazioni comiche; Scherzi; Versi d’occasione; l’Atleide, un poemetto epico in endecasillabi sciolti che mette in versi le vicende del giocatore della squadra calcistica Milan, Mark Hateley; la propria Versione del canto XXIV dell’Iliade, in endecasillabi sciolti.

Lo si può capire fin dal titolo, è costante nella raccolta l’immagine della cripta: è il buio, il luogo oscuro e caotico del poeta. La raccolta è, così, un’immersione in essa e l’autore ne esce dando forma poetica a questa profondità; ma la cripta, racchiude un’ulteriore valenza simbolica: è il sacrario della stessa letteratura. Viene in mente il mito di Orfeo e Euridice, il poeta e la donna amata: in questo caso il poeta è Mari e la donna amata è la stessa letteratura, la cultura letteraria, la tradizione italiana, recuperata nelle sue forme e strutture metriche, nelle sue tematiche e nei suoi riferimenti. Mari non compie lo stesso errore di Orfeo, e riesce, così, a far resuscitare la letteratura, a recuperare ciò che il mondo ipercontemporaneo ha seppellito. Come si attua questo recupero?

  • sono presenti ricalchi limpidi: come esempio il V sonetto della sottosezione Ghirlanda, con incipit «Forse perché della fatal quiete»;
  • è utilizzato un linguaggio alto, denso di forme auliche e latinismi, ma anche dialettismi e forme onomatopeiche;
  • è adoperata la metrica della tradizione italiana: quarantadue sonetti, sestine, canzoni, dominante endecasillabo, alternato a versi liberi.

È una tradizione italiana che risorge in maniera automatica e naturale, il modo più spontaneo e limpido di scrivere poesia per Mari.
L’obiettivo dell’articolo è, quindi, di indagare nelle due raccolte, cercando di teorizzare il metodo di scrittura poetica di Mari, comprovando il motivo per cui è una macchina regolatrice. Il carattere meccanico di questo viene suggerito da uno dei romanzi di Mari, Tutto il ferro della torre Eiffel: nella Parigi del 1936 un immaginato Walter Benjamin girovaga tra i mercatini francesi, collezionando oggetti e feticci. È evidente la genialità di Mari: affida la narrazione al noto critico, vinto da una mania nei confronti degli oggetti collezionati. Scava in questi, oltre l’apparenza, verso ciò che è nucleare ed essenziale. C’è un’attenzione materica per questi oggetti, denunciata fin dal titolo, richiamando il materiale ferroso della Torre Eiffel. È una Parigi che diventa oggettuale, una Torre Eiffel come una macchina, e l’autore investe questa della propria carica spirituale, fortemente autobiografica. Lo stesso personaggio di Benjamin è in parte una maschera, e sotto si cela l’autore. Come il suo personaggio, infatti, Mari ha rivelato, durante il Convegno internazionale. Filologia e leggenda. Giornata di studio per Michele Mari (di cui sono stati pubblicati recentemente gli atti del convegno (DONATI-GIALLORETO-PIERANGELI 2021)), di avere una smania nel collezionare. È un assiduo accumulatore seriale: continua a collezionare oggetti, e questi si mutano in ombre, portatori costanti di frammenti del proprio autore. Un processo che si può definire memoria oggettuale o spiritualizzazione dell’oggetto. Nella Dottrina della scienza il filosofo Johann Gottlieb Fichte spiega questo fenomeno:

«Quell’oggetto sconosciuto e l’intelletto sono perciò assolutamente fusi nel sapere effettivo, compenetrati l’uno all’altro, uniti in un’unità organica, e questa unità organica sarebbe appunto il sapere effettivo» (FICHTE 2018, p.68).

L’oggetto esterno si fonde, così, con il soggetto. Quell’oggetto sconosciuto è depositario dell’io, un araldo della memoria; un ricordo si sintetizza con l’ente di riferimento, per raggiungere il sapere effettivo. In sostanza, l’oggetto acquista oltre al fattore puramente materiale, una componente spirituale ed essenziale. Il concetto può essere maggiormente chiaro se lo si immagina attraverso un semplice calcolo matematico: il soggetto (=S) si addiziona all’oggetto (=O), e il segno che permette la somma è la memoria oggettuale/spiritualizzazione dell’oggetto (=+); il risultato è il sapere, l’essenza della memoria (=M):

S + O = M

L’applicazione di un calcolo matematico a un processo appartenente alla mente e al sapere è utile per comprovare la natura meccanica di questo, vale a dire automatica, regolare. L’uomo che applica la somma è una macchina regolatrice, in cui il soggetto e l’oggetto hanno un equivalente peso, sono eque. Il poeta è, così, quasi un automa, in quanto il processo avviene in maniera costante, senza eccezioni, e la regola si conferma senza soluzione di continuità. Si potrebbe quasi applicare la proprietà commutativa dell’addizione: cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia; in modo sistematico, quindi, soggetto e oggetto si fondono per ottenere M, il sapere.

Bisogna capire come Mari attui questa uguaglianza, e in modo più specifico nella poesia. È necessario rispondere alla domanda: se il soggetto è lo spirito, l’io dell’autore, che cosa rappresenta l’oggetto? Per Mari, con oggetto, non si intende solamente la cosa collezionata con tanta cura, ma tutto ciò che è entità esterna, al di fuori dell’io.

È oggetto, portatore di significato, per esempio una fotografia, che cito non casualmente: l’autobiografia Leggenda privata è correlata di scatti della vita dello stesso autore, che accompagnano il lettore tra le pagine; l’aspetto visivo si collega agli episodi raccontati nell’autobiografia. La fotografia, è, quindi, un oggetto collezionato dall’autore che si somma alla componente spirituale: episodi che diventano un’ossessione, portatori di significati privati, esclusivi; quel significato, custodito dal solo autore, assumerebbe, infatti, una connotazione diversa per un altro individuo. Il risultato è la coscienza, la consapevolezza e il sapere esplicato tra le pagine di questo romanzo.

Sono sempre oggetti, però, enti esterni, anche il canone artistico-letterario e i riferimenti al nuovo mondo mediatico, che si fondono con lo spirito dell’autore per produrre letteratura e poesia.

Come già anticipato precedentemente, sono numerose le presenze di entrambi gli ambiti, della tradizione e del nuovo, nelle due raccolte di poesie, Cento poesie d’amore a Ladyhawke e Dalla cripta. Sono, sicuramente, due opere molto differenti:

  • la prima è un canzoniere con tematica lineare, nella seconda vige una maggiore discontinuità tematica, con poesie scritte in diversi momenti di vita dell’autore;
  • in Cento poesie si ricorre al verso libero, costruendo liriche a volte molto brevi, epigrammatiche, quasi una rielaborazione dell’orientale haiku, in Dalla cripta c’è, invece, la rinascita della tradizione metrica classica;
  • nella prima si nota un lessico molto semplice, quasi prosastico, con sporadici toni solenni, la seconda è ricca di aulicismi e latinismi, un lessico ricercato.

Per quanto concerne, però, la presenza dell’antico e del nuovo, del canone e dei mass media, c’è specularità tra le due raccolte. Le due componenti si alternano e si fondono in maniera equilibrata, il cui fine rimane, pur sempre, il discorso poetico dell’autore. Il risultato, come nell’uguaglianza precedente, è il sapere effettivo del poeta. Continuando la metafora matematica, quindi, Mari, in quanto macchina regolatrice, nella fusione tra soggetto interno e oggetti esterni, sceglie quest’ultimi secondo due principi: il principio di equivalenza e il principio di funzionalità. Non c’è nessun timore, infatti, nel riferirsi alla nostra maestosa tradizione letteraria, come non c’è nessuna discriminazione nell’assorbire il mondo di oggi: sono due nuclei equivalenti della sua scrittura poetica. Soprattutto, il loro significato è sempre ampliato, e si unisce a quello che vuole conferirgli il poeta: sono funzionali alla sua poesia, all’architettura che vuole costruire Mari.

Delineato il suo metodo, la sua macchina regolatrice, si proseguirà ad osservarlo sul campo, analizzando dei componimenti esemplificativi delle due raccolte; una cernita a ruolo di esempio di questo processo.

Per quanto riguarda Cento poesie d’amore a Ladyhawke, due casi di riferimento ai nuovi media sono già emersi precedentemente, ovvero le pellicole cinematografiche Psycho e Ladyhawke, ma l’emblema del canone, invece, è ancora una volta il Sommo poeta, omaggiato quest’anno ancor di più. Di seguito la lirica di Mari Amor ch’a nullo amato amar perdona:

«Amor ch’a nullo amato amar perdona /sempre suonommi assioma nauseabondo. / Or s’è avverato / ma tale è il suo ritardo / ch’è come se nel punto di mia morte / dopo una vita di identiche giocate / venissero a informarmi / ch’è uscito finalmente il 10 000 / sulla ruota / di Alpha Centauri» (MARI 2007, p.55).

È quasi una parodia del quinto canto dell’Inferno, l’episodio di Paolo e Francesca, di cui Mari propone una versione cinica. Con una ripresa, come incipit, del verso 103 del canto V, lo inserisce in un distico scritto intelligentemente, in cui si evince la sua versione critica nei confronti di uno stucchevole amore. Da notare gli stilemi retorici a cui Mari si presta: la consueta enclisi della particella pronominale che produce raddoppiamento fonosintattico – mi suonò > suonommi – e l’attesa sinalefe tra la vocale –i e l’iniziale di a-ssioma. L’esercizio retorico qui è senz’altro metri causa dal momento che “mi suonò” non avrebbe costruito un endecasillabo, ma un verso di dodici sillabe. La natura sonora del ricalco dantesco è, inoltre, ripresa con allitterazione di m. Per quanto concerne la critica a livello tematico, per Mari, l’amore ricambiato dopo rifiuti è vacuo, nullo, esplicitato da una similitudine ipercontemporanea: un amore giunto troppo tardi è come una vincita per scommessa in punto di morte; in entrambi i casi non puoi godere di tali ricchezze. Una poesia perfetta per osservare il processo della macchina regolatrice: il soggetto ha reso suoi gli oggetti per scrivere il componimento; e con maestria, la tradizione e il nuovo, Dante e le scommesse, si uniscono, sono presenti in egual peso.

È inderogabile rivolgersi a un’ulteriore lirica in cui ricorre un riferimento ad un’altra delle Tre corone:

«(Come se un lupo / fosse mai uscito indenne da una fiaba / come se in ogni falco / non si ripetesse degli Alberighi / l’antico scelo)» (MARI 2007, p.47).

Ritorna l’immagine puramente cinematografica di Mari Knightwolf – lupo – e dell’amata Ladyhawke – falco – richiamando anche interpretazioni favolistiche/fiabesche del personaggio del lupo, quasi condannato ad essere un eterno malvagio, e quindi ad essere sconfitto; ma un riferimento sottile al Decameron di Boccaccio serpeggia nella lirica, scritta tra parentesi, quasi come continuazione della precedente La fiaba degli amanti, in cui era resa esplicita la sovrapposizione al film Ladyhawke. La nona novella della quinta giornata racconta, infatti, di Federigo degli Alberighi, che per conquistare una nobildonna uccide il suo amato falcone. È un tradimento, un delitto sacro, l’antico scelo, adoperando un latinismo. In modo fine Mari sta condannando la sua donna; che alla morte del lupo, segua anche la morte del falco. Un epilogo arguto, che dimostra l’eclettismo di Mari nel districarsi tra immagini cinematografiche e classiche.

Si pone, infine, attenzione su altre due liriche di Cento poesie d’amore a Ladyhawke significative:

  • Non aprite quella porta, chiaro richiamo all’omonima serie cinematografica, citando, inoltre, la stanza 237 dell’Overlook Hotel, teatro del film Shining, di Kubrick, ispirato dal romanzo di Stephen King; acutizza, inoltre, l’elemento orrorifico menzionando tra i versi il famoso serial killer Jeffrey Dahmer. La componente letteraria è data dal bellissimo effetto majacokovskjiano, in particolar modo tra i versi all’ingresso / al soggiorno / alla cucina, quasi a suggerire il movimento di ingresso nelle stanze della casa:

«Non aprite quella porta / non entrate nella stanza 237 dell’Overlook Hotel / ricordati figliuolo che puoi andare dappertutto / tranne che nella soffitta / meglio non guardare cosa c’è / nel frigorifero di Jeffrey Dahmer… / Ogni volta che sei venuta a casa mia / ti sei fermata all’ingresso / al soggiorno / alla cucina / non una sola volta hai chiesto dov’è il bagno / per lavarti le mani / o far pipí / o controllarti il trucco / come se quella che gli architetti chiamano / la zona notte / fosse l’orrore / come bastasse la vista di un letto / ad annullar trent’anni / come se tu ed io / avessimo bisogno d’occasioni / come se i nostri pensieri / non fossero sempre notturni» (MARI 2007, p.37).

  • Infine, la lirica che fa da copertina al canzoniere, Verrà la morte e avrà i miei occhi, con ricalco della famosa poesia di Cesare Pavese. Simile a un haiku, la poesia sprigiona la ferocia e la passione di questo sentimento:

«Verrà la morte e avrà i miei occhi / ma dentro / ci troverà i tuoi» (MARI 2007, p.101).

Per Dalla cripta, l’impiego del materiale tradizionale è abbastanza evidente e lo si nota bene dalle forme metriche adoperate; ma la tradizione, come il mondo ipercontemporaneo, non viene limitata a un mero esercizio computazionale, e così, entrambe le sfere, antico e nuovo, ritornano come fulcri tematici. Si propone anche per questa raccolta una selezione di analisi, dirigendosi nuovamente in territori danteschi:

  • Dante è richiamato nella prima sezione, Rime amorose: Mari compone un piccolo canzoniere tradizionale, provvisto di dodici sonetti, di cui nove tradizionali, uno caudato, un altro semisdrucciolo e un continuo semisdrucciolo; una breve sezione di carattere tematico puramente stilnovista, con chiara ispirazione dantesca. La poesia è per una nuova donna amata dal poeta, tanto luminosa quanto sfuggente e si riporta la lirica a lei dedicata che apre la sezione e la raccolta:

«Donna gentile a l’amoroso guardo / che’ognor belate e più savere mostra, / i’ vo’ campar da la persona vostra / sì come quella a la cui face m’ardo; / e more al dipartir non fora o tardo / lunge dai rai e dalla nivea chiostra / che sì mi volve in tormentosa giostra / più che l’agna dimembri aguglia o pardo: / ma fuggita, omè, che val, se priso / prisa da voi l’imago ne la mente / porto, lo stampo i’dico del sorriso / cui pur pensando Amor mi fa dolente, / e ‘n Inferno tornando ‘l Paradiso / lagrime lassa a tanto strazio niente?» (MARI 2019, p.5).

  • Il quinto canto dell’Inferno è di nuovo ribaltato nel Lamento di Gianciotto Malatesta, versi sciolti della sezione Scherzi, in cui, al canonico monologo di Francesca, il poeta contrappone la voce inascoltata di questo personaggio. Mari ne giustifica la violenza, e rende le sue parole strumento per far sfogare l’ira e il lamento di Gianciotto Malatesta contro i suoi due traditori, Paolo e Francesca. Mari strappa nuovamente il canto quinto dal suo contesto, e rende Dante succube del suo gioco poetico (si rivolge a lui nella chiusa apostrofandolo Durante) e ne richiama, argutamente, la lingua, il lessico e le tematiche:

«[…] Lessi una sera di Mabron circasso, / come scoprendo di sua sposa il fallo / tosto ne fe’ vendetta, il capo a tondo / a lei troncando e all’amador suo tristo: / quel giorno più non vi leggetti avante, / ché’l cammin corsi corsi in col palafreno / fino alle stenza ove tenea bordello / l’empia bagascia intimorata e fella. / Fu solo un colpo quel che li divise / ancor congiunti carnalmente in nodo / bestial cotanto che’l tacerne è bello. / Così violenza fu giustizia in terra, / e ser Durante scriva quel ch’ei vuole.» (MARI 2019, p.54).

Sempre in Scherzi, Mari gioca con un’altra sperimentazione poetica con Giacomo Leopardi, Al Balturino: come una macchina del tempo, conduce Leopardi nel presente, e simula la sua poesia scrivendo dei versi sciolti dedicati a una piccola caldaia prodotta dalla ditta Baltur. In questo scherzo, i riferimenti leopardiani si prestano, così, quasi ad un esperimento pubblicitario, citando Bruto minore, La sera del dì di festa, Alla luna, Il passero solitario, A Silvia, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, Palinodia al marchese Gino Capponi. È un’operazione di collage poetico leopardiano, che è funzionale all’elogio di una caldaia:

«Talor chiegg’io tra le superne mura / ove desiato giacca Balturino, / e se nell’etra ch’ogni cosa involve / per altre piagge inconsolato luca. / Ora non è più le risonanti daghe / l’acciar corrusco fanno / riclangare. Non più / Vile poter che nell’occulto pri / e tutto al fine tuo torni e provvedi, / qual fora in secol morto / del balturide augel lo stile antico? / Ma quando il raggio della tenue luna / silente bagna le remote plaghe, / un fievol canto s’ode di lontano, / ed io fingendo del pastor lo sguardo / e della greggia sua / miro e sorrido e poso / e fremo e grido e giaccio / e slontanando nel pensir mi struggo.» (MARI 2019, p.49).

Concludendo questo breve percorso in Dalla cripta, si rivolge lo sguardo verso l’apice della macchina regolatrice di Mari, L’Atleide, il poemetto epico inconcluso di endecasillabi sciolti sulla storia della squadra calcistica Milan. Soggetto e oggetto si uniscono in perfetto equilibrio, con componente tradizionale e mediatica che si bilanciano in modo esemplare. L’io del poeta, che nutre una devozione quasi religiosa per il Milan, trasforma il calcio, che ha un notevole impatto mediatico, in un mondo mitico ed epico, quasi omerico, e l’attaccante milanista inglese Mark Hateley ne è il suo eroe: l’epos e i media intrinsecamente legati. È una trasformazione attuata in modo coerente, tanto a livello contenutistico quanto linguistico: per esempio Mark Hateley Atlide, la squadra Milan rossonera Eritromelio. L’addizione tra il poeta e questo nuovo mondo dà come risultato una poesia brillante, tradizionale ma attuale, di ieri e di oggi, tragica e ironica; la macchina regolatrice, con l’Atleide, forse ha segnato un nuovo modo di fare poesia. Fin dall’incipit si avvertono i richiami all’Iliade; risuona in chiave ipercontemporanea il proemio tradotto da Vincenzo Monti, la cui versione dell’Iliade è stata oggetto della tesi di laurea dello stesso Mari (MARI 1982):

«La classe immensa il fiero sguardo io canto / del colpitore di palloni Atlide / che tante meravigliando addusse / sfere impetuose in rete, e di portieri / orrenda strage solea far nel campo.» (MARI 2019, p.73)

In conclusione di questa critica itinerante tra le liriche delle raccolte Mari, si scioglie un ultimo punto interrogativo lasciato in sospeso: che cos’è il sapere effettivo, risultato dell’uguaglianza della macchina regolatrice? Si fa ricorso a un riferimento colto:

«Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazie […] e ciò è fuggir più si po, e come un asperissimo e pericolo scoglio, la affettazione; e per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi; […] si può dir esser vera arte che non pare esser arte» (CASTIGLIONE 2017, pp. 59-60)

È un estratto di Il libro del cortegiano di Baldassar Castiglione, in cui l’autore propone il suo modello di cortigiano ideale. Quest’uomo di corte, miles e insieme literatus, deve fuggire un’arte affettata, compiaciuta, artificiosa e performata, e raggiungere la sprezzatura, un neologismo di Castiglione, un’arte non ostenta, naturale, misurata, un’armonica disinvoltura; un’arte che rende semplice e naturale un processo complesso. È questo il sapere effettivo, questo tipo di arte, in cui le poesie di Mari si rispecchiano. Raggiunge quest’apice in capolavori quali l’Atleide, mentre, in alcuni casi, il tentativo sembra stridente (come il sopracitato collage leopardiano). Sta di fatto che la sua è una poesia automatica, istintiva, coesa, misurata, che mette insieme armonicamente il soggetto e l’oggetto, la tradizione e i mass media. È una nuova poesia che è degna di essere oggetto di studio; nasconde con semplicità la complessità di questa arte, che necessita di metodo, di studio, di struttura. Mari, in quanto poeta, è cosciente del suo ruolo di macchina regolatrice, di macchina umanizzata, nella creazione di arte, letteratura e poesia: trae dalle figure meccaniche solamente questo aspetto della struttura, questa regolarità e rigore, impegno e fermezza, e applica costantemente il calcolo affrontato: l’addizione tra il soggetto e l’oggetto per produrre il sapere effettivo.

Bibliografia

  • CASTIGLIONE 2017 = Castiglione B., Il libro del Cortegiano, Milano, Garzanti Editore, 2017.
  • DONATI-GIALLORETO-PIERANGELI 2021 = Michele Mari. Filologia e leggenda, a cura di Donati R., Gialloreto A., Pierangeli F., su «Studium ricerca, letteratura Anno 117 – gen./feb. 2021 – n.1», 2021.
  • FICHTE 2018 = Johann Gottlieb Fichte J. G., Dottrina della scienza, Roma, Edizioni Roma Tre-Press, 2018.
  • MARI 1982 = Mari M., Eloquenza e letterarietà nell’Iliade di Vincenzo Monti, Firenze, La nuova Italia, 1982.
  • MARI 2007 = Mari M., Cento poesie d’amore a Ladyhawke, Torino, Giulio Einaudi editore, 2007.
  • MARI 2019 = Mari M., Dalla cripta, Torino, Giulio Einaudi editore, 2019.

 Fine dell’articolo
Autore: Antonello Costa
Revisione e cura: Marta Bernasconi, Mario Taccone

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