Nel XXXIIIesimo canto del Paradiso trova compimento il viaggio che “dall’infima lacuna dell’universo” ha portato il sommo poeta alla visione suprema della divinità.
Tra i due estremi del suo itinerario, in questa Commedia intrisa del divino, il genio fiorentino ha rappresentato ogni aspetto dell’umano fondendo, nel crogiuolo dell’arte poetica, umanità, storia, filosofia e teologia.
Dalla selva oscura alla candida rosa dell’Empireo siamo condotti all’incontro eclettico e catartico con la Bibbia, gli antichi autori, i miti e le leggende, la storia del passato e le cronache del tempo, le dispute dei teologi e quelle dei filosofi, le passioni amorose e le rivalità politiche, il peccato e la grazia, la perdizione e la salvezza.
L’uomo e il poeta Dante, così implicato nelle contingenze della vita attiva e perigliosa di “Ghibellin fuggiasco”, trova negli spazi interiori della contemplazione la libertà dello spirito, trapassando dal regno tenebroso del peccato alla più serena atmosfera dell’espiazione sino alla gloria radiosa del mondo celeste.
Nel suo poema è coinvolto tutto il mondo cristiano e quello ultraterreno, dalla Chiesa militante a quella trionfante. La grazia lo ha accompagnato e sostenuto in forza delle tre virtù teologali. Per le parole di Virgilio, infatti, sin dal secondo canto dell’Inferno, il poeta conosce che “tre donne benedette curan di lui nella corte del cielo” (Inf. II, 124-125): la Donna gentile, Lucia e Beatrice, nelle quali, secondo una lettura in chiave allegorica, i critici d’ogni tempo hanno voluto appunto figurare rispettivamente la Carità, come grazia preveniente, gratuitamente data; la Speranza, come grazia efficiente che opera concretamente; la Fede come rivelazione contemplativa che riconduce a Dio.
Ma il sostrato teologico, che pure c’è in un Dante che si è addottrinato frequentando le scuole religiose in Firenze e forse le dispute teologiche della Sorbona verso il 1310, come sostiene il Villani, il sostrato teologico resta nascosto, recondito nella presenza di tre donne reali che egli ha profondamente amato e venerato: la Bice di Folco Portinari della “Vita Nova”; la Lucia privata degli occhi, ma aperta allo splendore della visione interiore; Maria, la benedetta fra tutte le donne.
Quella promessa di aiuto celeste garantita da Virgilio e confortante anticipazione della conquista del Paradiso già alle soglie del buio infernale, trova la sua conclusione sulla vetta del Purgatorio.
Fin lassù Dante ha potuto inoltrarsi con il poeta mantovano; al confine tra il mondo e il cielo; fin lassù dove il dramma umano del poeta si scioglie finalmente in un pianto liberatorio allo sguardo severo e amante della sua donna, Beatrice, passione umana e ipostasi della grazia.
E a Beatrice (siamo nel XXXI Canto del Paradiso) crede Dante di rivolgersi, giunto ormai alla soglia della rivelazione ultima, quando d’improvviso si trova accanto un vecchio che si presenta come Bernardo di Chiaravalle, emblema della santità contemplativa, uscito dal convegno delle “sante stole”, per intercedere dalla Madonna, “però ch’io sono il suo fedel Bernardo” (Pd. XXXI, 102), che a Dante sia data la visione contemplativa del divino: la visione di Dio fatto uomo nel seno della Vergine Maria che Bernardo orante ha, già in vita, con occhi umani accesi di fiamma d’amore, contemplato nella dimensione dell’estasi.
Si apre dunque il XXXIII canto con l’invocazione a Maria in sette terzine che hanno la forza dell’inno. Inno possente che sacralizza la parola, la piega al concetto con antitesi folgoranti, la struttura come un’architettura essenziale: “Vergine-madre”, “figlia del figlio”, “umile ed alta”, “termine fisso”, “etterno consiglio”, “fattore” e “fattura”.
Quanti libri di teologia del prima e del poi di questi versi danteschi si sono affaticati per dire, spiegare, interpretare le verità della fede che solo la sublimità della poesia può rendere lapidariamente memorabili, concetti incisi col bulino del contrasto perché l’uno tragga forza ed espressività dall’altro.
La madre che resta vergine, figlia del figlio suo, vivente nell’umiltà e pur collocata sopra tutte le creature, predestinata dall’eterno consiglio, dalla decisione di sempre, al riscatto degli uomini dalla schiavitù del primo peccato.
Per lei, l’amore divino, dimentico della giusta ira, si è riacceso tra gli uomini per la croce di Cristo e rifulge nella ineffabile beatitudine e la paradisiaca candida rosa che si apre alla vista di Dante e di Bernardo.
Il titolo di Theotocos, madre di Dio, da sempre presente nella coscienza cristiana e oggetto di controversia nei due grandi concili cristologici di Efeso (431) e Calcedonia (451), trionfa in Dante attraverso le parole di Bernardo:
“Tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì che il suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura”
(Pd. XXXIII, 4-6)
E tramite lei, che dal Verbo è stata la Vergine scelta per la sua incarnazione nel Figlio, all’uomo è reso possibile l’accesso all’infinitamente separato e terribile Dio semitico dell’Antica Legge.
Da Cristo in poi egli è Padre perché noi siamo figli suoi restituiti alla grazia, perdonati e vincolati nel patto di cui il fondamento unico e definitivo è il Figlio. Il Figlio di Maria, il Figlio di Dio per opera dello Spirito Santo.
L’esaltazione poetica del mistero della Trinità che si realizza in Maria si svolge volutamente con mirabile artifizio retorico metrico stilistico nel ritmo endesillabico delle prime terzine dell’ultimo Canto.
Di Maria, il suo devoto santo Bernardo esalta la luce piena di carità, “meridiana face”, per i beati che già vivono nell’amore totale e, per quelli che ancora attendono, “di speranza fontana vivace”.
È lei che dà ali alla nostra speranza accogliendo e talora precorrendo ogni nostro desiderio di pace. E dunque l’orazione di Bernardo che anticipa la preghiera di intercessione per Dante, si conclude in una lode dove il confidente “in te … in te”, quattro volte reiterato come in una litania, esprime tutto l’affetto del santo per la sovrana benefattrice:
“In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate”
(Pd. XXXIII, 19-21)
Dante ascolta Bernardo raccolto nella consapevolezza e nell’atteggiamento di chi è sospeso ad una raccomandazione perché l’ultimo atto del suo dramma volga felicemente al termine. E il momento arriva, atteso e trepidato. Con rapido trapasso dall’inno all’umile preghiera, Dante è posto al centro della scena dal tocco del santo monaco che lo presenta e lo raccomanda: “Or questi…”.
Il gesto e l’abilità oratoria del santo convogliano in un istante lo sguardo del celeste uditorio sul protagonista del viaggio nel triplice regno. Del viaggio dantesco Bernardo accenna, in rapida sintesi, che il suo protetto:
“…dall’infima lacuna
dell’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una”
(Pd. XXXIII, 22-24)
Da ognuna è stato ammaestrato sul bene e sul male nel volgersi del suo dramma. Ma al termine ultimo, unico ed assoluto della contemplazione, per approdare alla visione del sommo bene, serve una grazia sovrabbondante.
Bernardo ne avanza a Maria la supplica in nome del suo protetto affinché Dante
“…possa con gli occhi levarsi
più alto, verso l’ultima salute”
(Pd. XXXIII, 26-27)
Supplica, Bernardo, con l’ardore di una preghiera liberata da ogni condizionamento umano, con l’ardore di chi ha già conquistato la visione beatifica, non più offuscata dai limiti della corporalità, invocando che anche al suo protetto “ogni nube di sua mortalità” sia sgombrata e venga investito dalla folgorante visione beatifica di Dio. E poiché, esaurita la visione contemplativa, dovrà Dante tornare alle vicende della vita terrena, già ora prega che il poeta sia salvaguardato dalle passioni e dal traviamento che lo fecero smarrire nella selva oscura del peccato.
Quasi a suggello della sua perorazione, Bernardo pronuncia qui, ed è l’ultima volta nel poema, il nome di Beatrice che del poema è stata l’ispiratrice:
“Vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti giungon le mani”
(Pd. XXXIII, 38-39)
Ed è lì Beatrice, a mani giunte, in un atteggiamento corale con tutti i santi che le stanno intorno, esprime l’ultima preghiera per l’uomo che l’ha amata giovinetta e donna, cantandola nel prosimetro della “Vita Nova”; per l’uomo che, da morta, più volte è venuta ad ammonire in sogno; per l’uomo che, caduto nel peccato, è corsa giù dal cielo a soccorrere alle soglie dell’inferno; per l’uomo che ha atteso sulla vetta del Purgatorio per suscitarne la vergogna e il pentimento; per l’uomo che nei suoi occhi e il suo sorriso ha trovato la via della redenzione e della salvezza.
Come non ricordare, in quest’ultima definitiva consacrazione della donna amata nella gloria celeste, che già nell’ultimo sonetto della Vita Nova, Dante aveva descritto Beatrice circonfusa di luce “oltre la spera che più larga gira”, il Paradiso, commentando di aver avuto una “mirabile visione”: “lo vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso… Io spero di dicer di lei quello che mai fue detto d’alcuna”.
Ora in questo ultimo trepidante atteggiamento di supplica Beatrice appare a noi donna vera che incarna sentimenti umanissimi oltre ogni senso figurato inteso a farne l’ipostasi della Grazia o della Teologia. Anche se da qui in avanti ogni azione del dramma umano si va ormai dirigendo verso il tentativo di esprimere l’ineffabile mistero della Grazia oggetto della Teologia.
Maria ha raccolto la preghiera di Bernardo. I suoi occhi, diletti e venerati insieme per essere lei congiuntamente sposa e madre di Dio, trascorrono da Bernardo “all’eterno lume”, alla “gloria di Colui che tutto move” (Pd. I, 1). Tutto muove nella sua immobilità, “movens non motum”, come vuole la teologia scolastica.
Sono Maria, Bernardo, Beatrice, tutti i beati che spingono Dante verso l’altissimo, il quale non esprime da parte sua alcun assenso perché gli atti sono delle creature non dell’Essere. L’atto di assenso all’accesso al mistero divino viene pertanto da Maria “che può ciò che vuole” (Pd. XXXIII, 34-35) col volgere degli occhi dal santo orante “all’eterno lume” come nessuna altra creatura potrebbe fare, avendone Lei partorito il Figlio.
Comprende Dante di essere ormai “al fine di tutt’i disii” (Pd. XXXIII, 46) perché nel suo essere subentra all’ardore del desiderio, la quiete dell’appagamento. Il cenno e il sorriso di San Bernardo sono raccontati per noi lettori che vediamo uscire il santo definitivamente dal racconto.
Dante infatti già corre con la vista dentro il raggio dell’“alta luce che da sé è vera” (Pd. XXXIII, 54). Si profonda dentro quella verità assoluta che nell’uomo si riverbera solo parzialmente nelle assiologiche esigenze della sua coscienza che aspira al vero, al buono, al giusto, al bello.
Ciò che nella coscienza dell’uomo urge come inappagabile desiderio dell’assoluto e della perfezione in lotta con la costitutiva consapevolezza umana della propria limitatezza, della propria fragilità, della propria precarietà, lentamente in Dante, nel trascendere dall’umano al divino, si perde come le scorie separate dal metallo puro per la forza del calore. Più il suo occhio si inoltra verso la luce e più a quella luce l’occhio si adegua per un misterioso e sovrannaturale processo che alla parola non è dato di esprimere, né alla memoria di ricordare.
D’ora innanzi questo dichiarato arrendersi del poeta, vinto dall’impossibilità di esprimere attraverso le sue deboli facoltà percettive ed espressive, la sublimità e l’eccesso della visione divina, andrà reiterandosi nel progressivo avvicinamento della contemplazione finale.
E tuttavia, ciò che all’intelletto dei suoi uditori non è dato al poeta raccontare, egli tenta di trasferire, con geniale intuizione, almeno attraverso una sensazione che appartiene all’esperienza di ognuno.
L’esperienza di dolcezza o paura o trepidazione o quant’altro dei nostri sentimenti che permane al risveglio da un sogno di cui non ricordiamo che in maniera confusa il contenuto, svaporato all’aprirsi degli occhi, ma di cui sentiamo il sapore nella nostra psiche:
“…chè quasi tutta cessa
mia visione, ed ancor mi distilla
nel cor lo dolce che nacque da essa”
(Pd. XXXIII, 61-63)
Una dolce traccia psicologica fragilmente indicativa di un immenso tutto, come goccia d’acqua che rinvia alla distesa immensa del manto nevoso che si scioglie; come foglia dispersa al vento dalla Sibilla cumana che rinvia alle oscure divinazioni dell’oracolo misterioso.
Il cimento di lasciare almeno una traccia di ciò che per uno straordinario privilegio gli è consentito già da uomo mortale, (toccò forse a San Paolo come è detto nella seconda lettera ai Corinzi 12, 2-4: “Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa -se con il corpo o fuori dal corpo non lo so, lo sa Dio- fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito a nessuno pronunziare”), lo fa prorompere per l’estensione di tre terzine nell’invocazione:
“O somma luce…
ripresta un poco di quel che parevi
e fa la lingua mia tanto possente…”
(Pd. XXXIII, 67-69)
perché, anche se in modo del tutto inadeguato, traspaia e trionfi dalla voce della poesia la grandezza di Dio. È la vittoria di Dio su tutto l’esistente, il suo trionfo di eterno creatore, la sua inarrivabile trascendenza, ciò di cui Dante umilmente chiede di essere strumento, pur nella pochezza della sua arte in comparazione al compito che si assegna.
Gli occhi del poeta, per la Grazia ormai impetrata, corrono lungo “il raggio della luce che da sé è vera”, totalmente assorbiti e intesi a sostenere l’acuta violenza inferta alle sue facoltà visive. Ritrarsi in quel momento avrebbe significato la perdita dell’ultimo fine. Ma ancora la Grazia lo sostiene e lo assiste sino al congiungimento “col valore infinito” (Pd. XXXIII, 81).
Gli occhi dell’intelletto umano non bastano a penetrare il mistero di Dio. La luce è data per Grazia divina, non per conquista umana. Ma è data a chi cerca di conquistarla, mettendo l’intelletto al servizio della fede.
È partendo da questa consapevolezza che Dante avanza la sua presunzione di conoscere il mistero che si apre finalmente alla sua vista.
Cosa vede Dante che possa essere espresso nella finitudine ardimentosa dei suoi versi? Una visione teologica a cui approda salito da una sfera celeste all’altra del Paradiso sino a questo estremo lembo del suo viaggio dove coincidono l’origine e la fine (il Fine) di ogni esistente:
“Nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amore in un volume
ciò che per l’universo si squaderna”
(Pd. XXXIII, 85-88)
Versi dal contenuto difficilmente accostabile come vuole peraltro una materia che non è di questo mondo. Il solo richiamo alla nostra esperienza in questa terzina è quello “squadernarsi” della nostra realtà conoscitiva che si apre ogni giorno come i fogli di un quaderno dalle pagine slegate, spesso dal contenuto misero e distorto. Per contrasto i termini “profondo”, “amore”, “volume”, “universo” che si incontrano in successione nella terzina, potrebbero leggersi due a due: profondo amore e volume dell’universo.
È l’intero universo creato dall’amore di Dio che Dante sta cogliendo. E ricorre consapevolmente a termini delle astrazioni filosofiche e teologiche del suo tempo per definire concettualmente, con il corto lume della ragione, l’essenza della varietà degli enti nell’unico essere. Sono termini della filosofia consueti per Dante perché appartengono alla sua cultura: le sostanze, gli accidenti, le loro relazioni. Appunto, ciò che si “squaderna” nel reale come viene letto e interpretato nelle “Summae” e nei trattati della Scolastica.
Ma quassù nell’Empireo l’universo “conflato”, dice Dante, usando un termine rarissimo che abbina l’idea di molteplicità a quella di unità: le parti nel tutto dell’amore di Dio. E poiché le parole difettano al compito di esprimere “la forma universal di questo nodo” (Pd. XXXIII, 91), ancora una volta Dante fa ricorso, più che all’intelletto, alla sensazione della psiche che si identifica in quel suo godere “più di largo” nel solo tentativo di esprimere quel massimo grado di ascesi cui è pervenuto. Godimento inteso come conferma di una verità inesprimibile, ma percepita come verità totale e assoluta.
Non sapendo né potendo ricordare il contenuto della sua visione, Dante ricorre a questo alternativo criterio per affermarne la verità, la felicità che ne ha derivato. È la Grazia che produce quel godimento, la Grazia è di Dio e Dio è la verità.
Quella visione, così soverchiante nella sua violenza le capacità umane di esprimerla, troppo sublime per essere costretta nei vincoli dello spazio e del tempo che cingono l’esperienza umana, quella visione, avverte Dante, è caduta in un oblio repentino e tale che un solo attimo dopo di essa, il ricordo che ne è rimasto è più indebolito in “un punto solo”:
“che venticinque secoli all’impresa
che fè Nettuno ammirar l’ombra d’Argo”
(Pd. XXXIII, 95-96)
O forse intendeva il poeta che l’ammirazione provata per la grandezza della visione paradisiaca in un solo attimo in cielo è di gran lunga eccedente quella espressa tra gli umani nell’arco di duemilacinquecento anni per uno straordinario evento come quello della prima nave che solca il mare aperto, violandone le fino ad allora sconfinate solitudini.
Quel termine, ”letargo”, può essere interpretato come caduta nel sonno dell’oblio o come rapimento estatico in Dio o, più ancora, come l’oblio di un rapimento estatico irrecuperabile dall’intelletto. Comunque sia, l’immagine della prima nave che solca l’alto mare, sorprendendo inattesa l’incontrastato re dei flutti Nettuno, allenta una tensione teologica che alla mente era diventata sofferenza perché difettiva a contenerla. Una tensione che Dante riesce a tenere perché la sua mente è confortata dalla luce in cui ormai è profondato e dalla quale ogni altra realtà è annullata.
Con lo stupore di Nettuno, la mente meravigliata e assorta di Dante è ora dinnanzi all’unità di Dio, mentre il desiderio di raggiungerne il possesso si va via via acuendo in un ardore di luce e di gaudio che esclude ogni altro aspetto del mondo. È la pienezza di ogni bene che si accoglie nella perfezione divina e la debole volontà umana, che durante la vita è alla perenne ricerca della felicità nei piccoli beni terreni, ora, finalmente, si profonda nel bene assoluto.
Un Bene e un Vero che Dante cerca in un ultimo ardimentoso sforzo di comunicare al lettore, non senza avvertirlo ancora una volta che ogni sua parola sarà inadeguata al tema come il balbettio d’un infante che ancora succhia il latte materno:
“Ormai sarà più corta mia favella,
pure a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagna ancor la lingua alla mammella”
(Pd. XXXIII, 106-108)
Adesso ogni preambolo, ogni eccezione d’inadeguatezza che hanno accompagnato il poeta sino al culmine della sua ascensione, stupefatta e sgomenta allo stesso tempo, sfociano nel tentativo finale di effigiare il mistero della Trinità e dell’Incarnazione. Il poeta uomo mortale vi è giunto per gradi, per un progressivo avvalorarsi del suo intelletto in forza della grazia che gli è concessa. Dio invece è immutabile: “…Tal è sempre qual s’era davanti” (Pd. XXXIII, 111).
È Dante rinvigorito dalla forza che riesce a vedere ciò che prima non poteva discernere nell’infinita luce della essenza divina.
In quella unica sostanza eterna, non per la sua ragione, non per la conoscenza del dogma, ma per rapimento estatico, individua tre cerchi di tre colori diversi e della stessa dimensione:
“E l’un da l’altro com’iri da iri
parea reflesso, e ‘I terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri”
(Pd. XXXIII, 118-120)
Sono le tre Persone in Dio del dogma cristiano. In quell’arcobaleno (iri), le tre relazioni realmente distinte della Paternità, della Filiazione e della Spirazione procedente “ab utroque” trovano la loro consacrazione poetica in una grandiosa immagine di luce e di fuoco. Il fuoco d’amore dello Spirito Santo che stringe intimamente e vicendevolmente nell’unico nodo Dio Padre e Dio Figlio, il Verbo.
E la poetica, folgorante sintesi della Trinità racchiusa nella terzina è immediatamente seguita dalla coscienza infelice che un solo barlume di rispondenza può essere colto fra ciò che Dante ha visto e ciò che tenta di esprimere:
“Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto!”
(Pd. XXXIII, 121-122)
Molti prima dell’immagine dantesca erano stati i tentativi di raffigurare simbolicamente in opere scritte e grafiche il dogma cristiano dell’unica natura divina in tre persone distinte.
Si ricordi l’immagine dei cerchi adottata da Gioacchino da Fiore; il “sempiternus circulus” dello Pseudo Dioginigi; la testa a tre facce; tre identiche persone avvolte in un unico mantello; grafici geometrici e altre figurazioni simboliche pensate per accostare con l’intelletto umano un mistero accessibile solo per fede.
Sant’Agostino, nelle Confessioni, studiando di ricercare forme trinitarie che risiedono nell’uomo, ne aveva individuato una imperfetta parvenza nell’“esse”, nel “nolle” e nel “velie” che costituiscono l’essenza della natura umana. Tutti tentativi di avvicinarsi, in qualche modo, al più inaccessibile dei misteri rivelati.
Dante è cosciente della ineffabilità del mistero. L’apostrofe che ne consegue
“O luce eterna, che sola in te sidi,
sola t’intendi, e, da te intelletta
ed intendente te, ami e arridi!”
(Pd. XXXIII, 124-126)
è la riaffermazione che nell’unica, inseparabile, divina sostanza il Padre è Dio, il figlio è Dio e Dio è lo Spirito Santo. Nella contemplazione di se stesso come atto d’intellezione, il Padre esprime sé a se stesso nel Verbo generato con parola eterna, come eterno è l’amore che spira tra il Padre e il Figlio nella Persona dello Spirito Santo.
È la riaffermazione dell’infinita separatezza di Dio, il cui mistero impenetrabile è conosciuto solo per rivelazione.
In queste ultime note dei cento canti immortali la Teologia si fa poesia del divino. La Fede reclama i nervi e le forze della speculazione intellettiva. L’intelletto si avvale e impreziosisce dell’ornamento poetico. Né si arresta Dante a quella ammirata visione della Trinità. Nel secondo cerchio che si genera dal primo come luce riflessa, “luce da luce” (come nel Credo cristiano), il poeta, nella sua concentrazione estatica, coglie impressa l’immagine umana.
Gli è presente il secondo mistero, quello dell’Incarnazione, dell’unione ipostatica della natura umana e divina del Verbo incarnato.
La faccia umana del Cristo, del Dio per noi, è l’ultima immagine del suo viaggio. Né potrebbe essere altrimenti perché il Verbo fatto uomo è l’evento definitivo della storia terrestre.Ma come è possibile che Dio sia rimasto Dio diventando uomo? Come è possibile che quell’immagine umana possa iscriversi in quel cerchio divino? Dante vuole penetrare
“…come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova”
(Pd. XXXIII, 197-198)
Pertanto vi indugia e si affanna inutilmente come il matematico che tenta la quadratura del cerchio. Ma le vie razionali non possono spiegare il mistero dell’unione ipostatica. Solo per folgorazione della Grazia a Dante son date ali per attingere il mistero:
“Se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.”
(Pd. XXXIII, 140-141)
In quel “fulgore” che lo penetra in ogni intima fibra del corpo, che ne pervade l’intelletto, che ne soddisfa ogni desiderio trova compimento la perfetta beatitudine nell’attingimento dei due misteri principali della fede: la Trinità e l’Incarnazione che egli coglie in Dio in un trasporto di mistica illuminazione.
Il viaggio è compiuto, il fine è raggiunto: l’unione con Dio.
La poesia messa al servizio della rappresentazione del divino ha toccato il suo vertice: non ha altre soglie da varcare, altri confini da penetrare, altre forze da spendere:
“A l’alta fantasia qui mancò possa.”
(Pd. XXXIII, 149)
Ma in forza di quella visione il desiderio dell’intelletto e l’azione della volontà del poeta si muovono ormai in perfetta uniformità come due ruote mosse dallo stesso asse. Sono mosse nell’uomo acquisito alla salvezza dallo stesso Dio che muove “il sole e l’altra stelle” (Pd. XXXIII, 146).
Dall’immensità dell’universo sino all’intimo delle coscienze, Dio è la causa finale di ogni moto non per le dimostrazioni aristoteliche del primo motore immobile, ma per l’amore incessante con che regge l’universo: “Deus charitas est” come dice Giovanni.
Fine dell’articolo
Autore: Giuseppe Piantoni
Cura: Alessandro Ardigò
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