
1. Il più grande ignavo di tutti i tempi
Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre più, presa dell’acqua, si lavò le mani davanti alla folla: «Non sono responsabile, disse, di questo sangue; vedetevela voi!». E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli». Allora rilasciò Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso. [MATT. 27, 24:26]
Il racconto evangelico ha tramandato la figura di Ponzio Pilato come quella del più grande ignavo di tutti i tempi. Egli è convinto dell’innocenza di Gesù; ripete più volte, inisistentemente, di non riuscire a trovare nessuna colpa in lui; ma, come da stereotipo fisso per sempre nell’immaginario collettivo, preferisce lavarsene le mani, diventando «simbolo di un certo atteggiamento universale, il pilatismo», misto di «viltà, paura di perdere, con un atto coraggioso e di giustizia, il potere piccolo o grande che si detiene, indifferenza per gli altri, conformismo per interessi di carriera o di soldi» [BAZZANELLI, 2007]. Nel III canto dell’Inferno, tra gli ignavi «che visser sanza infamia e sanza lodo», Dante incontra proprio l’anima di Pilato, «colui che fece per viltade il gran rifiuto» (come è noto l’interpretazione è in realtà molto controversa: quella più diffusa rimanda a papa Celestino V, ma tra le altre ipotesi – Giuliano l’Apostata, Romolo Augustolo, Esaù, Giano della Bella, Vieri dei Cerchi – la suggestione di Pilato viene suggerita sia da Natalino Sapegno sia da Giovanni Pascoli, che scrive: «oh! sublimità veritiginosa del pensiero dantesco, vedere, laggiù, nell’atrio del mondo morto, correre correre correre dietro la croce colui che la innalzò» [PASCOLI, 1902])
Questa sorta di damnatio memoriae viene certificata già nel 381 d.C., anno in cui il concilio di Costantinopoli aggiunse alla preghiera del Credo la precisazione cronologica che Gesù «patì sotto Ponzio Pilato». Da quel momento il suo nome risuona su milioni di labbra in milioni di chiese di tutto il mondo, rinnovando in eterno il peso di quella decisione. Nel musical Jesus Christ Superstar, del 1973, Pilato canta di aver incontrato in sogno «un galileo, un uomo davvero straordinario», di aver visto poi «miliardi di persone, per migliaia di anni, piangere per quest’uomo» e ripetere ogni giorno il suo nome. «E diranno che è stata tutta colpa mia» conclude amaro. E anche la scrittrice tedesca Gertrud von le Fort immagina un incubo simile, anche se lo attribuisce alla moglie di Pilato. Leggiamolo:
Mi trovavo in un luogo immerso nella penombra, dove era raccolta una moltitudine di gente che sembrava pregasse, ma le parole mi giungevano indistine come il mormorio dell’acqua che scorre e non riuscivo ad afferrarle. Ma ecco che, d’un tratto, mi sembrò che mi si affinasse l’udito; fu come se dallo sfondo di acque cupe e rumoreggianti si alzasse subitaneo lo zampillo cristallino di una querula fontana. Sentii, ben chiare e distinte, queste parole: “Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto…”. Non riuscivo a comprendere perché il nome di mio marito fosse sulla bocca di quella gente, né intuivo il significato di quella scena. Provai tuttavia un’angoscia indefinibile, come se le parole udite potessero avere soltanto un senso misterioso e oscuro. [VON LE FORT, 1963]
A ben guardare, però, Pilato è sin da subito un personaggio più complesso e sfaccettato di uno stanco governatore di provincia. Se Nietzsche arriverà a definirlo «l’unica figura» di tutto il Nuovo Testamento «a cui si debba rendere onore» [NIETZSCHE, 1992] è perché coglie tutta la tensione drammatica del suo destino. Tensione drammatica d’altronde già presente nelle pagine di Giovanni – senza dubbio il più acuto e, per così dire, il più sofisticato dei quattro evangelisti – che abbozza, tramite la brevitas di alcune fulminanti sentenze, un ritratto memorabile, che trascorre dalla rassegnazione pensosa («Quid est veritas?», Cos’è la verità?, chiede uno sconsolato Pilato a Gesù, con una battuta che il solito Nietzsche definisce la battuta più sottile di tutti i tempi), alla solennità formale («Ecce homo!», Ecco l’uomo! dichiara presentando il prigioniero alla folla) fino ad un’insospettabile ma risoluta fermezza («Quod scripsi scripsi», Ciò che ho scritto ho scritto, replica lapidario ai sommi sacerdoti che gli chiedono di cambiare l’iscrizione sulla croce).
Parte del fascino, poi, deriva dall’incredibile casualità della sua fama. Pilato, in qualità di quinto procuratore della Giudea in carica dal 26 al 36 d.C., si avviava a grandi passi verso gli oscuri meandri della storia antica, quelli di solito riservati ad appassionati e specialisti (d’altronde sfido chiunque a ricordare il nome dei quattro procuratori che lo hanno preceduto. Per amor di cronaca: Coponio, Marco Annibulo, Annio Rufo e Valerio Grato). E anche l’evento in cui si è ritrovato coinvolto – la storia della passione e morte di Gesù Cristo – aveva tantissime probabilità di restare una delle tantissime anonime condanne di uno dei tantissimi anonimi predicatori che percorrevano quella provincia nel I secolo d.C. È a questo che allude lo scrittore francese Anatole France, quando chiude in maniera così spiazzante un suo bellissimo racconto in cui Pilato, ormai anziano, è a colloquio con un amico:
«Si chiamava Gesù, Gesù il Nazareno, e fu crocifisso non so bene per quale crimine. Ponzio, ti ricordi di quell’uomo?».
Ponzio Pilato aggrottò le sopracciglia e si portò la mano alla fronte, come chi cerca qualcosa nella propria memoria. Poi, dopo qualche istante di silenzio, mormorò:
«Gesù? Gesù il Nazareno? No, non mi ricordo» [FRANCE, 2018]
2. Ponzio Pilato, questo sconosciuto
E invece sarà proprio quell’episodio ad avviare la diffusione planetaria della religione cristiana, e a restituire a Pilato una improbabile notorietà a posteriori. Ovvio, quindi, che la documentazione che lo riguarda sia scarsissima e che la sua immagine appaia «velata d’una bruma dove tutto di lui sembra dissolversi nei tremuli contorni dell’opinabile» [CENTINI, 2006]. Innanzitutto, non sappiamo dove sia nato. Qualcuno suggerisce un’origine andalusa, dividendosi tra Siviglia e Ispalis. Una leggenda lo vuole lionese, figlio illegittimo di un nobile romano, Tiro Regolo, e di Pila, figlia di un umile fornaio (o, stando ad un’altra versione, di un centurione e di una giovane popolana). Più probabile pare essere l’origine sannitica, che collocherebbe i natali in un territorio compreso tra Abruzzo, Lazio e Campania. Troppi però i comuni che, in assenza di riscontri, rivendicano un cittadino tanto illustre: Atina, Cori, Cisterna di Latina, Amelia. A Isernia giurano che lì Pilato ci sia nato e ci sia pure morto, tanto che la Fontana Fraterna, simbolo architettonico della città, sarebbe il suo monumento sepolcrale. A Bisenti, in provincia di Teramo, raccontano addirittura che la sua famiglia fosse stata esiliata proprio lì perché coinvolta nella congiura delle Idi di marzo. In paese, allora centro di un’area di vasta colonizzazione ebraica, il giovane Pilato avrebbe studiato l’aramaico e conosciuto le usanze ebraiche, in una sorta di inconsapevole apprendistato al suo futuro ruolo.
Avrebbe poi studiato ad Atene, prima di rientrare a Roma e sposare Claudia Procula, donna di stirpe imperiale in quanto figlia della terza moglie dell’imperatore Tiberio. Ma il suo nome non compare in nessuna fonte, e spunta fuori solo durante il processo a Gesù, e solo in Matteo, quando intima al marito: «Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua» [MATT. 27, 19]. Tanto è bastato per crederla cristiana, renderla oggetto di devozione popolare e scatenare la fantasia di letterati d’ogni epoca (da Antoniette May a Giuseppe Ellero, da Elena Bono a Tommaso Gallarati Scotti). Ponzio e Claudia avrebbero persino avuto un figlio, Elio, così chiamato in onore della stretta amicizia del padre con Lucio Elio Seiano, potentissimo prefetto del pretorio, su cui contava per ottenere un incarico politico di pregio. Sarebbe stato disposto a tutto pur di fare carriera, persino ad uccidere (il mito del Pilato omicida viene ripreso anche nella Legenda aurea di Jacopo da Varigine, secondo cui Ponzio avrebbe ucciso il fratellastro, uno straniero, il poeta Cremuzio Cordo e pure Pisone, il presunto avvelenatore di Germanico). A nulla però sarebbero valsi i suoi sforzi, se alla fine si accontentò di una nomina ben più modesta come quella a procuratore della Giudea.
Pilato, infatti, non dovette esserne affatto contento. La Giudea era una provincia turbolentissima, ai confini dell’Impero, abitata da un popolo – gli Ebrei – che egli non capiva e non stimava. Sul suo incarico si concentrano, come è prevedibile, le poche testimonianze concrete arrivate fino a noi. Abbiamo un’unica fonte archeologica – l’iscrizione «Pontius Pilatus praefectus Iudaeae» rinvenuta nel 1961 a Cesarea di Palestina – e qualche citazione frettolosa nelle fonti antiche. Tacito lo nomina di sfuggita, nel celeberrimo passo degli Annales in cui condanna il cristianesimo come «esacrabile superstizione» [TACITO, 1995]. Flavio Giuseppe ci racconta un paio di episodi (uno relativo alla contestata esposizione delle insegne imperiali a Gerusalemme; l’altro alla costruzione di un acquedotto attingendo alle casse del tempio: significativamente due episodi di sommossa, a testimonianza delle difficoltà di un mandato in una provincia così irrequieta). L’unico a spendere qualche parola in più è Filone di Alessandria, che però ci restituisce un ritratto troppo tendenzioso per essere affidabile:
Un tiranno corrotto, avido e insensibile alle ragioni della giustizia. Orgoglio, prepotenza e insolenza erano la sua regola. Il paese sotto di lui fu lasciato al saccheggio e la gente veniva uccisa senza rispetto di alcuna legge [FILONE].
In ogni caso, sappiamo per certo che nel 36 d.C. Pilato venne sospeso e richiamato in patria da Tiberio per aver represso nel sangue la cosiddetta rivolta del monte Garizim, che di rivoltoso, in realtà, poco aveva: su quel monte si erano riuniti i Samaritani, in attesa di un’annunciata apparizione di Mosè. Pilato aveva ordinato alla cavalleria romana di disperdere la folla, causando un feroce massacro. I Samaritani però, a differenza degli Ebrei, erano fedeli alleati dell’impero, e non tardarono a chiedere ed a ottenere la sua destituzione. Egli, a questo punto, percorse in circa tre mesi le duemila miglia di viaggio che separano Cesarea di Palestina da Roma. Ma al suo arrivo nella capitale, nella primavera del 37, Tiberio era già morto, e non fece in tempo a prendere in esame il caso.
3. La leggenda bianca e la leggenda nera
Da quel preciso momento Pilato sparisce dalla storia. Di lui non sappiamo assolutamente più nulla, e, come sintetizza Aldo Schiavone, «diventa una figura di intersezione fra la memoria e la storia, come Romolo o Giovanna D’Arco» [SCHIAVONE, 2016] . Ancora una volta, il vuoto di informazioni stimola il fiorire di voci, ricostruzioni e ipotesi, spesso fantasiose, sulla sua sorte:
Fra le devote leggende più diffuse e più celebri del medio evo, diffusissima e celeberrima fu quella di Pilato. Germogliata nei primi secoli del cristianesimo, cresciuta smusiuratamente dipoi, trapiantata d’uno in altro suolo, essa soggiacque a varia fortuna, ebbe molte e curiose vicende, si mutò in tutto da quella ch’era stata in origine [GRAF, 1892]
Da una parte si sviluppa la leggenda bianca, assolutoria, di un Pilato buono e senza colpa. Tertulliano, nell’Apologeticum, lo descrive come un uomo «iam pro sua conscientia christianus», già divenuto cristiano nel suo intimo [TERTULLIANO, 2006]. D’altronde la condanna da lui decisa, per un paradosso solo apparente, compie le scritture e realizza la missione umana e divina di Gesù. È ciò che sottintende Dante, quando nel De Monarchia sostiene che, affinché l’umanità fosse riscattata, era assolutamente necessario che Gesù fosse giudicato e giustiziato. Ed è ciò su cui riflette, in anni più recenti, anche lo scrittore francese Roger Caillos, quando immagina che, dopo una notte di tormenti, Ponzio Pilato abbia alla fine deciso di liberare il suo prigioniero (così recita la chiusa del romanzo: «Tuttavia, a causa d’un uomo che, contro ogni speranza, riuscì ad essere coraggioso, non ci fu cristianesimo» [CAILLOS, 1963]).
L’intento apologetico, teso ad alleviare la responsabilità del procuratore e ad additare il popolo ebraico come deicida, è dominante anche nel cosiddetto Ciclo di Pilato, una serie di testi apocrifi di varia datazione e provenienza (sono composti in greco, in latino, in siriaco e in italiano, in un arco temporale compreso all’incirca tra il V e il XVII secolo) che provano a colmare, con tanta fantasia e poca attendibilità, i molti buchi lasciati dalla reticenza dei vangeli. L’innocente procuratore si sarebbe meritato una dorata pensione a Bologna, ad Asti, a Norcia, a Latina o sulle colline di San Pio di Fontecchio, vicino L’Aquila (ipotesi tornata in voga dopo il recente ritrovamento dei resti di una domus romana). Gesù stesso, dopo la resurrezione, sarebbe tornato a perdonare il suo giudice, assicurandogli: «Ti benediranno tutte le generazioni e i popoli perché, durante la tua epoca, il Figlio dell’uomo morì e risuscitò, salirà nei cieli e sederà nelle sublimità celesti» [CRAVERI, 1969]. La Paradosis di Pilato, apocrifo greco del VII secolo, racconta la sua morte nei toni agiografici di una vera e propria beatificazione (non si dimentichi che ancora oggi Pilato è venerato come santo, insieme alla moglie, dalla Chiesa copta):
Allorché Pilato terminò la sua preghiera, dal cielo discese una voce dicendo: «Tutti i popoli e tutte le generazioni proclameranno la tua felicità, in quanto nel tuo periodo hanno avuto compimento tutte le profezie che mi riguardavano». L’arconte troncò la testa di Pilato, e un angelo del Signore la prese. [CRAVERI, 1969]
Molto più spesso, però, la tradizione gli riserva una fine ben più crudele, come d’altronde non è clemente con nessuno dei personaggi coinvolti nell’uccisione di Gesù: Giuda, preso dal rimorso, si suicida; Caifa, il capo del sinedrio, viene rifiutato persino dalla terra in cui è sepolto; Erode è afflitto dall’idropisia al punto che gli escono i vermi dalla bocca; il sommo sacerdote Anna viene «avvolto in una pelle fresca di bue e posto a seccare al sole». Le voci più insistenti lo vogliono morto di una morte atroce e violenta. L’imperatore lo avrebbe mandato in esilio a Lione; o ad Amelia, vicino Terni; o a Lucerna, in Svizzera, dove ancora oggi c’è un monte Pilato; o sull’isola di Ponza, che proprio da lui deriverebbe il nome; oppure ancora in Francia, a Vienne, con scoperta allusione alla via della Geenna, luogo maledetto per eccellenza. In ogni caso, in esilio si sarebbe suicidato trafiggendosi con una spada. Altra versione: il solito Tiberio lo avrebbe involontariamente trafitto con una freccia durante una battuta di caccia. Il suo corpo, poi, non avrebbe trovato pace neanche da morto:
Fu dunque legato ad un enorme peso e immerso nel fiume Tevere. Spiriti maligni e immondi, godendo del suo corpo maligno e immondo, si muovevano tutti nelle acque e suscitavano nell’atmosfera fulmini e tempeste, tuoni e grandine terribile, sicchè tutti erano presi da un’orribile paura [CRAVERI, 1969]
Il cadavere allora, estratto dal Tevere, sarebbe stato trasferito nel Rodano; poi da qui, ricominciate le apparizioni demoniache, portato sul monte Settimo, vicino Chiavenna; calato in un pozzo in mezzo alle montagne di Losanna; o ancora gettato nelle oscure acque del lago di Pilato, alle pendici del monte Vettore, nelle Marche, da cui uscivano, evocati da un negromante, «diavoli in forma di pesci mostruosi» ad «esigere un tributo umano annuale» [JESI, 1978].
4. Un grande personaggio letterario
Insomma, in Pilato – esattamente come nei grandi personaggi letterari – storia e leggenda, verità e menzogna si mischiano indissolubilmente, tracciando la parabola di un inevitabile destino. Non sorprenderà allora che romanzieri, poeti, sceneggiatori e registi abbiano da sempre riflettuto sul dramma di un uomo che manda a morte il figlio di Dio, che indirizza tutto il corso della storia occidentale, ma lo fa senza sapere e senza capire. Ed è proprio qui, nello smisurato divario tra l’ignara leggerezza del gesto e l’imprevedibile enormità delle conseguenze, che si innesta la tragedia di un carnefice che è vittima della sua stressa condanna. «Non riuscivo a liberarmi» scrive a questo proposito lo scrittore svizzero Friedrich Durrenmatt, autore di un celebre racconto sul tema «dell’idea che Pilato avesse saputo fin dal primo istante che davanti a lui c’era Dio, e che fin dal primo istante si era convinto che quel Dio fosse venuto per ucciderlo» [DURRENMATT, 2003].
La letteratura abbandona i freddi tecnicismi della storia e della teologia, e prova a slittare «dal piano concettuale a quello rapportuale», recuperando la persona dietro il magistrato, partecipando empaticamente alla sua sorte. I letterati decidono cioè di «scegliere assieme a lui», non su di lui [NARO, 2020]. Il meschino Pilato diventa così emblema della meschinità di ogni uomo, roso dal dubbio, testimone inerme del crollo di ogni sua certezza, destinato allo scacco e alla sconfitta. Non è un caso se a scorrere l’elenco delle citazioni – e se ne trovano in ogni epoca: i romanzi cavallereschi, Jacopone da Todi, Goethe, Fogazzaro, Leopardi – si nota subito quello che Lucia Masetti ha efficacemente definito il «rigurgito di Pilato nella modernità» [JORI, 2013]. Pilato è modernissimo perché modernissimo è il dramma della scelta e del giudizio. Lo capiscono bene, tra gli altri, Paul Claudel e Mario Soldati, Werner Koch e Varlam Salamov, fino alle più recenti suggestioni di Josè Saramago ed Emmanuel Carrère.
E lo capisce forse meglio di tutti Michail Bulgakov, che in Il maestro e Margherita intreccia la storia dell’apparizione del diavolo a Mosca – nelle fattezze del misterioso professor Woland, esperto di magia nera attorniato da demoni e streghe – a quella del Maestro, drammaturgo che ha scritto un dramma proprio sul processo a Gesù (dramma bruciato e poi ritrovato, perché si sa, come recita la massima più famosa del romanzo «i manoscritti non bruciano» [BULGAKOV, 1977]). Bulgakov riporta, a mo’ di cerniera tra i due fili narrativi, le pagine del dramma, in cui Pilato è il vero protagonista, «un personaggio vivo e vitale, intelligente e sensibile» [BAZZANELLI, 2006]. Non c’è alcuna traccia del giudice impietoso: è stravolto, «nel luogo più disperato sulla terra», tormentato dall’odioso profumo delle rose e da un’emblematica emicrania, più «bruciante di un dolore infernale». Intuisce che, attraverso Gesù, sta entrando in contatto con qualcosa di assoluto, di eterno, che lo sollecita e lo turba al tempo stesso. In una parola: sta conoscendo l’amore. L’emicrania si placa, la sua vita mediocre e scialba sembra ad un punto di svolta. Ma non è abbastanza. Alla fine condanna Gesù, condannando se stesso alla «furia dell’impotenza, che strangola e consuma». Continua a ripetere: «Mi sento soffocare. Soffoco». Per duemila anni, relegato in un metafisico paesaggio roccioso, si tormenterà, espiando il suo rifiuto della verità. E sognerà: sognerà di percorrere una strada luminosa, che porta dritta verso la luna. Accanto a sé cammina proprio lui, quell’ebreo che ha mandato a morte. «Adesso staremo sempre insieme» lo rassicura. «Ricordati di me» risponde in un sussurro Pilato, appena prima di risvegliarsi.
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BIBLIOGRAFIA
- MATT. = Vangelo secondo Matteo, in La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1974
- BAZZANELLI 2006 = Introduzione di Eridano Bazzanelli a Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov, Biblioteca Universale Rizzoli, BUR, Milano, 2006
- PASCOLI, 1902 = Colui che fece il gran rifiuto di Giovanni Pascoli, in Il Marzocco, 27 (6 luglio 1902), p.1
- VON LE FORT, 1963 = La moglie di Pilato di Gertrude Von le Fort, in ID., L’ultima al patibolo, Massimo, Milano, 1963
- NIETZSCHE, 1992: L’Anticristo. Maledizione del Cristianesimo di Friedrich Nietzsche, Newton Compton, Roma, 1992.
- FRANCE, 2018 = Il procuratore di Giudea di Anatole France, traduzione e nota di lettura di S. Petrosino, Dehoniane, Bologna, 2018
- CENTINI 2006 = L’uomo che uccise Gesù. Storia e leggenda di Ponzio Polato, procuratore e giudice nella Palestina del I secolo di Massimo Centini, Ananke, Torino, 2006:
- TACITO, 1995 = Annali, 2 voll., Introduzione generale, cura e traduzione di Lidia Storoni Mazzolani, Collana Grandi Tascabili Economici, Roma, Newton Compton, 1995.
- FILONE: De Legatione ad Caium, Capitolo XXXVIII, versetto 299-303
- SCHIAVONE, 2016 = Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria di Aldo Schiavone, Einaudi, Torino, 2016
- GRAF, 1892 = Miti, leggende e superstizioni del medioevo (2 voll.), Loescher, Roma 1892-1893 ora riedito in versione integrale a cura di C. Allasia e W. Meliga, prefazione di M. Guglielminetti, saggi introduttivi di E. Artifoni e C. Allasia, Bruno Mondadori, Milano, 2002
- TERTULLIANO, 2006 = Opere apologetiche di Tertulliano, a cura di Ennio Sanzi, Città Nuova, Roma, 2006
- CAILLOS, 1963 = Ponzio Pilato di Roger Caillos, Einaudi, Torino, 1963
- CRAVERI, 1969 = Vangeli apocrifi con prefazione di Dario Fo; a cura di Marcello Craveri ; con un saggio di Geno Pampaloni, Torino, Einaudi, 1969
- JESI, 1978 = Il linguaggio delle pietre. Alla scoperta dell’Italia megalitica di F. Jesi, Milano, Rizzoli, 1978
- JORI, 2013 = Ponzio Pilato. Storia di un mito a cura di Giacomo Jori, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2013
- NARO, 2020 = Ciò che ho scritto ho scritto. Le rivisitazioni letterarie di Ponzio Polato nel Novecento a cura di Massimo Naro, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2020
- DURRENMATT, 2003 = Considerazioni personali sui miei quadri, in ID, Dipinti e disegni, Casagrande, Bellinzona, 2003
- BULGAKOV, 1977 = Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov, Bur, Milano, 1977
Autore: Mario Taccone
Revisione: Alessandro Ardigò
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