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La parola-cura: un percorso fra Levi e Dante

In copertina: Dante si perde nella selva (vedendo se stesso). Disegno dell’autore.

Introduzione
Nella scuola secondaria di secondo grado ad oggi è ancora pratica diffusa concludere il corso di Letteratura italiana con Eugenio Montale. L’autore ligure, per come lo si tratta a scuola, è soprattutto colui che nel 1925 pubblicò gli Ossi di Seppia, cosicché agire in questa maniera significa fermare la “contemporaneità” letteraria a cent’anni fa. La grande maggioranza degli studenti – per fortuna loro e per la società – non si specializzerà in Lettere e l’ultimo ricordo letterario sarà quello di una scuola che evita accuratamente il presente.

L’obiezione “non esiste solo il presente”, soprattutto per gli studi umanistici e culturali il cui nucleo è precipuamente storico, è fondata e corretta ma non può essere una risposta al problema di cui sopra.

In più, in particolare per il secondo Novecento, la definizione del canone di autori, cioè di quegli autori “assolutamente necessari” per ciò che comunicano ad una maggioranza civile, è un problema apertissimo anche al di là della scuola, e coinvolge intellettuali, società civile e università. Nei nostri anni si moltiplicano le occasioni di incontro e dibattito su questo tema e in poco si è passati – correttamente – a porsi domande e ridiscutere tutto il canone, dalle origini fino ai giorni nostri. Il motivo è semplice: basta chiedersi, ad esempio, “quante autrici donne ho presentato agli studenti nel corso del terzo e del quarto anno di studi?”. La risposta è invariabilmente “nessuna” (e non è che non ve ne siano di valenti [LINK]). La questione femminile non può essere l’unica sul campo, ma il riesame del canone, per essere strutturato, deve avere uno sguardo complessivo e discutere tutta quella che gli storici chiamerebbero la “great narration” della cultura occidentale.

La scuola è inevitabilmente toccata dalla contemporaneità e “fermarsi a Montale” evitando di entrare nel fuoco della controversia non è di certo la soluzione. Certo è che i docenti sono per la maggior parte del tempo inondati da problematiche educativo-pedagogiche e organizzativo-burocratiche che nulla hanno a che vedere con la coltivazione e l’aggiornamento della propria disciplina e che rendono il lavoro del docente ormai indistinguibile da quello di un impiegato o di un educatore tout court. Chiaramente  non si sta negando qui la funzione educativa del docente di Lettere, che è altissima, si sta solo ricordando che essa passa attraverso la presentazione della complessità e della molteplicità stilistica, etica, valoriale degli autori. Sono gli autori che educano.

Tornando al problema del Novecento alle superiori, una proposta molto concreta può essere questa: aumentare le ore disponibili. Invece di trattare, come è in uso soprattutto nei Licei, Inferno, Purgatorio e Paradiso rispettivamente al terzo, quarto e quinto anno, è possibile liberare la classe terminale accorpando le due cantiche superiori in quarta.

Tale proposta è già stata ampiamente sperimentata da chi scrive e discussa nelle opportune sedi. In particolare, essa fu uno dei punti toccati nella Summer school nazionale di didattica degli studi danteschi del 2021, in occasione del settimo centenario dalla morte di Dante, all’Università degli Studi di Verona. In particolare Luca Serianni entrò nel merito della questione supportando la proposta e sostenendo che il canone del Novecento dovesse essere uno sfidante “canone aperto”, in cui il singolo docente potesse davvero mettere in gioco le proprie peculiarità.

Un altro momento in cui si è discusso e avvalorato questa direzione sono state le riunioni in seno all’Adi-Sd Lombardia (associazione degli italianisti, sezione didattica),  ospitate dall’Università degli studi di Milano.
Nello specifico, in Adi-Sd, si è convenuto di non lasciare del tutto decadere Dante al quinto anno, ma di ricordarlo per tutti quegli autori contemporanei che da lui avessero attinto, in una sorta di percorso  “Dante del Novecento”.

Il presente intervento si volge in questa direzione e parte da un tema preciso:  quello della parola.

Sul fondo
Quando mi è stato chiesto di svolgere una riflessione sulla “parola”, o meglio sull’impossibilità della parola, dell’esprimersi attraverso di essa, alla mente sono occorsi diversi autori della nostra tradizione letteraria, autori che hanno affrontato il tema in maniera significativa e non superficiale.

Chi più rivendica in me l’urgenza “di esserci” è un contemporaneo, un chimico, un ebreo nemmeno praticante, passato attraverso l’internamento ad Auschwitz – più precisamente a Monowitz – e divenuto scrittore per l'”urgenza” interiore di raccontare, di accedere alla parola per esprimere la propria esperienza. È il torinese Primo Levi (1919-1987).

Tre sono le opere di Levi che riguardano da vicino il Lager: Se questo è un uomo, pubblicato nel 1947 per un piccolo editore – Da Silva – e ripubblicato nel 1958 da Einaudi; La tregua, edito nel 1963; e una riflessione tardiva sull’animo umano e sull’istinto di sopraffazione dell’uomo sull’uomo, I sommersi e i salvati, del 1986, pubblicato poco prima di morire – probabilmente suicida – in un clima di montante di revisionismo storico.

Se questo è un uomo narra della cattura da parte dei fascisti, della partenza dal campo italiano di Fossoli, dell’arrivo ad Auschwitz (22 febbraio 1944) e della permanenza in esso fino alla liberazione da parte dell’armata rossa (27 gennaio 1945). Al centro del libro vi è l’esperienza concentrazionaria, un’esperienza-limite di esposizione giornaliera alla dicotomia vita-morte, di esposizione agli stenti, di cancellazione di ogni tipo di valore morale non funzionale alla sopravvivenza. Con sguardo analitico, Primo Levi scruta a fondo i meccanismi di una lotta per la vita che nel campo quotidianamente si rinnova. È una lotta che devasta ogni dignità umana perché sono gli stessi internati – gli ultimi – a essere costretti, in uno stato di perenne bisogno, a schiacciarsi a vicenda per un mestolo di minestra, per suole integre per camminare nel fango dell’Alta Slesia, per uno strato in più di vestiti.

Levi descrive, in uno stile lucido e preciso, la perdita dell’umanità e i meccanismi dell’abiezione che conducono l’uomo ad essere un sommerso oppure ad essere un salvato. L’amara constatazione cui giunge l’autore, e che lo tormenterà tutta la vita fino alla stesura del saggio I sommersi e i salvati molti anni più tardi, è che in quel gigantesco esperimento sociale che era il Lager a salvarsi non furono i “giusti”, ma l’esatto opposto. Si salva chi riesce a sopraffare l’altro per salvare se stesso – e l’autore ha ben chiaro di essere egli stesso un salvato – .

In Levi, come in ognuno di noi, il racconto, la parola è tanto urgente dopo l’esperienza traumatica perché durante era invece assente, bloccata. La parola che racconta, che esprime, è una parola-cura proprio perché nell’internamento essa aveva perso la sua funzione: mettere in comunicazione l’interiorità della persona con la realtà e con il proprio simile.

Per certi versi, possiamo paragonare Se questo è un uomo all’Inferno di Dante. La prima percezione che Dante ha, passata la famosa porta ove è scritto “lasciate ogne speranza voi ch’intrate”, è di un ammasso di frasi che non significano nulla, che avvolgono l’individuo di una disorientante confusione: “diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d’ira, voci alte e fioche e suon di man con elle, facevano un tumulto”.

La parola perde la sua funzione e la sua profondità. La comunicazione è rotta e con la comunicazione si disgrega la relazione con l’altro. La simmetria relazionale è spazzata via: la parola “infernale” non è altro che la manifestazione tangibile di tale dissimmetria.

Lo stesso avviene nel Lager di Levi. L’umanità è persa mentre si perdono i nomi e i costrutti per rapportarsi con se stessi e con i propri simili. Le parole divengono cattive e “torcono la bocca” come “bocconi disgustosi”, scrive Levi.

Come per Dante, anche per Levi l’ingresso al Lager viene segnato da una perversione della parola. Ecco cosa succede all’ingresso del Lager, nella stanza per la disinfezione:

“Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così […] Non avevo mai visto uomini anziani nudi. Il signor Bergmann portava il cinto erniario, e chiese all’interprete se doveva posarlo, e l’interprete esitò. Ma il tedesco comprese, e parlò seriamente all’interprete indicando qualcuno; abbiamo visto l’interprete trangugiare, e poi ha detto: – Il maresciallo dice di deporre il cinto, e che le sarà dato quello del signor Coen –. Si vedevano le parole uscire amare dalla bocca di Flesch, quello era il modo di ridere del tedesco.”

Il lager è una babele di lingue in cui nessuno capisce nessuno per mezzo della  parola, cioè attraverso la ragione, ma esclusivamente attraverso gli istinti animali di sopravvivenza.

Più avanti, nel capitolo 9, I sommersi e i salvati, incontriamo le figure di Schepschel, Alfred L., Elias e Henri. Sono quattro salvati, cioè quattro individui sopravvissuti al campo. Sarebbero “i migliori”, i campioni che ce l’hanno fatta. Ma ci si accorge subito di essere in un Inferno al contrario. Ciò che ha consentito loro di vivere è l’inganno, la forza bruta, gli appetiti. Possiamo in qualche modo ritrovarvi la tripartizione aristotelica dell’inferno: incontinenti, violenti, fraudolenti. Ma nel lager sono salvati.

Cesare
L’uscita dall’inferno del Lager comporta un recupero della relazione di fiducia e affidamento all’altro, che è un recupero della parola. Ne leggiamo nel secondo libro di Levi, La Tregua, continuazione del primo, in cui l’autore racconta del viaggio quasi picaresco di ritorno a casa dopo la liberazione dal campo di concentramento. Un viaggio di migliaia di chilometri, durato ben nove mesi, da febbraio a ottobre 1945, un tragitto tutt’altro che rettilineo, tortuoso, fatto di espedienti e mezzi di fortuna, in un mondo ancora sballottato che si stava per dividere in due blocchi e che non aveva ben chiaro di che farsene dei sopravvissuti e dei profughi che a vario titolo dovevano tornare a casa. Ma è un viaggio verso la vita, verso la riemersione, verso la riappropriazione dell’umanità e, guarda caso, della parola.

Compare allora Cesare, il primo amico di Levi, amico perché condivide con lui il viaggio, ma anche le frasi che permettono loro di costruire un mondo in comune. Un mondo dove è possibile esprimersi, affidarsi all’amico.

Anche qui c’è un paragone immediato con Dante, non più con il poeta dell’Inferno, bensì con quello del Purgatorio. La seconda cantica è infatti caratterizzata da un ritorno all’umanità. Dante parla alle anime purganti con affetto, trattandole da salvate e pari sue. Sono dialoghi pieni di emotività quelli del Purgatorio, al contrario di quanto avveniva nell’Inferno o di quanto avverrà nel Paradiso. Dante è troppo “in basso” per un beato e troppo “in alto” per un dannato: ecco la dissimmetria che distrugge la parola e la relazione. Nel Purgatorio invece l’Alighieri ritrova l’amicizia che rende umani e con essa la parola. Sono molti i dialoghi d’affetto con i purganti. Vediamo il primo: Casella. Egli è un amico di giovinezza, che Dante cerca per tre volte di abbracciare sospinto da tanta emozione da dimenticarsi che fosse un’anima inconsistente. E cosa fanno i due amici? Ricostruiscono il loro mondo in comune: Dante ne elogia la dolcezza del canto (l’amoroso canto che mi solea quetar tutte mie doglie). Casella allora canta, ma  non una canzone qualsiasi, ma appunto quella una scritta dall’amico Dante (Amor che ne la mente mi ragiona’ cominciò elli allor sì dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi suona). Non c’è solo Casella. Mi limito qui a ricordare Sordello che entra in relazione con Virgilio, e Guido Guinizzelli.

Hurbinek
Vorrei chiudere questa riflessione tornando però all’Inferno, nell’inferno di Levi, con una storia che può essere da monito a me e a tutti, per ricordare l’importanza della parola, del trovare parole che siano adatte a noi. Lo sforzo di trovare “parole nostre” deve essere di noi stessi, certo, ma anche del mondo che ci circonda, che permetta ad ognuno di intonare il proprio canto.

La storia è quella del piccolo Hurbinek, un figlio di Auschwitz, un bambino che a questa parola non ha avuto accesso:

Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva.
Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.
Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno più che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di baci, ma fuggivano la sua intimità.
Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e paziente. Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek «diceva una parola». Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come «mass-klo», «matisklo». Nella notte tendemmo l’orecchio: era vero, dall’angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata; o meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome.
Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavamo in silenzio, ansiosi di capire, e c’erano fra noi parlatori di tutte le lingue d’Europa: ma la parola di Hurbinek rimase segreta. No, non era certo un messaggio, non una rivelazione: forse era il suo nome, se pure ne aveva avuto uno in sorte; forse (secondo una delle nostre ipotesi) voleva dire «mangiare», o «pane»; o forse «carne» in boemo, come sosteneva con buoni argomenti uno di noi, che conosceva questa lingua.
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento.
Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.

Fine
Autore: Alessandro Ardigò

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