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Il presente articolo è la trascrizione dell’intervento «I Malavoglia e l’Albero degli zoccoli» tenuto per l’aggiornamento docenti durante la Giornata nazionale della Letteratura, organizzata da Università degli Studi di Milano e ADI-SD (Associazione degli italianisti) il 10 novembre 2022.
Testo letterario e testo filmico, tre modi per scegliere
Accostare letteratura e cinema è spesso didatticamente fruttuoso e culturalmente arricchente per studenti e docenti. Tale pratica risponde in pieno alle richieste delle Linee Guida e delle Indicazioni Nazionali, in cui a più riprese si afferma che è bene per lo studente del triennio “approfondire la relazione e i rapporti fra la letteratura e le altre espressioni culturali”. (Per un confronto sinottico fra Linee guida per gli Istituti Tecnici dalle Indicazioni Nazionali per i Licei si rimanda a di G. NOTO, Competenze filologiche nella scuola e per la scuola).
A maggior ragione, ciò può essere valido in un Istituto tecnico o professionale, dove l’educazione culturale in prospettiva storica è sovente affidata unicamente al docente di Italiano e Storia. Certo, l’accostamento fra testo letterario e testo filmico deve essere significativo e in grado generare senso: lungi dall’essere un momento inerte riservato a classi difficili, la scelta di uno “spezzone” di film da parte del docente dovrebbe mirare a che il testo filmico e quello letterario si illuminino vicendevolmente, facendo emergere sensi e significati specifici che un lavoro di comparazione, prezioso per lo sviluppo del pensiero critico e della sensibilità culturale, non può che sottolineare e rendere più vividi (Si veda M. Cerkvenik, Dalla letteratura al cinema: l’utilizzo didattico del film nell’educazione letteraria).
Per ciò che concerne la mia esperienza, opera filmica e opera letteraria possono essere avvicinate seguendo diversi criteri. Il più comune in un contesto scolastico è la trasposizione, più o meno fedele, di un testo letterario in un film: si pensi a Il Decameron di Pasolini (1971), o a La terra trema di Luchino Visconti (1948) per rimanere in tema verghiano, ma di esempi se ne potrebbero citare davvero tanti. Altrettanto immediata, in termini didattici, è la trasposizione filmica della biografia di un autore: si veda, fra i tanti, il recentissimo Dante di Pupi Avati (2022), oppure Il giovane favoloso di Mario Martone (2014) sulla vita di Giacomo Leopardi.
Molto più significativo sarebbe un approccio di tipo sincronico. Cercare, cioè, di tracciare il quadro culturale di riferimento di un’epoca utilizzando brani letterari e spezzoni filmici di uno stesso periodo. La ricchezza di spunti, domande e problemi sarebbe davvero notevole. L’esempio più tipico cade sugli anni del Neorealismo, per i quali è possibile mescolare testi del primo Calvino o di Pavese con spezzoni di film di Roberto Rossellini o Vittorio de Sica. Per quanto ricco, questo approccio è di applicazione talmente limitata ad un pezzetto di storia letteraria, coincidente, grosso modo, con gli ultimi sgoccioli di lezione del quinto anno, da essere francamente difficile da proporre a scuola.
Una terza via, funzionale ed intermedia fra la trasposizione e la sincronia, è quella tematica. In questo caso il docente accosta film e letteratura agganciandosi a temi o visioni o soggetti comuni. È questo terzo ed ultimo approccio che intendo proporre in questa sede.
Verga e Olmi, perché no
Da qualche anno a questa parte, quando presento Verga, il Verismo ed in particolare i Malavoglia, integro la spiegazione con spezzoni tratti da L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. Le vicende narrate sono pressoché coeve (I Malavoglia si svolge a cavallo fra gli anni ’60 e ’70 del XIX secolo, mentre L’albero degli zoccoli fra il 1897 e il 1898) ma bisogna sottolineare che fra le due opere intercorrono cent’anni (1881-1978).
Soprattutto, vi sono delle divergenze ideologiche fra i due autori. Infatti, se volessimo essere più aderenti alla visione “verista” di Verga, potremmo proporre, oltre al già citato La terra trema di Visconti del 1948 – immediato collegamento didattico -, qualcuno dei bellissimi documentari di Vittorio De Seta (1923-2011). Penso, ad esempio, a Lu tempu di li pisci spata del 1954. Qui il punto di vista spiccatamente antropologico e l’oggetto rappresentato sono più vicini a Verga rispetto ad Olmi. Inoltre, per la sua breve durata, questo documentario si presta ad essere facilmente integrato nell’ora di lezione. Il documentario è visibile qui:
D’altro canto, se volessimo aderire al punto di vista di Ermanno Olmi, faremmo meglio a mostrare agli studenti i quadri del pittore Jean-François Millet (1814-1875), con i suoi contadini in preghiera, così vicini alla visione spirituale del regista:
A proposito dell’atteggiamento dei contadini in preghiera de L’Albero degli Zoccoli, rappresentanti troppo proni e mansueti delle classi subalterne, secondo molti critici di quegli anni, ci fu un aspro dibattito fra Olmi e Moravia: “Ci fu una polemica fra me e Moravia, il quale diceva che nel mio film soltanto il cavallo si ribellava alle angherie del padrone. […] Quando Moravia fece quelle affermazioni commentai che aveva tutto il diritto di dire ai contadini come sono i contadini, ma che allo stesso modo i contadini avrebbero avuto il diritto di dire agli intellettuali come sono gli intellettuali. Credo però che Moravia si sarebbe ribellato. So io come sono gli intellettuali, avrebbe detto”. In E. Olmi, Il sentimento di realtà, a cura di D. Padoan, Editrice San Raffaele, Milano 2008, p. 32. Radicalmente diverso invece è il senso di religiosità nel romanzo di Verga.
In ambito letterario dovremmo invece orbitare attorno a figure come Alessandro Manzoni, senz’altro lo scrittore italiano preferito dal regista trevigliese, assieme al russo Lev Tolstoj. Di Manzoni e dei suoi Promessi Sposi Olmi ammira in particolar modo la struttura narrativa, che sente vicina al suo modo di comporre i film, poiché alterna momenti di narrazione a lunghe pause – interi capitoli – di riflessione sulle vicende narrate (Cfr. E. Olmi, Il sentimento di realtà, a cura di D. Padoan, Editrice San Raffaele, Milano 2008).
Altro autore spesso citato da Olmi è Pier Paolo Pasolini. I due avevano collaborato nel 1956 come documentaristi per la realizzazione di Manon finestra 2, nel periodo del cosiddetto “cinema industriale” per la Edison. Quest’ultima voleva mostrare al grande pubblico il progresso portato dalla costruzione di grandi opere, come le dighe, in luoghi impervi. Lo sguardo di Olmi, invece, già negli anni ’50, seppur lontano da una denuncia diretta, tende più o meno istintivamente a contrapporre l’acciaio ed il cemento con l’uomo e la natura. Olmi si sente affraternato a Pasolini per l’origine contadina, che getta una comune luce di lettura sulla nuova realtà industriale italiana di quegli anni.
[Io e Pasolini] sentivamo con forza quel momento di passaggio [gli anni ’50] che avrebbe cambiato l’Italia. Nella seconda metà degli anni Cinquanta la nostra generazione – Pier Paolo aveva qualche anno in più di me – si è trovata di fronte alla fine del boom economico, della grande trasformazione dell’Italia da un paese agricolo in uno industriale.” Ibid. p. 67.
In ultimo, bisogna dire che la fonte diretta de L’albero degli zoccoli è sì la storia di una famiglia di pescatori alle prese con la lotta per la sopravvivenza, proprio come i Malavoglia, ma è una vicenda ambientata ben più al nord di Aci Trezza. Si tratta del documentario drammatico Man of Aran (1934), del regista americano Robert J. Flaherty (1884-1951). Questo “documentario poetico”, come è stato definito dalla critica, mostra la vita di una famiglia di pescatori irlandesi alle prese con la sopravvivenza nelle nordiche ed inospitali isole Aran.
Si può sintetizzare la differenza di visione ideologica fra Giovanni Verga ed Ermanno Olmi mettendo a confronto, come si approfondirà più sotto, i motivi che muovono l’intera narrazione. Da una parte, ne I Malavoglia, è la famosa “irrequietudine per il benessere” e le “perturbazioni” che essa arreca ad una “famigliuola, vissuta fino ad allora relativamente felice”. Ne L’Albero degli zoccoli, invece, lo sradicamento della famiglia contadina “dal suo scoglio”, anche se in questo caso sarebbe meglio dire “dal suo albero”, è causato da un ben più commovente – e forse anche moraleggiante – diritto allo studio del piccolo Mènec.
Ma allora perché Verga-Olmi, o meglio I Malavoglia-L’albero degli zoccoli?
Prima ancora dello sguardo verista di Verga e documentarista di Olmi, entrambe le opere sono accomunate dal racconto della crisi di una civiltà arcaica legata alla terra e al mare. Le accomuna la tensione drammatica di un mondo ciclico che vuole resistere ai colpi di un mondo che è invece storico. È la sfida per la sopravvivenza del nucleo/clan familiare patriarcale a contatto con gli eventi esterni da una parte e con la Natura dall’altra. La differenza è che gli affanni portati dalle traversie naturali, come tempeste, malattie o siccità, fanno parte di quel mondo chiuso e sono accettati nel sistema di valori. In entrambe le narrazioni il simbolo della solidità è una concretissima casa: la casa del nespolo da una parte e la cascina lombarda dall’altra. E in entrambe le narrazioni quel guscio è perso, non solo come luogo fisico, ma anche e soprattutto come luogo antropologico, come luogo di valori che vengono trasmessi, soggetto agli urti di strutture economiche e culturali che spingono invece nella direzione dalla fiumana del progresso. È lo schema narrativo di base, è il dramma, quindi, a portare con sé una precisa tensione comune alle due opere. Esse in qualche modo “uniscono” i vissuti delle classi subalterne d’Italia legate al settore primario, da Sud a Nord. Tale struttura narrativa è incarnata da due personaggi di primo piano, perché definirli “protagonisti” in una narrazione corale sarebbe problematico. L’uno quasi nemesi dell’altro. Uno estremamente innocente, l’altro estremamente conscio della disgregazione di cui è portatore, sia verso se stesso che nei confronti del nucleo familiare. Sono il piccolo Mènec (in italiano Domenico) e il giovane ’Ntoni. Non importa quanto distanti essi siano su un’ipotetica scala di “innocenza”: allo stesso modo mettono in crisi la tradizione che è il cemento del mondo pre-industriale. Possiamo affermare che è la loro individualità a far collassare la coralità contadina, in cui è giusto ciò che è prescritto dalle abitudini. Le vicende del giovane ’Ntoni in questa sede le conosciamo bene e si sviluppano in rapporto al suo rifiuto dell’etica/epos del lavoro, vera architrave di quel mondo. Il piccolo Mènec, invece, è destinato alla scuola. La scuola però è fuori dalla dimensione contadina. È al di là della “linea di demarcazione”, per dirla con Olmi, “fra mondo antico e mondo moderno”. Quando il parroco dice al Batistì, il papà di Mènec, che il figlio deve andare a scuola perché è portato per lo studio, tornando in cascina il padre dice alla moglie Batistìna “I diserà cösé i öter?”, cioè “Cosa diranno gli altri?”. Ecco il giudizio del villaggio, così profondamente interiorizzato nelle coscienze individuali di entrambe le storie. I personaggi de I Malavoglia e quelli di Olmi percepiscono come sbagliato ciò che è fuori dalla tradizione, perché nel mondo pre-industriale il saper agire e comportarsi secondo l’usanza è la strada maestra per la sopravvivenza. Ne L’Albero degli zoccoli il “villaggio” è fisicamente tutto chiuso all’interno del muro di cinta della cascina e non vi è alcuna differenza fra la dimensione pubblica e privata dell’esistenza, esattamente come ne I Malavoglia. La prima mattina in cui il piccolo Mènec si sveglia all’alba per andare a scuola, di nascosto dallo sguardo degli altri (e facendosi sei chilometri a piedi) la telecamera, appena egli esce dalla “soglia” che delimita la cascina, si sposta su un vecchio, un nonno, che spiega alla piccola nipotina come utilizzare il letame delle galline. Ecco il confronto con l’educazione tradizionale: è un sapere concreto, che non ha bisogno di banchi e che passa dal lavoro manuale.
La coralità di storie è comune alle due opere, perché nel mondo contadino e quello dei pescatori non c’è spazio per un’eccessiva individualità, a meno, appunto, di non abbandonare quel mondo. Ne L’albero degli zoccoli si intrecciano le vicende della famiglia del Batistì, della vedova Runc, dei fidanzati Stefano e Maddalena e della famiglia Finard. Certo, a differenza che in Verga, queste storie sono intrise di una forte spiritualità. Vi troviamo forte l’idea di grazia. Ne percepiamo la presenza, ad esempio, quando le musiche di Bach si mescolano ai ritratti dei paesaggi rurali, e nella bellissima scena della nevicata che riduce la terra in silenzio.
Olmi infatti avrà modo di dire: “Io sono figlio di quella terra e quindi per me è come fare il ritratto della madre. La madre la riconosciamo davvero quando è perduta. Quando l’abbiamo accanto la madre è una realtà che ci spetta, non ne siamo del tutto coscienti. Quando ci viene a mancare, allora, cerchiamo nella memoria di ricomporre il suo volto, sentire le voci, avere addirittura una sensazione palpabile del ricordo… e questo somiglia molto al cinema”. Altro aspetto su cui riflettere e lavorare con gli studenti è certamente quello della lingua. Se è vero che le scelte di Verga e Olmi sono differenti, è anche vero che ci sono delle forti evidenze che le accomunano. Il giudizio del villaggio, ad esempio, viene espresso tramite un abbondantissimo uso di proverbi. Sono dei veri e propri mattoni linguistici con cui viene edificata la cultura dei pescatori e dei contadini; sono uno dei banchi della loro scuola. Sarebbe interessante proporre agli studenti di trascrivere i proverbi de I Malavoglia e quelli de L’albero degli zoccoli per confrontarli e capire se e in quali valori il Sud e il Nord dei braccianti del secondo Ottocento fossero differenti. Inoltre, la lingua di entrambe le opere è una lingua che non penetra nell’intimo individuale, ma racconta solo ciò che si può vedere dal di fuori (anche se è evidentemente diverso il grado di compartecipazione emotiva di due narratori).
Ciò, oltre ad essere una esplicita questione di stile – verista da una parte e documentarista dall’altra – è frutto del rapporto interno fra individualità e coralità cui si accennava più sopra. Entrare nell’intimo di un personaggio significherebbe, infatti, esaltarne eccessivamente l’individualità, che è proprio quello che viene rifiutato da quel mondo. Olmi opta per il dialetto bergamasco e, ribadisce in più interviste, non ha dubbi. Anzi, il fatto che del suo film verrà approntata anche una versione in italiano gli farà storcere il naso. Una cultura e la lingua che la esprime sono intrinsecamente inscindibili: per i contadini l’italiano era la lingua dei padroni, e non era capita, né parlata, né tantomeno condivisa. Farli parlare in italiano significava in qualche modo tradirli.
Con il riferimento ai “padroni”, cioè ai grandi proprietari di quasi tutti i beni immobili del “villaggio”, si tocca un aspetto centrale delle due opere. Vi sarebbe infatti un profondo lavoro di scavo e discussione da fare con gli studenti sulle strutture economiche in cui sono incardinate, a fine Ottocento, le vite dei pescatori del Sud e dei contadini del Nord. Analisi letteraria, che, per sua stessa natura, si fonde interdisciplinarmente con l’insegnamento della Storia, ma anche con diverse altre materie a seconda dell’indirizzo di studi (penso a Scienze umane, oppure a Diritto ed economia e via dicendo).
Certo, come docenti dobbiamo evitare che il messaggio originale venga distorto per divenire funzionale ad altri messaggi estranei alle intenzioni dell’autore. Questo è un nodo scoperto delle strutture comunicative del presente in cui siamo immersi che, come ogni presente, è soggetto alle proprie dinamiche culturali e morali. In particolare, per quanto riguarda Verga, si è consolidata una certa abitudine scolastica di collegare i suoi romanzi e le sue novelle a temi come lo sfruttamento del lavoro minorile. Ciò è certamente lecito, ma va specificato agli studenti che la forza narrativa e drammatica dell’opera sta, al contrario, nella non partecipazione emotiva del narratore in situazioni che il lettore sente invece come profondamente ingiuste. La potenza delle narrazioni avviene proprio in forza del distacco del narratore, che poi rappresenta il villaggio giudicante, nei confronti della sofferenza degli esclusi. Si pensi solo al funerale di Bastianazzo, in cui il narratore corale è in realtà tutto concentrato ad arrovellarsi sui risvolti economici del naufragio della Provvidenza.
Un simile meccanismo narratologico viene impiegato anche da Olmi. Nella scena finale, la famiglia del Batistì è spogliata dei beni dal fattore al soldo del padrone e viene scacciata dalla cascina per un motivo che alla coscienza di ogni spettatore grida vendetta. La scena però è raccontata da inquadrature da lontano, riprese precisamente dalle inferriate delle altre abitazioni della cascina. Tutti gli occhi dei contadini della cascina, quindi, seguono attentamente la povera famiglia senza più una casa, ma nessuno esce a rivendicare giustizia, nessuno interviene. Nessuno reagisce alla coercizione, nemmeno il Batistì, perché tutti, in qualche misura, condividono i valori e giustificano il potere che ha portato a quello sfratto. Chi guarda il film se ne accorge e questa discrepanza non fa che aumentare il pathos e la percezione di ingiustizia.
Per ora, quello che [i contadini] possono fare è dire il rosario “per chéla poera zet” (per quella povera gente). La religione dunque. I contadini di Olmi continuano a farsi segni di croce, a dire giaculatorie, a recitare preghiere, a frequentare la chiesa. Secondo la nostra ottica, sono dei codini, dei bigotti.[…]
E ancora:
Mi indignava il fatto che quei disgraziati trattati da cani da un padronato senza cuore e senza scrupoli reagissero pregando, anziché a colpi di forca. Sono passati oltre trent’anni da quando uscirono quei film e oggi, ripensando all’opera di Olmi, capisco perché è molto più verosimile la storia di quei contadini che biascicavano il rosario, piuttosto che la saga emiliana di Bertolucci tutta scioperi e bandiere rosse. E. COMUZIO «L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi»
Fine.
Autore: A. Ardigò
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